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Veniero Scarselli finalmente acquieta i "torbidi labirinti" del suo pensiero e ci fa dono di un impareggiabile canto dedicato alla figura della madre, la madre sua, che qui però acquista valenza universale e si identifica con tutte le madri. A Scarselli avevo sempre riconosciuto grande capacità di scrittura, profondità di pensiero, l'esposizione dotta, la preparazione culturale; dissentivo invece da certi suoi eccessi, quel volere a tutti i costi usare termini, immagini, propositi e pensieri che ritengo più adatti allo studio di uno psicologo che alla manifestazione "vera" della poesia. Abbia fatto in cuor suo ammenda o stia egli cercando una strada più posata e composta, più consona al dettato poetico, davanti a questa nuova breve silloge, non posso che manifestare la mia incondizionata approvazione.

Il tema della morte della madre è argomento cui ogni penna di artista ha dedicato pagine e versi. Facile allora cadere nell'ovvio, nel già detto. Ma Scarselli ha frecce valide al suo arco e la veglia davanti al corpo senza vita della madre diviene dolcissimo atto d'amore, canto che ha la potenza di certe tragedie classiche, meditazione e ricerca, tenero abbandonarsi alla contemplazione di quella figura inanimata che disperatamente forse cerca ancora di trattenere l'ultimo fiato di vita. Tutti i sentimenti passano attraverso la mente del figlio, la disperata impotenza, l'angoscia, la desolata solitudine, l'ineluttabilità dell'evento, l'incedere doloroso del rito che si sta compiendo.

Analizza i momenti salienti dell' esistenza della madre, si rimprovera di non essere stato figlio amoroso, vorrebbe riscattare con piccoli gesti d'affetto le mancate attenzioni, prendere tra le braccia le membra ora più arrendevoli, quasi languide, che ancora per poco emaneranno "il solito odore di buona vecchia madre". Vuole vegliarla da solo e, circondato dal silenzio doloroso, scava con crudezza nel mistero della morte e ne prevede e controlla i devastanti effetti nelle carni.

Le ore scorrono lentissime. All'inizio l'autore continua a ravvisare le sembianze materne: "forse è solo momentaneamente prigioniera | d'un sonno stranamente ostinato" o più oltre: "ma questa è ... | una tenera gentile creatura | solo un po' spaventata". Vengono compiuti gli amorosi tributi di pietà: il corpo è lavato, rivestito, un corpo che ancora appartiene al figlio: "Vorrei che tutti conoscessero | il fiducioso rimettersi dei morti | nelle mani amorose dei vivi | che ne accudiscono i bisogni corporali".

Ma scende il crepuscolo ed agguanta le due figure, quella della madre, immobile sui cuscini ricamati, l'altra, del figlio, che prova ora un senso di inquietudine (oh, il buio, come deforma, ingigantisce e fa paura!). L'inquietudine si tramuta in spavento che un essere bestiale stia annidato nelle buie feritoie del gelido corpo pronto a "levarsi orribile davanti".

Ma ecco, giunge la liberazione: "il graffio, il miracolo | d'un nitido grido d'uccello |...| accende sulla terra un nuovo giorno". Si dissolvono i fantasmi e le visioni demoniache; la madre torna ad essere l'amato oggetto di una ormai impossibile comunicazione. Il rito dell'addio è compiuto, ha completato il suo devastante percorso. Rimane la testimonianza d'amore, la "pietas" per i nostri morti.

Il canto del figlio racchiude in sé il canto di tutti i figli; l'amore sconfigge l'orrore della morte e la tenerezza che si provava verso le persone vive viene riversata adesso su quei poveri corpi che "chissà, se nel gelo dell'inverno | per riscaldarsi sotto tanta neve |... possano almeno stringersi insieme".

Recensione
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