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Pagine. Sul filo sottile del tempo
Accanto alla poesia in lingua
e in dialetto trentino, anno dopo anno Lilia Slomp Ferrari era solita offrire a
Strenna trentina o a L’Apollo buongustaio o, ancora, agli amici
più cari, delle narrazioni dell’anima, dei ricordi del suo passato remoto, o più
recente, davvero struggenti. Narrazioni generose, appassionate, testimonianza di
una vena generativa feconda, inarrestabile, la stessa sperimentata in poesia con
parola più densa e rarefatta e la naturalezza di un endecasillabo capace di
insinuarci nel suo mondo/territorio in una sinestesia di sentimenti difficile da
districare e tuttavia, proprio in virtù di ciò, di grande spessore e potenza
espressiva. In questo dicembre 2017, alla vigilia di Natale, ci consegna le sue
“Pagine. Sul filo sottile del tempo”, un sogno a lungo coltivato,
realizzatosi finalmente anche su sollecitazione delle figlie Daniela (autrice
della suggestiva immagine di copertina) e Serena.
Pagine, testimoni silenziose
dei numerosi semi radicatisi
nell’educazione sentimentale di Lilia,
frutti di un
ri-cordare, forse sofferti nella gestazione, ma certamente felici ora che si
fanno patrimonio sentimentale e storico per noi lettori. Già, perché ogni storia
palpita insieme al cuore dell’autrice: e il battito è insieme ritmo e aritmia,
ciò che consente ogni volta un piccolo processo di rivelazione. In alcuni casi
il pensiero si inabissa nel pozzo della memoria profonda, altre volte sembra
darsi un affioramento più tenero, ma ugualmente urgente, in cui ogni cosa,
presenza, immagine risuona di vibrazioni interiori e note di una sinfonia
ineludibile. “Dentro quelle pagine c’è tutta la mia anima, quasi tutta, perché
certe cose le puoi dire solo in poesia.
Il microcosmo dei Casóni
meriterebbe almeno altre cento pagine. Io seguiterò a fermare i miei ricordi e
tutto quello che i personaggi incontrati nella vita mi hanno inconsciamente
modellata in tutte le mie fragilità ma anche in tutta la forza necessaria a
inventarsi i giorni” mi scrive Lilia, sollecitata da una mia domanda. Lilia,
poeta
degli orti,… che coltivi le rime
e le rose (E.
Mazzoleni), poeta di una natura così viva e presente anche in questo libro,
inconsciamente sa che la passione per la terra ha a che fare con l’atavico senso
di perdita del paradiso terrestre; sa che in essa si può attivare un’intera
esperienza di percezioni, sensibilità, sogni, corpo, immaginazione in un impasto
di memoria sensoriale:
Io già sognavo la piastra della fornasèla che cantava il calore mentre arrostiva
quei frutti d’oro rotolanti, ridenti nella ferita fatta col coltellino arcuato
affinché non scoppiassero nella cottura.
Che la lingua può
farsi epifania capace di contenere il suono e il rumore, suono che punge,
graffia, urta, fa male. Ma nel ricordo può riconciliare…
E quelle bevute alla fontana, con i denti che dolevano per la frescura del bacio
dell’acqua che rinfrescava la gola…
Perciò la creatività di Lilia è fatta sì di scrittura, ma anche di un
fare con le mani: chi non ha assaggiato le sue confetture o il suo zelten
non sa di cosa parlo. Perché fare con le mani, affondarle nella terra, pungersi
con le spine di una rosa è anche un pensare con la testa, mettere alla prova
un’intelligenza creativa e una sapienza assimilata, nel suo caso dalle donne di
casa. Sì, ci sono libri in cui la poesia delle cose contamina felicemente una
storia. Lilia in queste sue Pagine ce ne dona un esempio egregio.
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Recensione |
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