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Concordo con quanto Maria Carminati afferma
nella bella prefazione: per unitarietà di temi e di linguaggi – per unitarietà
di atmosfere e di urgenze espressive – le liriche si compongono in effetti,
nell’unica fisionomia di un poemetto. Intenso, suggestivo, coniugato nei modi di
un’empatia che vibra a ogni pagina e che conduce davvero in quell’altrove che tu
sembri perseguire e percorrere – più nomade che viaggiatrice, nell’accezione data
da Rosi Braidotti alla parola – alla ricerca di altri spazi- geografici e
culturali, umani e interiori- ma anche di altri tempi.
Il tuo poemetto mi ha ricordato un’immagine
che ho sempre trovato molto bella e soprattutto vera, usata da Blanchot per
definire il (e la, aggiungiamo noi) poeta: colui il cui sguardo è privo di
palpebre, colui che non ha la possibilità di chiudere gli occhi di fronte ad
alcun aspetto dell’esistente. Ecco, queste tue poesie sono così: una sorta di
sguardo ampio e profondo, quasi prensile, che non può esimersi dal registrare,
dal vedere, dal testimoniare, dal consegnare alla memoria volti e esseri,
cultura e natura: “stormo i burka ala contro ala…” “l’anima allungo a forare
l’azzurro…”, “il vento ha sbrinato le nubi | guarda | è cosi chiara la notte…” Ma
quando non è lo sguardo (che qui sembra spesso essere emozione, stupore
mozzafiato, innocenza) allora è il sacro di una ricerca inesausta (di sé, ma
anche di un Uno), a fianco di una memoria (spesso corporea) dolente, profonda,
ferita: “…gli occhi affondo nei millenni | scorro con l’acqua sul palmo del
fiume | verso una morte inesistente.”; “mutare dio ogni giorno | ogni giorno
raccogliere | un dio morto”. (molto bello!, “e non so | dove l’inizio dove la
fine | come la mosca | nel pugno di chi decide.” C’è incandescenza e ghiaccio, in
questa tua raccolta: innocenza (stupore ancora bambino) e disincanto che pesa.
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Recensione |
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