Prefazione a
Donne in fuga
di Roberta Degl'Innocenti

Alessandro Resti
Nell’accingermi a dare forma a queste note di presentazione,
confesso di aver provato una sensazione che sperimenta spesso chi scrive per
professione (e non è propriamente il mio caso) o per ispirazione artistica
(evenienza, questa, che decisamente non mi compete…): l’ansia del foglio bianco.
Una sensazione inattesa, non sgradevole, “insolita”, per mutuare un termine
utilizzato con una ben precisa accezione dall’autrice in uno dei suoi racconti.
La stranezza sta nel fatto che la lettura del libro era stata talmente facile,
gradita e veloce da potersi dire, senza enfasi, un “divorarlo di getto”.
Era come se la riflessione sul testo imposta dal compito di
prefatore stesse producendo dentro di me (lo avvertivo chiaramente) più che un
giudizio analitico un susseguirsi di sensazioni, apparentemente disarticolate
tra loro.
Una più compiuta elaborazione successiva mi ha condotto a
decifrare questo “insolito” vissuto come un benefico contagio (il cui senso sarà
chiaro in seguito), del quale essere grato a Roberta Degl’Innocenti; un
transitorio condividerne una pulsione profonda.
Il titolo dell’opera parla di “fuga”; il vocabolo, in sé
oggettivamente appropriato al contenuto manifesto dei racconti, appare in realtà
solo parzialmente pertinente.
I protagonisti delle storie narrate sembrano infatti, ad una
lettura più attenta, tutt’altro che dei fuggitivi. Non sono degli sconfitti, non
accolgono al proprio interno angosce disarmanti; non abbandonano il campo.
Scelgono, piuttosto, di uscire dal contesto loro assegnato, identificando più o
meno lucidamente un simile comportamento come premessa obbligata di
affrancamento psicologico ed esistenziale.
Potremmo dire che abitano, con
diversi gradi di consapevolezza, una sorta di universo parallelo.
L’architettura del libro
prevede la presentazione di cinque figure femminili (Fiore, Esterina, Lucetta,
Valli e Camilla) alle quali fa corona una piccola folla di personaggi che in
certi casi, data la loro vitalità, è difficile definire minori.
Alcuni di questi appaiono così
nitidamente delineati nella propria individualità da produrre sincera
meraviglia. Meraviglia ad esempio, rispetto alla sorprendente capacità
dell’autrice di tratteggiare (con sapienza “tecnica”, viene da affermare) dei
veri bozzetti psicopatologici, con una precisione al limite della padronanza
dottrinaria specifica. Penso a Poldo, a Lupo e soprattutto ad Anita, una delle
più vivide e credibili figure di anoressica che mi sia accaduto di incontrare
nelle pagine di un testo, includendo con piena sincerità in questo novero anche
trattati di ordine scientifico!
Una lettura superficiale
potrebbe portare a scorgere nel libro venature di natura femministica, sia pure
di un neo-femminismo “illuminato”; il titolo stesso può indurre, in fondo, a
questa tentazione. Ma non mi pare, davvero, che una simile chiave di lettura sia
corretta.
La riflessione che Roberta
Degl’Innocenti opera attiene alla condizione umana, non alla condizione
femminile.
E’ vero, certo, che le
protagoniste sono donne; è vero che su cinque figure femminili si organizza,
dichiaratamente, la struttura del libro. Ma i personaggi maschili che si
avvicendano nelle storie raccontate condividono spesso e senza differenze il
medesimo “male di vivere”, partecipano la medesima ansia salvifica, sperimentano
lo stesso profondo ed oscuro bisogno, non rappresentando affatto in senso
categoriale la sopraffazione e la brutalità. L’autrice rifugge da scontate
equazioni generalizzanti.
Il filo rosso che attraversa i
racconti, allora, non è il desiderio di fuggire di Fiore, Esterina, Lucetta,
Valli e Camilla, ma è l’ansito di vita dell’uomo in quanto tale, la difficile
tensione alla felicità, la ricerca spesso penosa della propria autenticità.
Un’analisi anche marginalmente
filologica del libro permette di evidenziare la straordinaria centralità di due
elementi tra loro intimamente e naturalmente connessi: i fiori e il tema del
colore.
I fiori compaiono, spesso da
protagonisti, in sette dei nove capitoli nei quali è organizzata l’opera. Ed il
rapporto che i personaggi intrattengono con essi è un rapporto di contiguità
psicologica e di continuità fisica. I fiori “rappresentano” e i fiori
strutturano con l’elemento umano un legame di corporeità. Una valenza metaforica
nei significati più consueti di levità, cromatismo, delicatezza, libertà,
caducità; ma anche una realtà materiale da possedere, stringere, stendere,
sbriciolare, odorare, masticare, far divenire parte di sé, fino a creare un
unicum del tutto indistinguibile.
Considerazioni sostanzialmente
sovrapponibili valgono per la ricorrente tematica del colore. “Si possono
mangiare i colori?” si chiede Camilla nell’ultimo dei racconti del libro; e
conclude che questo è possibile, sino a strutturare per questa via una più ampia
e completa identità.
Il colore appare per i
personaggi delle storie narrate (e per chi ha una maggiore conoscenza letteraria
dell’autrice il rilievo è lontano dal sorprendere) assai più che un elemento
costitutivo della realtà circostante, assumendo i toni di un bisogno metafisico,
di una vera nebulosa necessità.
Colori decisi, smaglianti: dal
cobalto del cielo al rosso dei gerani, dal “lago giallo” della tazza di
camomilla all’amaranto del costume da bagno che occhieggia dalle pagine di una
rivista. Contrappunto di questo vivido cromatismo il bianco e il nero, il non
colore, inteso come sostanziale assenza di forza vitale.
Il bianco dei camici della
“casa dei matti” (rappresentazione emblematica della razionalità coercitiva di
cui in seguito diremo), le lenzuola del letto della stanza che accoglie l’amore
mercenario di Valli (“Bisognerebbe macchiarle di rosso o di sangue per renderle
vive”)…
Il nero della notte che ingoia
le lucciole venute dall’est, il buio che avvolge Camilla in un’angosciante
prigionia senza fine.
E talora la metafora si fa
talmente scoperta da configurarsi come un’enunciazione chiara, senza più molto
di allegorico. Penso che al dipingersi di una V sulla fronte di Valli nel suo
slancio di ribellione (“I pellerossa si colorano con i simboli della guerra”);
penso alla domanda che l’io narrante si pone al proposito della strana
metamorfosi che si offre agli occhi di Poldo nel giorno della chiusura del
manicomio che l’accoglieva (“Si può comprendere un camice bianco divenuto una
maglia morbida piena di farfalle colorate?”).
Le vicende descritte da
Roberta Degl’Innocenti, piane e prive di volute asperità lessicali o
contenutistiche, disegnano tuttavia atmosfere talvolta oniriche e, probabilmente
al di là delle sue stesse intenzioni, non di rado originano nel lettore un senso
di sottile inquietudine, costringendo a più riprese a fare i conti con la
propria zavorra razionalistica.
La narrazione appare
frequentemente pervasa di sensorialità pura, sottratta coscientemente
all’ipoteca di ogni tradizionale ragionevolezza (di qui il transitorio contagio
del quale si discuteva in apertura di questa prefazione). Concetto questo non
nuovo nell’universo poetico dell’autrice: l’affermazione del Sé autentico è
avvertita possibile solo a prezzo del sacrificio di un autocontrollo razionale
vissuto come fattore di isterilimento emozionale. Ciò fino ad includere in
questo ruolo di potenziale impoverimento dello spirito la stessa percezione
corporea (“Gli anni del buio…hanno allargato la mente chiudendo gli occhi”).
Ho parlato di universo poetico
di Roberta Degl’Innocenti: l’aggettivo non è frutto di un lapsus calami.
La sua prosa trascende infatti spesso, e consapevolmente, a conformazioni
espressive di carattere poetico, in una creazione stilistica decisamente
personale di vera originalità che tradisce una matrice artistica mai rinnegata.
E forse risiede proprio in
questo una delle principali valenze dell’opera, nel connubio riuscito di
osservazione psicologica e di libera espressione artistica, di riflessioni di
ordine genericamente sociale e di affermazioni di totale liricità.
E’ in questa
dimensione che l’autrice pare talvolta abbandonare con naturalezza, e senza che
ne derivi alcuna disarmonia, il registro dell’analisi introspettiva dei suoi
personaggi per deragliare felicemente nel terreno della poesia. Esercizio
complesso e ambizioso, risolto da Roberta Degl’Innocenti con innegabile
successo. |