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Lucio Zinna

in: Tommaso Romano,
Il fare della Bellezza. Noterelle siciliane tra etica ed estetica
,
Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, Palermo 2006.

Lucio Zinna (Mazara del Vallo, 1938) è letterato fra i maggiori della Sicilia contemporanea.

Poeta, narratore, critico letterario, animatore di riviste e gruppi letterari, vive dai tempi universitari a Palermo, (dove si laurerà in Pedagogia e Filosofia) con stile, discrezione e consapevolezza, a volte con voluta e distaccata (apparentemente) assenza dai gorghi della società letteraria della capitale dell’isola.

Zinna, esordì giovanissimo in poesia con una plaquette Al chiarore dell’alba (1954) a cui hanno fatto seguito II fìlobus dei giorni (1964) ospitato ne “I Quaderni del Ciclope” diretti da Giuseppe Ganci Battaglia, Antimomium 14 (1967) fra narrativa e poesia, Un rapido celiare (1974) per i “Quaderni del Cormorano”; testi emblematici di una fervida stagione di ricerca e di prospettive nuove per la letteratura (pensiamo ad Antonio Pizzuto) sbocciate con il Gruppo ‘63 (presente in Sicilia con l’operosità sperimentale di Michele Perriera, Gaetano Testa, Roberto Di Marco) e poi − animata proprio da Zinna − con il Gruppo Beta (Elvezio Petix, Giovanni Cappuzzo, Melo Freni, Castrense Civello, Aurelio Pes, Angelo Fazzino, Gianni Diecidue fra i nomi più significativi e partecipi) e infine con l’Antigruppo di Pietro Terminelli, Crescenzio Cane, Nat Scammacca e Ignazio Apolloni.

È con Sàgana (1976) che Zinna perviene alla sua piena maturità stilistica, inconfondibile nel linguaggio e nel dettato metaforico, sempre consapevole tuttavia dei rischi e dei sommovimenti tellurici della condizione umana e della stessa irripetibile propria avventura personale.

Non so se sulla ormai copiosissima e qualificata bibliografia critica sul nostro Autore, qualcuno abbia mai collegato una parentela ideale con Max Stirner (vero anticipatore di Nietzsche ed anche di Ernst Junger) autore di un solo e fondamentale libro L’Unico, riduttivamente e troppo spesso frettolosamente indicato come la “bibbia dell’anarchismo”. A me pare appunto che il poeta di Mazara non solo vada studiato e letto nel cuore della tensione novecentesca italiana, ma vada ricondotto proprio ai primordi della tentazione nichilista già così presente per tutto l’ottocento europeo.

Individuando nel dato individuale, familiare, domestico e territoriale da cui si dipanano questa e le altre straordinarie Opere di poesia di Lucio Zinna, il nucleo forte della sua scrittura lirica e la stessa ispirazione ideale certo non a caso titolata Bonsai(1989) La Casarca (1992) La Porcellana più fine (2002).

Testimoniano queste raccolte di versi di un sentiero irto che riconducono all’interiorità originaria al viaggio entronautico (parafrasare Piero Scanziani), partendo appunto dalla biografia, degli avvenimenti grandi e piccoli del quotidiano, filtrate con civile compostezza e con sottilissima, qualche volta difficilmente decifrabile, critica ironia dell’altrove.

Zinna che pur non è stato sicuramente assente dall’agone letterario e dal dibattilo critico (ha diretto Sintesi, Arenaria, ha fondato l’Istituto Siciliano di Letteratura Contemporanea e Scienze Umane, ha collaborato alla RAI e a moltissime gazzette) in fondo è però un solitario interprete del disagio, civilissimo sulla denuncia del tempo amaro che ci è dato vivere e implacabile nella sottolineatura della condizione siciliana, a Zinna, otto anni prima di Gesualdo Bufalino, si deve il conio di isolitudine! sostenuta da un’etica ferramente legata alla dignità della condizione delle creature tutte (compresi gli animali, gatti in particolare, di cui Zinna ha cantato versi memorabili) e inserita in un quadro di riferimento filosofico libertario ed eticamente rigorosissimo, in grado così di costruire ammutinamento, una zona franca, che è al contempo geografica, geometrica e spirituale.

Per tale ragione la poesia di Zinna diviene emblematicamente universale, si fa tale proprio a partire dalla propria condizione, senza per questo voler essere poesia di ammaestramento.

La stessa scelta radicale di Zinna, pur con tentazioni sempre latenti di esodo dalla terra madre (e matrigna) è testimonianza di un radicamento che è pratica quasi stoica, non indifferente, dignitosa nella constatazione amara della tragicità del disastro (cfr. Abbandonare Troia) ma al contempo indicante proprio nella poesia ancora trascendente, la rivitalizzante opportunità di sciogliere i legami con la dissoluzione, la violenza, la sciatteria e il basso edonismo (cfr. Il verso di vivere antologia del 1994, in cui è compreso il poemetto De rebus Siciliae).

Zinna è una presenza letteraria molto considerata dagli osservatori di letteratura più seri e avveduti, inevitabilmente (con nobili eccezioni quali Elio Giunta, Francesco De Nicola, Salvatore Ferlita, Raffaele Pellecchia) ancora non compiutamente studiato e pensato come autentico maestro dalla sorda società delle lettere conformisticamente “ufficiale” e “accade-mica” specie quella isolana, metafora anche questa di “distrazioni” che non rendono evidente i meriti!

Proprio a Zinna, a tale proposito, si debbono fondamentali recuperi letterari a cominciare da Salvatore Spinelli e al suo “Mondo Giovine”, e Giuseppe Ganci Battaglia, Orazio Napoli, Angelo Fiore e all’opera narrativa di Virgilio Titone.

Nulla comunque inficia la geniale alta e rigorosa produzione complessiva di Zinna, che ha molto prodotto in anni e anni di cenobitica attività, e che ci continua a centellinare perle di qualità. Non dimentichiamo, infine, le due Opere di ricerca intensa e di narrazione dedicate al caso di Ippolito Nievo (1980 e 2006) e quelle di puro racconto a cominciare da Il ponte dell’Ammiraglio e altre narrazioni (che pubblicai con Thule nel 1986) al Trittico Clandestino (1991) e a Quando bevea Rosmunda (2002).

Clamori e premi corrotti dal denaro e dagli interessi delle sette scompariranno presto come ogni luce artificiale e il chiarore non mancherà alla sintesi del tempo per l’opera zinniana. Ne siamo certi.

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