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Villa degli Orti Redi: Un giardino aretino da riscoprire
Scrivevo tempo fa in una breve nota che una grossa lacuna era stata colmata con l’uscita del libro Villa degli Orti Redi- Un giardino aretino da riscoprire, di Anna Bartolini e Patrizia Fazzi, Prometheus, 2016. Edizione curatissima, 189 pagine in carta patinata, splendide fotografie in bianco e nero e a colori, nel testo e fuori testo (Euro 22). Un libro che non potrà mancare nella biblioteca degli aretini veraci e degli appassionati di storia. Ora preciso meglio le mie impressioni in relazione al libro, confermando per prima cosa che è esauriente, anzi esaustiva, la trattazione di tutti gli aspetti ambientali, artistici, storici e socio-culturali di quello che è stato fino a poco tempo fa un luogo magico degli aretini, finito lentamente fuori degli itinerari di visita della città ed oggi gelosamente custodito dalle Suore Carmelitane Scalze. Luogo magico di passeggiate è stata la Villa per tanto tempo, ed anche di svaghi e di vita mondana (basti citare il Carnevalino degli Orti Redi, come ricordano le stesse autrici) e luogo mistico oggi, immerso nel silenzio della meditazione e della preghiera, mentre dalla vasta biblioteca si levano le voci immateriali e misteriose di teologi, filosofi, poeti e scienziati naturalmente.
Il libro consta di due parti ben distinte, che concorrono ad un unico scopo: quello di esplorare a tutto tondo la villa e il sito, estremamente ameno e gradevole alla vista, che la ospita e la ingloba. La prima parte insiste sulle persone, la seconda sull’arte e sugli annessi e connessi, tornando però, assai felicemente, sulle persone in una sezione godibilissima, come vedremo, dedicata alle donne: godibilissima ed anche estremamente attuale dal momento che oggi le donne hanno raggiunto quell’emancipazione e quella parità - quasi: ancora a dir vero non ci siamo - che nei secoli passati era semplicemente impensabile. Non posso fare a meno di notare, en passant, che il libro potrebbe rientrare in qualche modo nella letteratura di genere perché le gentili autrici hanno riversato in parecchie pagine spiccata personalità e sensibilità squisita. Nella prima parte del libro le Autrici ripercorrono la storia della villa col passaggio dai primi proprietari, i Fossombroni (almeno dal 1520, con un cenno alla sconosciuta ai più controversia dell’acqua: il “Tollero degli Orti Redi”), ai Nardi (3 novembre 1628) e finalmente ai Redi (la comprò, il 26 settembre 1659, Gregorio, allora medico di corte del Granduca di Firenze). Interessantissima è la questione del Tollero. Iacopo Fossombroni aveva fatto restaurare a sue spese un tratto del condotto trecentesco progettato da Jacopo del Casentino convogliando verso i suoi terreni l’acqua che giungeva alla Fonte Guinizzelli, nota ancora oggi come Fonte Veneziana, dall’Alpe di Poti, acqua necessaria soprattutto per l’irrigazione degli orti. La Comunità di Arezzo considerò la cosa inaccettabile dando origine ad un vivace contenzioso che terminò con un compromesso: l’acqua tornava alla Comunità, mentre al Fossombroni ne spettava di diritto quanta ne poteva essere erogata da un foro della grandezza di un tallero (ca. 5 centimetri: in verità non poco, specialmente se si pensa che l’acqua in questione doveva uscire a forza). Nel passaggio dai Nardi ai Redi ci imbattiamo in un documento di grandissimo interesse in quanto pochissimo noto e meno divulgato. L’acquisto della villa fu fatto, ripeto, da Gregorio Redi il 26 settembre 1659, ma con un cospicuo aiuto finanziario da parte del già famoso e ricco figlio, lo scienziato Francesco che non manca di mettere la cosa nero su bianco:
A pag. 13 è riportata la foto dell’autografo, il che costituisce un piccolo scoop, perché il documento era noto, ma non era certo agevole poter vedere l’originale nella tipica scrittura dello scienziato, dalle maiuscole molto ornamentate e fortemente inclinata da sinistra a destra. La nota è tipica della mentalità accaparratrice e dello spiccato senso pratico dello scienziato che fu attentissimo sempre ad intervenire comprando lotti di terreno ogni qual volta veniva a conoscenza di difficoltà di vicini, in modo da ampliare sistematicamente i famosi orti e il terreno coltivabile. Non sfugga il fatto che la somma è “prestata” e non “donata”, ed è scritta in lettere, a ribadire l’enormità dell’elargizione con conseguente ipoteca morale accesa sul fabbricato e sugli annessi e connessi! È arcinoto, d’altra parte, come il suo senso pratico gli consentisse di vivere in un certo senso una doppia vita: quella di medico ufficiale e di uomo di corte e quella dello scienziato. Ne è prova il diverso modo di curare la scabbia, allora malattia diffusissima, nel caso dei parenti e nel caso dei nobili della corte. Avendo infatti scoperto mediante il microscopio il famoso acaro come causa della malattia, curava i parenti con opportune ed efficaci, nonché indolori pomate, mentre continuava a curare gli altri con i dolorosi e ripugnanti metodi allora in uso: in questo modo favoriva in segreto i parenti e non si inimicava i gelosissimi colleghi che lasciava nell’ignoranza. Francesco viveva col padre a Firenze e seguiva con disappunto le vicende della villa perché il fratello maggiore Giovan Battista non era in grado di controllare il fratello minore Diego che è descritto come per niente adatto agli studi e proclive a certa vita facile e disordinata. Le Autrici descrivono con minuziosa documentazione lo stato della villa e degli orti e le modifiche portate di anno in anno all’intero complesso: sono vicende, ampliamenti e migliorie di una dimora che sempre più si pone come simbolo del prestigio sociale raggiunto dalla famiglia che raggiunge l’apice della sua parabola con lo scienziato e letterato Francesco. Della futura parabola discendente della famiglia questi si rendeva conto: “Quando io sarò morto – scrive – i nostri nipoti si avvedranno se non ci sia altro che l’ombra della mia vita che può esser loro di giovamento”. Se ne rendeva perfettamente conto quel Francesco Saverio che si riteneva l’ultimo dei Redi del ramo discendente da Ignazio e Gregorio e quindi titolare del titolo di Balì e unico erede legittimo di tutti i beni, mobili e immobili, ignorando i diritti dei discendenti diretti del suddetto Diego, fratello minore di Francesco e, a rigore, comune bisavolo. “È vero - scrive nel testamento - che io non lascerò nessun figlio, nessun nipote (benché alcuni dei miei lontani parenti si siano spacciati di essere tali) ed in conseguenza non lascerò nessun erede necessario: ma siccome morendo io inaspettato farei nascere delle Fiere Liti (sic) fra quattro famiglie ed arrecherei gran danno a molti miserabili che io sono in grado ed in volontà di soccorrere con i miei lasciti, testamentari, il cielo mi guardi di cagionare un simile pregiudizio”. E si comportò di conseguenza perché scriveva queste parole nel 1817 e morì tre anni dopo, nel 1820, suddividendo con maniacale precisione il suo patrimonio tra gli eredi legittimi, ma non dimenticando i poveri e i disagiati, non solo quelli da lui conosciuti e frequentati (domestici, fattori, artigiani, ecc), ma anche istituzioni benefiche religiose e conventi. Come esempio di questo spirito di carità e attenzione fattiva, si preoccupò, nell'ambito dei lasciti testamentari, di costituire le doti alle ragazze figlie dei suoi domestici e lasciò beni in denaro ai poveri di San Michele e di San Geminiano. Inoltre lasciò incarico di istituire una Lotteria quinquennale da tenersi nella Sala del Comune dove, secondo le sue precise parole, “... siano rimborsate indistintamente tutte le famiglie indigenti di ogni ceto della citta”. Una congrua quantità di denaro fu destinata inoltre alla costruzione di un “Albergo di beneficenza pubblica” in cui ricoverare vecchi non autosufficienti, bambini e bambine di strada senza famiglia né casa per “alimentarli finché saranno abili a Lavorare”. Noi siamo ancora ammirati per la generosità di Giuseppe verdi che costruì a sue spese un ospedale da vivo e lasciò la Casa di Riposo per vecchi musicisti da morto, ma Saverio Redi non è stato da meno! Del patrimonio familiare “consolidato in me solo”, Francesco Saverio elenca le varie voci e ne suddivide cosi il contenuto: bene hanno fatto le autrici a trascriverlo perché ci permette di capire quale fosse la consistenza di un patrimonio che aveva il suo fondamento nell’abilità e nella sagacia dello scienziato Francesco (e anche, come vedremo fra poco, nella di lui – mi duole dirlo, ma è così – grettezza e aridità di uomo avente la caratteristica di essere stato per tutta la vita valetudinario e solo con se stesso e con la sua scienza). Dunque a tutto il 1820 il patrimonio Redi era il seguente:
Relativamente al Baliato, Francesco Saverio ritenne di lasciarlo in eredità ad un Redi di Via Bicchieraia e cosi scrisse: “Al Signor Antonio Redi Aretino abitante in Via Bicchieraia come maggiore nato della sua famiglia già divisa dalla mia centosei anni in circa”. I punti Quinto, Sesto e Settimo, relativi al patrimonio librario e ai manoscritti, risultano importanti perché ne sanciscono la suddivisione e la parziale dispersione. La biblioteca di famiglia – rammentano le autrici – era costituita da opere raccolte da Francesco Redi e in parte dagli altri esponenti della casata e comprendeva oltre quattromila testi. Attualmente sono conservati per metà all’Accademia Petrarca e per metà alla Biblioteca della Città di Arezzo a seguito di una complessa vicenda che gli interessati potranno seguire nella descrizione minuziosa delle autrici. La prima parte del libro termina con la descrizione delle vicende della proprietà successivamente alla cessione da parte dei Redi e alla conseguente frammentazione, anche questa minuziosamente esplorata fino all’Ordine della Carmelitane Scalze a tutt’oggi proprietarie e benemerite curatrici. La seconda parte giustamente si intitola Uno sguardo nella storia della Villa – Aspetti e figure particolari. Il titolo promette molto e il testo mantiene anche di più perché vengono descritti con dovizia di particolari e bellissime fotografie contestuali alla narrazione la cappella e le decorazioni interne al palazzo, con particolare riferimento agli affreschi e all’altare della cappella gentilizia, rispettando rigorosamente a beneficio della chiarezza la cronologia: segue infatti una minuziosa descrizione del palazzo alla fine degli anni ’50. Del massimo interesse è il capitolo relativo alla questione delle acque. Jacopo Fossombroni aveva infatti risolto per sé e per i suoi successori la questione dell’acqua col compromesso del “Tollero”, ma alla fine prevalse l’opinione della Fraternita che, per conto della comunità aretina, giustamente, bisogna dire, non poteva …tollerare il “Tollero” e pertanto riuscì ad ottenere il controllo delle acque nel 1869, con decreto di Vittorio Emanuele II. Naturalmente venne concesso alla galassia degli eredi in cui si era frammentata la proprietà un compenso per il danno che oggettivamente subivano, donde una istruttiva e perfino in qualche caso divertente girandola di proteste e di petizioni. Per esempio nel 1888 la vedova di un proprietario, la Signora Adelaide Macera, sosteneva con una lettera listata a lutto di essere stata defraudata dei benefici che invece avrebbero ottenuto altri proprietari, come il Menci, il Giannini e il Trepanaj ed affermava che un certo Mori e il notaio l’avevano “messa di mezzo” e “danneggiata a man salva”! E pretendeva che venisse “sanata l’ingiustizia”. Se abbia ottenuto qualcosa non è dato di sapere… Le ultime due sezioni della seconda parte sono rispettivamente il momento frivolo e quello serio: Cioccolata e altri piaceri in villa, dovuto all’arguta penna della giovane scrittrice Ilaria Pugi, e Figure femminili fra sale e chiostri Riguardo alla cioccolata accanto a cosa che sapevamo, avere cioè i Francesco Redi creato la ricetta del cioccolato al gelsomino, riscoperta di recente da Danielo Vestri, e che era addirittura segreto di stato alla corte medicea, scopriamo che il nostro scienziato durante la sua permanenza alla corte del Granduca di Toscana, era solito mandare a parenti e amici grandi quantità di cibi prelibati, come risulta dal suo epistolario. Egli prestava particolare attenzione ai formaggi e ne inviava forme intere ai fratelli ad Arezzo; nella sua dispensa non mancavano inoltre le mortadelle, che invece inviava al padre. Ma il suo debole erano appunto i dolci dei quali abusava con larghezza. E così si scopre che l’elogio del vino a danno del caffè intessuto nel Ditirambo “Bacco in Toscana” è assolutamente falso! Tutti abbiamo creduto alla sua buona fede nei celeberrimi versi: “Non fia già che il cioccolatte / V'adoprassi, ovvero il tè, / Medicine cosi fatte / Non saran giammai per me: / Beverei prima il veleno, / Che un bicchier che fosse pieno / Dell'amaro e rio caffe...”): dalla corrispondenza con fratelli e cognate risulta che egli non solo era un accanito consumatore di tè e di caffè, ma anche di “spumosa” cioccolata, che invitava a bere “calda e bollente”! L’artista e il medico hanno il sacrosanto diritto di mentire per la gola. Seria è la sezione relativa alle donne di casa Redi, quali emergono dal rapporto epistolare dello scienziato con le cognate Anna Nardi e Maria Chiara Gamurrini, la nipote Maria Cecilia e le sorelle suore. Interessantissimo il caso di Maria Cecilia, la quale, resistendo alle fortissime pressioni dell’illustre zio (che la chiama “scempiatella e scimunita”, terrorizzato all’idea che costei, sposandosi, introducesse un altro estraneo in casa) si rassegnò a non contrarre matrimonio, ma rifiutò di farsi monaca dichiarando che se le sue cagionevoli condizioni di salute non le consentivano di essere “donna da marito” tanto meno poteva essere “sposa di Cristo”! Una … Monaca d’Arezzo mancata! Ma anche una donna di temperamento se ebbe il coraggio di rispondere in tal modo in pieno Seicento e a un sì autorevole zio: ai primi del Novecento sarebbe stata a capo di un manipolo di suffragette! Vera monaca fu certamente suor Maria Cecilia, al secolo Caterina Redi, indotta a monacarsi come tutte le femmine il cui matrimonio poteva risultare pericoloso per il patrimonio della cui cultura fanno fede le poche lettere: sorella di Francesco scrive “andonno” e altre amenità in una sintassi impossibile. Bellissime infine le pagine dedicate a Santa Teresa Margherita , al secolo Anna Maria Redi. Il libro è stampato con cura e corredato di bibliografia e indici delle immagini, degli autori delle foto, degli archivi dragati, nonché, importantissimo e spesso mancante anche i più autorevoli pubblicazioni, dell’indice dei nomi. “Il fare un libro è men che niente, se il libro fatto non rifà la gente” tuonava il Giusti, imprecando contro la titolografia che anche allora andava per la maggiore in Italia e pretendendo giustamente che un libro dovesse trasmettere valori. È esattamente quello che Monica Catinelli augurava a quest’opera della Fazzi e della Bartolini in prefazione: che cioè “potesse lasciare un segno indelebile e trasmettere l’amore e il rispetto per il passato quale presupposto per vivere con più consapevolezza il presente e per gettare solide fondamenta per il futuro”. Un target che le gentili autrici hanno raggiunto in pieno! |
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