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Antologica dell'autore
Vernice nr. 45/2011
Piccola dichiarazione di poetica
Scopo della poesia è immergersi nell’Immaginario collettivo superando le proprie
storie private per essere strumento di rivelazione e catarsi. Pertanto, quando
si parla di crisi della poesia, si dovrebbe accusare l’attuale povertà dei
contenuti, oltre ad una sorta di autocensura ad esplorare i sottosuoli
inconfessati dell’Immaginario.
Le parti antologiche dei poemi che seguono
non sono una scelta rappresentativa di ciascuno di essi, ma seguono comunque
coerentemente il filo di un discorso narrativo tematicamente omogeneo, spesso
ricorrendo ad una operazione del tipo Reader Digest.
° ° °
da “Torbidi amorosi labirinti
Storia
d’amore e morte (delitto e castigo) che non è solo il racconto liberatorio di un
maschio pentito che ha spinto lo sguardo impietoso sui segreti delle camere da
letto e sulle estreme conseguenze della liberazione sessuale, ma l’eterno
anelito dell’uomo a trascendere con la ragione i suoi rigidi (perché innati)
schemi sessuali e relazionali per attingere il mitico irraggiungibile Amore
Universale: una battaglia con se stesso che l’uomo tuttavia è incapace di
vincere.
Fino allora avevo allattato
le mie deliranti erezioni
soltanto col latte mentale
di fantasie nel segreto d’un
talamo
e d’una sposa in fondo a me
cara;
quindi non fu senza fatica
né spietato lavorio analitico
che il progetto appena
partorito
poté abbandonare le mollezze
delle innocue fantasie d’alcova
per dei lidi più reali e
perigliosi:
dovetti almeno render
presentabili
a me stesso le mie proprie
vergogne
travestendole con l’abito
lucido
della pura ragione teoretica,
prima di calcare il terreno
dell’emozionante
sperimentazione
con persone vive e reali
che audacemente coltivassero il
peccato
nelle oscure catacombe del
sesso
con saldi priapi immuni da ogni
dubbio.
Le mie dotte e ispirate
argomentazioni
s’imposero subito all’Amata
coll’indiscusso peso della
Ragione;
grazie ad essa fui ancora (oh
mia allora
così docile compagna!) il suo
maestro,
e rapito dal mio ruolo di
creatore
dettai fin nei minimi dettagli
le formule dell’Eros raffinato,
il catalogo specialistico dei
piaceri,
le condizioni e le esatte
procedure
per squisite lussurie di
gruppo;
disegnai il più perfetto
meccanismo
fra i sistemi filosofici, la
summa
dell’umana sapienza
fornicatoria;
ed infine per l’imperio
concessomi
dalla Ragione statuii con
ardore
anche l’Etica vera e assoluta,
che informa i diritti e i
doveri
d’una sana, leale, edificante
ordinata comunione di
fornicatori.
Il mio mistico anelito
non vagheggiava surrogati
d’amore
ma creava una forma novissima
e sublime di sesso speculativo:
insegnare al mondo degli umili
il piacere mentale di cogliere
i frutti gelosamente nascosti
alla luce del sole dalle
inutili
mutande per offrirli ignudi
al sacrifizio della violazione,
agli sguardi e palpeggi
sapienti
d’una élite che
cavallerescamente
ne delibasse per giungere al
premio
più ghiotto, l’inebriante
penetrazione
dell’anima col tramite del
corpo:
il vero e supremo trionfo
era aprire con la chiave del
sesso
l’involucro dell’ego, liberarlo
dalla tetra prigione in cui è
chiuso
e amare, amare, unire l’anima
pura
a quella dei fratelli redenti.
Si dette finalmente inizio
alle libere danze, impazienti
di saggiare le ghiotte nudità
ancora gelosamente coperte,
ma che già ammiccavano
sorridendo
con la leggiadra lascivia delle
femmine
a chi suasivamente insinuava
i suoi avidi palpi fra le
vesti;
e allora s’aprivano gli scrigni
della lussuria, il sangue
mugolava
e gonfiava impetuoso le vene
traendone suoni e sospiri.
I corpi strisciavano sui corpi
coi fiati e le lingue lumacose
lasciando sui teneri seni
lunghe scie libidinose di bava;
subito detti in pasto alla
turba
le bellezze ancora intatte
della mia donna
ch’era solo un po’ confusa
dalle luci,
io per primo congiungendomi con
lei
studiatamente in belle pose
artistiche
per aprire le danze come s’usa
fra educati padroni di casa;
poi fu con ospitalità esemplare
che come un bell’oggetto dato
in prestito
dopo di me la feci lungamente
possedere da membri
eccezionali,
ma che lungi da essere
fantasmi,
eran di carne dura e reale
sgradevolissima, col grifo
imbestialito
per il premere potente e
inarrestabile
dello sperma che cercava le
stelle.
Così successe infine che la
mite
infelice vagina a me più cara
si perdesse nella nebbia
dell’estasi
mentre invano cercavo di
studiarne
con tutti gli apparecchi della
ragione
l’anatomia e la fisiologia
nel momento in cui era
crudelmente
dilatata da un priapo
superdotato
e l’addentava l’orca
dell’orgasmo.
Avevo dato il segnale della
mattanza,
ed ora i tori scannavano le
manze
con oscena furiosa
determinazione
per un grande sacrifizio
dedicato
agli dei più osceni
dell’Olimpo;
ma lungi da essere figure
raffinate di coiti
estetizzanti,
giostre per la conquista di
pegni
eseguite cavallerescamente
da menti oneste in leali
tornei,
mi spaurì la cieca cupidigia
con cui tutti succhiavano la
vita
a dei poveri corpi sconosciuti
per sboccare nell’oceano
terribile
del proprio solitario deliquio
come meta, traguardo, unico
scopo,
sforzo disperato di liberarsi
dal vile sperma e perdersi per
sempre.
Ero come il freddo entomologo
che osserva l’agonia d’una
farfalla.
Ma non erano agonie di farfalla
gli osceni scotimenti del bel
corpo
della femmina che m’era più
cara,
ma reazioni di visceri
corrotti,
paurosi chimismi ancestrali
che ribollivano in un corpo
ormai sfuggito
alla sua debole volontà; la
schifosa
tradiva tutti i nostri patti
con gli stessi indicibili
fremiti,
gli stessi sconvolgenti sospiri
che m’erano così familiari
nel segreto delle nostre notti
e che m’erano cresciuti nel
cuore
come pegno e dono del suo
amore,
garanzia di vita onesta e
felice;
e ora sconciamente
s’abbandonava
fra le braccia di vacui
fantasmi
solo armati di peni insolenti
e sozze eiaculazioni di
montoni,
sì, quella puttana lasciava
che uno sciame di botoli del
Demonio
suggesse il miele dell’amore a
me dovuto.
Allora tentai con ogni mezzo
di riprendermi quel corpo di
femmina
forse ancora un po’ caldo e
gentile
e di sottrarne allo scempio
almeno l’anima;
ma più nulla poteva allontanare
la muta di cani imbestialiti
dall’odore della vulva in
calore
che la folle danzatrice agitava
gettandosi come lugubre falena
contro il fuoco accecante di
Dio
per essere finalmente bruciata.
Era ormai mortalmente
intrappolata
in una via senza venia né
ritorno,
consumata dai suoi stessi
ingranaggi
senza fine; ogni nuovo mattino
che nasceva luminoso nel mondo
era sempre più pallida e
smarrita
nei febbrili tentativi di
lavare
via dal corpo le sozze
secrezioni
degli amanti appena divorati
con le sue stanche tenaglie di
mantide.
Ha fatto un gran solco nel
cielo,
come un astro di gloriosa
bellezza
che tramonta su un popolo di
idolatri.
Non si seppe più nulla;
fu inghiottita dal vento nero e
forte,
sovrano degli oceani e dei
deserti
che ella – come un bianco
affaticato
uccello migratore con le ali
rese troppo pesanti dalla pena
di un’antica ferita verginale –
di letto in letto
disperatamente
aveva invano tentato di
valicare
per andare a morire lontano
sulle spiagge di isole
dimenticate
dove vanno a morire gli uccelli
nel sentore della fine. Pietà
per quella figlia di Dio, la
bambina
che non aveva ancora imparato
a riconoscere il male del
mondo.
da “Piangono ancora come bambini
Questi morti inzuppati di fango che forse piangono ancora come bambini. Diario di una veglia solitaria al corpo della
madre nella camera ardente di un ospedale.
Di
un’altra veglia ho memoria,
quando il vento dell’alpe una
sera
allentò la sua guerra caparbia
alla torre tetragona degli avi
e i camini cessarono d’ululare
e le finestre di gemere come
animali.
Io chiuso nella sala delle armi
solo come un vecchio soldato
apprestai la mia povera sera,
l’interminabile veglia per
attendere
davanti al mio pane e al mio
vino
ed al fuoco acceso di guardia
che un’altra notte della vita
si compisse.
Disposti i ceri alle buie
feritoie,
sprangata ogni apertura alla
Morte,
attesi fermo i dèmoni della
notte
nella sala gremita di
clessidre,
di tarli, di scricchiolii, di
antichi specchi
che si animavano, di serpi che
vigilavano
nei nascondigli, di ceri che
lentamente
smorivano inchiodati ai
candelabri.
Fu una lunga veglia fino
all’alba,
ed infine anche il fuoco si
spense
e le serpi ricaddero in
letargo;
solo cani si udivano ovattati
abbaiare alla volpe lontana
mentre il gelo dal suo antico
agguato
trasudando dai pori delle mura
trafisse il cuore nudo della
sala;
allora anche il vento dei nevai
riprese la sua folle corsa,
ancora il tormento d’un giorno
contro mura e finestre
sprangate
e quei camini freddi che
ululavano.
Anche questa è una povera
veglia
di valoroso soldato: di figlio,
la mia notte sul Monte degli
Ulivi.
Dovrò provare l’umana debolezza
di chi è soggetto alla fame e
alla sete,
all’orrore intollerabile della
solitudine,
a temere le facce dei morti;
dovrò bere fino all’ultima
goccia
l’elisir ripugnante della
morte,
questa Cosa che offende e
stupisce,
che ogni giorno consuma il suo
misfatto
e ogni giorno più caparbia
della vita
dalle uova della vita si
rinnova.
Questa volta sarà il figlio a
partorire
il caro corpo ingombrante d’una
morta
che attende sola le cure
lenitrici
di una levatrice amorosa.
Ma come possono dire che è
morta,
totalmente, irrevocabilmente
morta,
questi grigi tristi burocrati
che amministrano la materia
corporale
senza mai conoscerne l’anima,
luminari che sanno auscultare
solo rozzi eventi encefalici
misurabili senz’amore,
distrattamente:
io sento invece distinti e
reali
i fremiti del suo corpo nel
riconoscermi.
Sul suo viso non c’è neanche
una smorfia:
è il suo viso di sempre, le
membra
solo un poco più arrendevoli e
languide;
è ancora un po’ calda, quasi
affabile,
emana il suo solito odore
un po’ stantìo di buona vecchia
madre
che si sia da poco strusciata
come una chioccia alle sue
vecchie cose
e un po’ indugiando con affetto
e un po’ sbavando
abbia aperto vecchie scatole di
foto
e odorato profumi lontanissimi
di lettere legate coi nastrini.
Vorrei mormorarle all’orecchio
le parole d’un ingenuo conforto
come quelle del buongiorno
mattutino:
“sai mamma che stamane c’è il
sole?”
Questa infatti è una piccola
bambola,
una tenera gentile creaturina
solo un po’ spaventata;
s’è già arrampicata sul mio
petto
per scaldarsi e fa quasi le
fusa
adesso ch’è tutta per me.
Ma bisogna lavarla e vestirla,
profumarla per la festa di
compleanno
con la pietà che Iddio ci ha
insegnato,
non è tempo per quella manesca
indurita soldataglia mercenaria
comandata di gettarla in un
pozzo
dell’antica prigione della
terra
per punizione di essere nata
in quella mite sera di giugno
di tanti, tantissimi, anni fa
quando c’erano lucciole e
grilli
a fare folli romanze d’amore
e qualcuno allora caro la
vegliava.
Oggi soltanto io
sono qui, senza lucciole e
grilli
e forse anche un po’ trepidante
ma pronto per l’ultimo atto,
l’amoroso tributo di pietà.
Vorrei che tutti conoscessero
il fiducioso rimettersi dei
morti
nelle mani amorose dei vivi
che ne accudiscono i bisogni
corporali:
si plasmano su di noi per
compiacerci
come amanti, con le forme
ancora tiepide
ma troppo stanche dei corpi che
si rilassano;
e in quel grande rito d’amore
si restaura la giusta e
armoniosa
comunione della vita e della
morte
che il male brutalmente ha
sconvolto;
è la pietà dei sopravvissuti,
dei forti davanti agl’inermi
le cui membra mansuete si
abbandonano
nella casta impudicizia della
Morte.
Fu un dolce viaggio,
una grande amorosa avventura,
infilare quasi come in un sogno
candide mutande e camicette
a quel docile corpicino
assopito
che rispondeva nel sonno alle
carezze
rassicurato di sentirsi
accompagnato
nella sommessa timorosa
dipartita;
fu come sfiorare di baci
una bella addormentata nel
bosco.
La buona Morte ha infine
consentito
di accedere ai segreti di quel
pube
tanto a lungo gelosamente
nascosto
ma ormai senza veli né peccato:
era quello della Mamma,
col suo enorme sesso nel mezzo
così bello, regale, possente,
ancora solennemente assiso
sul trono della vita e della
morte
e ancora tanto pingue e
gentile,
sorridente per la sua malcelata
ma così pudicamente custodita
antica giovinezza; sia grazie,
per il dono di quel Monte
sublime
che si rinnova in ogni giovane
donna
e che i mortali amano con
furore
per gettarsi nel profondo
uterino
del mare che dà loro la luce.
Finché riceve amoroso
nutrimento
la carne dei morti è quasi
tiepida,
duttile e tenera come la cera,
le loro membra sembrano
appagate
di starci abbandonate fra le
braccia.
L’anima ormai è staccata dal
corpo,
ma non può essere molto
lontana:
si avverte così nitidamente
che alita ancora fra noi
come ape gentile sul miele,
forse freme in segreto
timidamente
per le tenere cure che riceve.
E’ quasi una segreta complicità
fra i vivi e i morti, quasi
ch’essi fossero
trattenuti dalle nostre carezze
e fossero indecisi se lasciare
al suo destino di disfacimento
quella casa di carne tanto
amata;
e frattanto si fermano attenti
accanto a noi ad osservare
compiaciuti
queste umili cure che gli diamo
mentre in cuore a noi premono
le lacrime.
da “Eretiche grida”, 1993
Manoscritto rinvenuto in una grotta del Monte
Athos Riflessioni di un eremita che ha perso la fede,
ma non la speranza.
Mio Dio senz’amore,
è Te che coi fucili di legno
d’una mente che muore d’inedia
volevo villanamente stanare
con l’ottusa arroganza del
cacciatore,
non con la speranza del cieco,
del Lazzaro, del paralitico,
del disperato,
ma come chi vuole con la forza
carpirti la formula gelosa
che spieghi il mistero
dell’universo;
ma Tu, che sei Aquila,
getti le creature devianti
dalla rupe Tarpea del tuo nido
se presumono d’amarti soltanto
con l’amore fraudolento della
ragione.
Tu dischiudi la tua Casa solo
ai figli
che sanno farsi poveri di
spirito
e umilmente t’accolgono in
cuore;
il peccato della ragione
è lo specchio superbo di
Narciso
divorato dai vermi del dubbio
e non depone che uova
d’inganni.
Abbi finalmente pietà
di chi non ha saputo trovarti
pur nella bellezza sconvolgente
di questo tuo incredibile
universo,
e allora s’è fermato ad
aspettarti
con il groppo antico alla gola
d’un povero cane abbandonato
che dopo tanto ostinato frugare
fin presso alla porta della
Morte
s’è sdraiato sulla tomba del
padrone.
Forse aveva invano cercato
soltanto nei posti sbagliati;
ma Tu non eri anche lì?
Dio, sai quante volte
sepolte nella loro cecità
di bestiali mortali creature
queste anime incapaci
d’attingerti
strisciarono umilmente ai tuoi
piedi
tentando ogni funzione corporea
loro data, ogni minimo pertugio
che s’aprisse luminoso ai loro
sensi,
pur di vedere con un urlo
uscire abbagliante dalla notte
il faro del tuo Pene Creatore,
pur di poter morire
nell’orgasmo di conoscenza di
un’estasi.
Ma si sarebbero anche
contentate
d’un tuo minimo cenno, d’un
modesto
fenomeno metafisico, di un osso
buttato al cane affamato della
ragione
che salvasse dal deserto del
dubbio
il loro amore disatteso e
umiliato.
In cambio non potevo offrirti
che il mio amore animalesco e
caduco,
eppure il solo, anche se fatto
di carne,
che sapessi somigliante al tuo
così grande ma così
inaccessibile,
il solo che m’avevi inoculato
per compiere la tua volontà
con la compagna che m’avevi
donato
per suggere il dolce nutrimento
di conforto e saggezza dal suo
seno.
Sai quante volte ansimando,
sfiniti dal bagliore di un
orgasmo,
la raccolsi con gli occhi
smarriti
dai cieli senza tempo
dell’anima
che invano avevamo tentato
di varcare uniti per
raggiungerti
come Icari senz’ali, soltanto
con la
nostra minuscola estasi.
Tu invece continui a
travestirti
con l’oro ingannevole di
tramonti
che stordiscono, caduchi
incantamenti
di aurore che ogni giorno
sorgono
così piene di speranza, ma
ognuna
forse è l’ultima che ci
permetti di vedere.
Perché tanti inutili inganni,
e perché a questa mente
infelice
desti corte zampe d’insetto
per mirare a un’incerta
salvezza
col suo corpo pesante di poca
anima
che ad ogni luccichio si
smarrisce
in pigri labirinti di piacere
e dopo tanta fatica di cammino
per spurgare le secrezioni che
impediscono
ai miei occhi di vederti, ed ai
tuoi
di vedermi, ancora ti nascondi
in ogni sasso corroso dal vento
ed in ogni cespuglio riarso
che attende paziente alla pena
di un altro inutile giorno?
Io so, che sei qui;
sei l’acre veleno invisibile
che viene dal mare ogni giorno
portato dal vento salmastro,
sei il fuoco del sole e del
tempo
che brucia lentamente gli
alberi,
i rovi, gli animali, le anime;
sei entrato perfino in questa
grotta
in cui consumo i resti del mio
corpo
accampato ai tuoi piedi come un
povero
pellegrino in attesa del
miracolo,
e forse te ne stai accanto a me
travestito da topo o da ragno,
forse fingi anche d’essere
intento
ad una tela, e intanto mi spii,
mi studi con la calma del
serpente,
come la Morte: mi lusinghi ed
assali,
mi degusti e rilasci; neanche
sai
se vorrai divorarmi o
risparmiarmi.
Ma chi sei veramente?
forse il sopruso della morte?
o piuttosto il sopruso d’una
vita
non richiesta, il cieco e
casuale
stupro delle tue creature
per il piacere del tuo Pene
generatore
e distruttore? chi sei per
disseccare
le radici di ciò che per
prodigio
hai fatto nascere, anche la più
piccola
tua innocua infelice creatura,
e dal silenzio del tuo uovo di
pietra
dietro le mie fragili spalle
attendi di spezzarmi le reni
per darmi con la morte e il
dolore
ancora una terribile nascita
a un mondo che non si vede e
non si sente?
chi sei, che m’hai così
beffardamente
inchiodato la mente alla croce
impotente ed inutile della
ragione
e accecato per non farti
riconoscere,
mentre dal Tuo vero
nascondiglio
quando stringo con i denti la
paura
puoi rubarmi il mio unico Io
e consumarlo come tuo
nutrimento
nella tana del tuo luogo senza
tempo?
da “Straordinario accaduto a un ordinario collezionista di orologi”
In una notte di tregenda, che annuncia la fine
del tempo e del mondo, tutti gli orologi si fermano, meno quello altissimo di
una torre che domina l’universo.
Miei pigri venticinque lettori,
ora concentrate l’attenzione
su questa straordinaria
avventura
accaduta ad un semplice come
voi,
un onesto burocrate impiegato
alle Regie Poste del Regno
ma non per ciò meno sano di
mente,
cui fu concesso per astrale
coincidenza
d’un rarissimo evento terreno
e di un’anomala eclissi del
tempo
di vedere il vero corpo di Dio
e il suo immenso luminoso
meccanismo.
Vi assicuro che ero uno scapolo
stimatissimo e quasi felice,
il solo vizio cui
m’abbandonavo,
era accudire lucidandoli e
spolverandoli
i miei compagni d’una vita
cinquantenne,
fedeli amici della casa che il
volgo
per pigrizia ed infame
ignoranza
chiama scioccamente orologi
ed ancora crede davvero
che siano delle stupide
macchine,
degli oggetti mondani da
asservire
ad un uso mercenario del tempo,
il quale - è noto - è una
libera e onesta
categoria metafisica.
Era invece un nobile popolo
di orologi d’ogni forma e
statura:
piccolissimi e altissimi,
magnanime
pendole di antico lignaggio
ritte ai muri come prodi
soldati
con squillanti bellicose
campane;
delicate anziane signore
un po’ stinte e grinzose con
piccoli
gentili argentini campanellini
dall’incantevole accento
francese;
pendoline a forma di casetta
per esotici uccelli cucù
ed altre che avevano un petto
ed un cuore pensoso. Ma tutti
erano a noi fraternamente uniti
nella sorte ingiusta d’aver
l’anima
chiusa ermeticamente dentro un
corpo
di caduchi meccanismi, tuttavia
tutti capacissimi di librarsi
al di sopra delle cose terrene
mostrando agli uomini un
modello fedele
del sapiente Altissimo Ordine
che regna tra le sfere celesti.
Per ciò li ho tutti così
perdutamente
amati come amavo me stesso;
come un bravo premuroso
figliolo
ne accudivo il prezioso
meccanismo
a chi raddrizzando una levetta
e a chi togliendo un
ingranaggio malato;
ne amavo le ruote lucenti
così semplici e pur somiglianti
alle ardite costruzioni dello
spirito:
piccoli grandiosi edifici
di ruote dentate rampicanti
tutte unite nell’immane disegno
d’agguantare la carne del tempo
col dente della ragione ed
estirpare
dal mondo l’Errore ed il Male
macinandolo nello stomaco di
ferro.
Quei generosi volevano imitare
o almeno in qualche modo
approssimare,
se proprio era impossibile
uguagliarla,
la divina matematica Perfezione
della legge di causa ed effetto
che non conosce la macchia
dell’errore;
volevano riuscire a
imprigionare
nel microcosmo di denti ed
ingranaggi
un po’ della Mente di Dio,
rallentare la fuga tumultuosa
e inarrestabile della vita
verso il Chaos.
Io che avevo gli strumenti
della scienza
m’adoperavo con zelo ad
aiutarli
in quel nobile temerario
disegno
con mille diligenti misurazioni
d’archi celesti, mille
accuratissime
triangolazioni di astri e di
pianeti,
infiniti estenuanti
aggiustamenti
di pendoli, pesi, oscillazioni,
per accordarli col moto delle
stelle
e costringere i denti delle
ancore
a mordere il tempo esattamente
nel brevissimo punto matematico
in cui finisce il più piccolo
misurabile
segmento della vita e dove
sùbito
un altro ha origine, per la
gloria di Dio.
Ecco dunque qual era il vero
scopo
valoroso se pur disperato
dell’umile mia vita d’impiegato
che di notte s’affannava come
un ragno
ad approntare le reti e le
panie
più sofisticate dell’astuzia:
tentare Dio,
catturarlo coi soli strumenti
meccanici e caduchi della
ragione
per il trionfo della nostra
superbia
costringendo a severi controlli
il flusso capriccioso del tempo
e impedendogli di fermarsi
sull’orlo
orribilmente scivoloso della
morte.
Ma purtroppo era un’impari
guerra
tra i fragili meccanismi dei
mortali
e le stelle; ogni volta che
credevo
d’aver vinto, il corpo esausto
crollava
sopraffatto dalla piena del
sonno,
mentre ancora ero aggrappato
alla trincea.
Infame terribile Sonno,
che con la maschera simile alla
Morte
e l’ambigua dolcezza dell’oblio
ogni notte discendi a blandire
le fragili creature di Dio:
una voragine di flutti melmosi
che s’apre nel cuore del mondo
costringendo i soldati
recalcitranti,
ma vinti, ad abbandonare la
mente
allo scempio infinito. Oh
dormire,
dolce disperato naufragare
d’una nave con le vele
spiegate,
ma immobile, sul mare senza
vento
prigioniera dei sargassi della
memoria,
mentre il mostro dell’oceano,
nascosto
nella tana subacquea più
profonda,
attende paziente che la preda
si abbandoni negli avidi abissi
al lento spegnimento del tempo.
Se s’apre la voragine della
notte
si schiudono le uova velenose
delle infide creature del sogno
che come serpi strisciano
silenziose
fra le rovine della volta
celeste.
Anche allora, nel giorno fatale
di questo straordinario
accaduto,
la ruota delle stelle girava;
s’era udito ovattato il
rintocco
dell’ultimo orologio morente,
poi il sonno ha stritolato la
ragione
incatenata alla macina del
mondo
come un principe ribelle ormai
piegato,
la sua polpa priva d’ossa e di
carni
abbandonata all’inverno
dell’anima.
da “Il palazzo del grande Tritacarne”
Grottesca allegoria di ospedali e lazzaretti, il
Palazzo è il luogo terreno dove con dolorosi ma teologici metodi
chirurgici vengono amputati i mali corporali degli uomini per riscattarli dagli
effetti mortiferi del peccato.
Questo è il nudo terribile
resoconto
in fede mia esattamente
veridico
del sottoscritto testimone
oculare
dopo la fortunosa esplorazione
della Fabbrica più fosca e
temuta
che si trovi nel mondo dei
mortali,
ultima stazione conosciuta
della loro breve vita corporale
prima del grandissimo balzo
nel regno della Luce
Sconosciuta.
Quel luogo è chiamato dai
mortali
che ne sono i temporanei
abitatori
il Palazzo del Grande
Tritacarne;
l’interno è mantenuto
segretissimo
per potere occultare
ermeticamente
agli occhi timorosi di chi
attende
fuori dalle mura il proprio
turno
la vera procedura del castigo
cui è condannata la carne
di tutti gli organismi viventi
da quando nel buio primordiale
di oceani senza luce e senza
nome
il primo nucleo di molecole
della Vita
offese le leggi matematiche
d’un perfetto universo che
scandiva
il corso ordinato dei millenni.
E’ luogo quindi d’un dolore
necessario,
laddove i meccanismi
infallibili
della Natura provvedono
automaticamente
alla triste bonifica della
carne
appena mostri gli effetti
inverecondi
e devastanti del Peccato
Originario.
E’ luogo mezzo sacro e mezzo
infame,
per metà cloaca d’ogni morbo
in un pianeta ricoperto dal
Male
e per metà carne viva, bubbone
inciso per lo spurgo dei
liquami
da un Medico impietoso e senza
macchia.
A prima vista può sembrare
un’ordinaria
seppur tetra ed austera
costruzione
eretta in una valle appartata
dove forse l’aria è più
salubre,
ma nessuno ha mai potuto
riferire
se sia più baratro, fortezza, o
grattacielo;
invero le sue mura possenti,
giorno e notte protette da
cani,
fossati, baluardi,
lanzichenecchi,
nascondono le macchine
terribili
addette alla rigorosa
separazione
di tutto il Male dal Bene del
mondo.
E’ un’enorme piramide di
macchine
telecontrollate dall’Altissima
sovrastante Autorità, in cui le
carni
a milioni partorite dalle madri
con l’urlo silenzioso
dell’utero
a milioni son pigiate come
mosche
fra i denti di ingranaggi
trituranti
e poi man mano fra le spire di
torchi
e potenti alambicchi redentori
per subire l’esaustiva
sublimazione
e la tremenda squassante
trasmutazione
del loro succo in purissimo
spirito.
Dopo, anche il ricordo del
dolore
è poca cosa, poi che anch’esso
sublima
in rarefatti vapori azzurrini
abbandonando le molecole di
materia;
e allora è concesso agli
spiriti
d’accedere al Regno della Luce.
A me è toccato il singolare
privilegio
di tornare ancora vivo fra voi
per ragguagliarvi sull’alto
magistero
dei chirurghi addetti al
servizio
e quindi almeno un po’
confortarvi
circa l’ottima morte che infine
corona l’itinerario degli
operati
a garanzia dell’avvenuto
riscatto.
Ma non v’è Angelo, Guida, o
Maestro
ad accogliere benevolmente gli
infelici
in quel luogo fatale di dolore;
una nera automobile d’ordinanza
appare senz’avviso sulla strada
e poi li scarica
nell’astanteria
dove sono costretti a guardare
ciò che prima nessuno vedeva:
la crudele faccia del Male
quando viene estratto dal corpo
alla luce delle lampade
operatorie
durante il doloroso
scattivamento
e poi raccolto nell’enorme
fogna
sita al centro più segreto
della Terra.
A chi la contempla da sotto
la grigia mole, priva di
finestre
e feritoie, sembra alzarsi
dagli abissi
con le mura tetragone e bugnate
ed i ponti levatoi ben
sprangati;
ma poi con meraviglia s’accorge
ch’essa s’alza arditamente in
cielo
coi camini eternamente fumanti
d’una fabbrica industriosa
circondata da ospitali
parcheggi
per accogliere milioni
d’automobiline
che si scorgono accorrere
continuamente
come lunghe processioni di
formiche
in marcia dalle terre più
lontane.
Là dunque il dolore della carne
è un veleno altamente
concentrato:
in ogni metrocubo di cemento
c’è un peso incalcolabile di
dolore
da ammazzare tutti gli uomini
del mondo
se venisse liberato dal Palazzo
in cui esso è tenuto nascosto.
Ma il dolore trasuda lo stesso
dalle garze, dal sangue, dal
pus,
tracima dai pozzi di racccolta,
allaga di fetore ogni stanza,
inzuppa ogni poro del cemento
e gocciola giù dalle muraglie
insieme al ronzio dei
macchinari
come sozzo liquame goloso
per le danze d’ogni sorta
d’insetti.
Eppure perfino in quel luogo
tutti sperano ancora di sanare
la cancrena del peccato
originario
senza soffrire, soltanto
ostacolandola
o negandola, nel vano tentativo
d’allontanarla da sé col
pentimento
od altri umani inadeguati
strumenti;
ma alla fine dell’impari guerra
esausti rassegnano le membra
nelle mani paterne
dell’Autorità
e si lasciano estrarre con
dolore
la pura quintessenza
spirituale.
Cercando per camere e stambugi
i bisognosi cui portare
conforto,
è stato con un tuffo al cuore
che a un tratto ho udito nel
buio
il respiro faticoso d’un
dormiente
tutto solo in una povera cuccia
e abbandonato a un profondo
sopore;
m’aveva assalito il ricordo
d’un altro penoso respiro
e d’altri giorni d’un altro
dolore
che ancora mi trabocca dal
cuore:
fui certo a un tratto ch’era
quello della Mamma,
quando vecchia pativa
crocifissa
ad una croce il tempo che
restava;
allora con forte batticuore
ho cercato a tentoni l’origine
dei sospiri e dell’amata
dormiente,
ma ho abbracciato sconvolto e
confuso
solo un povero vecchio
sbigottito
chiedendo mille volte scusa
per averlo disturbato nel suo
viaggio.
Chi potrà dimenticare i
patimenti
che dovetti mio malgrado
infliggere,
per presunte guarigioni che non
giunsero,
a quella povera vecchia a cui
il Male
sommuoveva ancora insospettate
animalesche diaboliche forze.
Non voleva ancora morire,
e i diavoli nascosti nel
budello
strillavano forte dalla sua
bocca
di volere continuare
indisturbati
i loro soliti traffici fecali;
allora i Santi Inquisitori con
la corda
le legavano in nome di Dio
le braccia che brandiva come
fendenti,
poiché il dovere li votava a
castigare
le bestie rintanate nel suo
corpo;
anch’io purtroppo gridavo a
quella bocca
che tacesse, non volevo più
sentire
i graffi delle strida bestiali,
anch’io con le lacrime agli
occhi
l’afferravo per le natiche
cellulitiche
e con la forza del figlio
ancora giovane
le affondavo il becco
scellerato
d’un potente clistere
sterminatore
sommergendo d’olio santo e di
ricino
le urla spaventose degli
assediati
finché sturavo quell’ano
riottoso,
la sua finestra s’apriva ad un
fiotto
inarrestabile di feci, una
valanga
di topi rospi aquile serpenti
neri come pece che fuggivano
per ogni dove lontano dalla
fogna
infine risanata, mentre alta
si levava soverchiante sul
mondo
la voce castigatrice di Dio.
Io commosso e sfinito ora
potevo
parlare ancora alla mamma
rinsavita
di me, della mia vita, dei miei
figli.
In fondo a un cunicolo cieco
trascurato dai percorsi
caritatevoli
di parenti e curiosi, ignorato
perfino dal monatto di guardia
intento a giocare a tresette,
mi parve riconoscere l’amico
d’una infanzia comune e
gloriosa
che lungo le vie della vita
da tempo ormai s’era perso
e qui protetto dall’ombra delle
celle
era forse sfuggito anche ai
severi
censimenti dell'Organizzazione.
Era uno afflosciato sul letto
come un sacco di roba dismessa,
con le membra di larva ancora
stese
così come i monatti frettolosi
scaricandolo le avevano messe;
ma io lo riconobbi dall’occhio
ch’era aperto e sembrava vedere
e forse anche un po’
vergognarsi
di quel tubo indecente di
catetere
che gli avevano messo fra le
gambe.
Mi parve che facesse anche uno
sforzo
per muovere un poco la bocca
e che ne uscisse anche un
piccolo pianto;
sgomento m’appressai per
carezzarlo
e dare del conforto a chi
ancora
pareva avere sembianza di
persona
e in cui forse qualche organo
pulsava;
fu allora che m’accorsi
sgomento
ch’era vuoto come un bozzolo di
baco
ormai dalla farfalla
abbandonato,
e l’aria usciva da un polmone
artificiale
che s’erano scordati di
staccare.
Neppure molto lontano
c’era anche un delicato
paravento
che celava agli occhi inquieti
dei malati
un piccolo mondo geloso
fasciato di soffice silenzio
come una capanna nella neve.
Un uomo col capo fra le mani
piangeva sommessamente la
compagna
che stava richiudendo i suoi
petali
così appassiti che neanche più
la notte,
che pure ritempra di rugiada
le cose inaridite dal giorno,
riusciva a rialzarli dai
cuscini;
era intenta alla fatica di
sciogliere
i lacci dell’anima da un corpo
forse ancora giovane e bello,
ma questo non voleva più morire
finché l’uomo continuava a
carezzarlo
senza sosta come forse mai
aveva fatto nei giorni felici,
poi che ora era l’unico tramite
al suo amore, il solo filo
prezioso
ancora acceso per farsi sentire
da quell’anima timida e gentile
che stanca del troppo soffrire
inarrestabilmente si ritirava,
e il pover’uomo non era più
capace
neppure con continui baci
di trattenere quella cosa
misteriosa
troppo tenue, evanescente,
impalpabile,
che sembrava sfuggirle dalla
bocca
esausta per l’impresa del
morire
e che pareva già chiamarlo da
lontano.
Pensai che per un caso
sventurato
poteva essere la nostra
compagna,
quella che scegliemmo
gioiosamente
ascoltando incantati il nostro
cuore
per essere con lei una sola
carne,
e timorosi del Male del mondo
affidare per sempre alla sua
guida
la dolce nostalgia della mamma.
Ma è quando su di noi
sbalorditi
s’abbatte la stretta della
morte,
che possiamo capire veramente
l’altissimo mistero benedetto
del più potente sacramento
divino,
il grande dono di letizia e
d’amore
che lei ci aveva fatto di sé;
e anche se l’amata che ci ha
amati
è colpita da un destino infame
che nessuno dei mortali può
capire,
se il suo tenero dolcissimo
involucro
è avvizzito fra le nostre
braccia,
abbandonato forse anche da Dio,
esso è ancora tutto da baci;
si può non amare come se stessi
il grembo che ci accolse con
amore
facendosi grotta e salvezza,
la bellissima carne che Dio
ora toglie ma che un giorno fu
nostra,
il suo seno, la sua mano, il
suo piede,
una sua unghia?
Confesso d’aver visto poco dopo
e spiato ignobilmente due
vecchietti
nascosti in una cella
lindissima,
quasi un’isola; una sorte
gentile
aveva voluto che insieme
quelle vite fedelmente unite
si apprestassero anche alla
morte;
nella cella dimentiche di
tutto,
quelle anime ricolme di grazia
si scambiavano l’amore più vero
che due esseri umani
consapevoli
si possano donare, più vero
dello stesso amore irruento
e un po’ cieco che facevano da
giovani;
lei col viso radioso circonfuso
di delicata saggezza femminile
aiutava il pene moscio ad
infilarsi
nel posto più giusto e più
bello
e lui senza vergogna, anzi
grato,
si lasciava aiutare baciandola
con languore, assaporando come
mai
l’abbraccio di quel corpo
ancora caldo
che con sapienza forse divina
sopperiva alla vecchiezza della
carne.
Il male, la materia, il dolore
in quella santa alcova era
svanito;
io ritrassi commosso lo sguardo
vinto dal pudore e dal
rispetto,
chiedendomi perché bisogna
attendere
di essere dei vecchi ormai
sfiniti
per imparare finalmente ad
amare.
da “Ballata del vecchio capitano”
Un giovane marinaio rinviene in un piroscafo
semiaffondato da tempo lo scheletro del capitano, che gli chiede di salvare la
sua anima e quella della Nave disincagliandola e riportandola in mare.
Eppure chinandomi su di lui
per salvare quelle ossa
infelici
dandogli cristiana sepoltura,
udii la sua voce levarsi
da non so dove, e pronunciava
<Figliolo,
lascia le mie ossa nella Nave,
ma com’è scritto nel Libro dei
Morti
sussurrami all’orecchio le
parole
che l’anima ha bisogno
d’ascoltare.
E’ anche scritto che dovrai
abbandonare
al suo destino la tua piccola
barca
e prendere il comando della
Nave,
disincagliarla, rimetterne la
prora
ad Oriente, guidare i nostri
spiriti
incontro all’agognata
salvezza>.
M’appressai con rispetto alla
sua tempia
e a bassa voce recitai
lentamente
e a lungo le parole dei
Sapienti
finché vidi il suo volto
sereno.
Ma non seppi trattenermi dal
violare
il gran regno dei morti, e
ansiosamente
scrutai la sua pupilla
nell’istante
preciso in cui stava
abbandonandosi
per sempre alla vitrea fissità:
cercavo
una piccola breccia per spiare
le immagini della Vita oltre la
Morte
che avevano assillato la mia
vita.
Non so dire se fu estasi o
miracolo,
ma vi dico che s’aprì, sì,
s’aprì
il diaframma che separa i vivi
dal mondo silente dei morti,
vidi il fondo luminoso del
tunnel
che esce dal nostro universo
e come un cordone ombelicale
porta al luogo d’una luce
suprema
così piena d’Amore e di Grazia
ch’io subito potei riconoscerla
come quella dolcissima della
Madre.
Erano graziose e benigne,
circonfuse d’un chiarore
ineffabile
le diafane figure gentili
che venivano a incontrarmi
sulla soglia
prendendomi amorosamente le
mani
per condurmi là dove la Luce
era infinitamente più grande;
avevo il bisogno struggente
di farmi possedere dalla Luce,
di abbandonarmi alle materne
braccia
di quel grande universo
d’Amore;
ma il compito cui ero destinato
m’impedì di varcarne la soglia
e seguii la forza misteriosa
che mi chiamava al relitto
della nave.
La Nave impaziente attendeva
ch’io prendessi il posto di
comando,
liberassi la carena insabbiata,
risvegliassi finalmente lo
Spirito
in quella morta ferraglia
arrugginita;
era già percorsa da un fremito
e sembrava già pronta a balzare
a un mio comando sulla rotta
degli oceani
per congiungersi alla Grande
Famiglia.
Il mio cuore di marinaio, uso solo
alle manovre delle vele, per
prodigio
divenne forte come il grande
cuore
d’un vero capitano dei mari,
quando diede l’ordine imperioso
<Sorgete!> alle macchine
rugginose
alte come rupi di ferro;
come un vero Capitano gioii
per l’ardente furore del fuoco
che ad un tratto arrossò le
caldaie,
pel vapore che usciva
fischiando,
per il potente stridio delle
bielle
che iniziavano il moto, esultai
quando vidi gli enormi
stantuffi
alzare e abbassare le schiene
come docili ubbidienti giganti
sempre più veloci, osannai
per il moto vorticoso delle
eliche
che scatenavano una forza
sovrumana,
per gli uomini che accorrevano
piangendo
alle manovre, per il denso fumo
nero
scagliato in cielo mentre io
rapito
gridavo <a tutta forza macchine
indietro!>
Il miracolo accadde: la mia
Nave
rialzò con uno sforzo il suo
capo
come un drago risvegliato dal
sonno,
la prua si scosse con tremendi
balzi
di cavallo imbizzarrito, tutte
quante
le eliche alzarono in un
vortice
montagne di schiuma e di sabbia
scavando caverne in una terra
che voleva imprigionarle, io
ancora urlavo
<indietro a tutta forza!>
aggrappato
al timone ad ogni scossa della
Nave
impennata verso il cielo
paurosamente
per liberarsi dalla morsa degli
scogli;
udii lo strido agghiacciante
della carena
graffiata crudelmente dalle
rocce,
ma vidi infine la bellissima
prora
svincolarsi dall’abbraccio
mortale
e scivolare, scivolare in acqua
con la poppa che infine
galleggiava,
tutta la mia Nave galleggiava!
era un candido cigno
guarito dell’antico dolore.
da “Genesis”
Un sopravvissuto al Day-after attraversa
i deserti alla ricerca di un angolo della Terra che sia stato risparmiato, ove
ricreare l’Eden distrutto.
Io Acmed ero figlio di Zot,
nell’Eden donatoci da Dio
prima che eventi spaventosi
ci dessero la Conoscenza del
Male;
ho dovuto infatti vedere
gli effetti del peccato
originario,
l’inesorabile trasformazione
dell’uomo
nella bestia e poi l’orrendo
raggrinzimento
di tutto il corpo per la laida
vecchiaia
fino a diventare una larva
in attesa della Luce del
riscatto.
Il giorno del terribile Evento
in cui la dannazione del Mondo
ebbe inizio, ero solo un
bambinello
che una potente scossa della
Terra
sbalzò violentemente dai suoi
giochi;
stordito e attonito vidi che il
Pianeta
aveva improvvisamente cambiato
la sua orbita diuturna intorno
al sole
e che altissimi nembi di
polvere
abbuiavano il giorno e
procellarie
dovevano cercare alla cieca
un riparo, mentre l’aria e la
terra
tremavano, e gli ominidi buoni
correvano piangenti a
nascondersi
insieme ai topi nelle tane più
profonde.
Mai si seppe cosa accadde
veramente:
si disse che il corso del
Pianeta
si fosse scontrato con un astro
nero come la pece, così grande
da contenere tutto il Male del
mondo,
e che il Male fosse stato
inoculato
in alcuni degli ominidi buoni
da radiazioni altamente
venefiche.
Quando il terremoto ebbe fine,
tutti gli esseri buoni della
Terra
uscirono stralunati dai
cunicoli
per vedere da vicino il nuovo
Astro
che ancora avvolgeva il Pianeta
in una sordida notte di pece,
ma dovettero nascondersi ancora
dentro buche che credevano
sicure
per salvarsi da un nuovo
nemico,
poi che presto una genìa
inopinata
di mostri orrendi, generata
dissero
dalle potenti radiazioni
dell’Astro
li inseguiva fin dentro alle
tane
per massacrarli con pietre
taglienti
e divorarne la dolcissima
carne;
poi i mostri ne uscivano sazi
forbendosi le bocche
insanguinate
alla fioca luce del giorno
che a poco a poco tornava a
rischiarare
la terra degli orrori mano a
mano
che l’Astro allentava la sua
preda
per riprendere la corsa
maligna.
Ben presto quegli orridi bipedi
applicarono con lena mai vista
i loro turpi organi erettili
a inseminare orride vagine
che erravano lascive per il
mondo
per generare altri mostri
affamati;
con arroganza si autonominarono
Uomini Nuovi e inventarono armi
molto più sofisticate delle
selci
per uccidere meglio tutto ciò
che la nuova orda di mostri
trovasse ovunque sulla Terra da
divorare.
Infine nelle guerre
s’ammazzarono
con ferocia inaudita anche fra
loro;
invasero col ferro e col fuoco
campi e boschi facendo atroce
scempio
d’ogni cosa ch’era nata dalla
terra,
fiori, alberi, uomini, bestie.
Iniziò ad
avanzare inesorabile
il deserto, le bufere di sabbia
bruciarono gli arbusti superstiti
dove prima tenere pecorelle
alzavano il muso dall’erba
per aspirare i venti di
primavera;
il veleno dell’Astro s’era
ormai
incarnito nei corpi degli
uomini
e sulla Terra infine fu la
Morte
a restare sovrana; fu la stessa
loro furia fratricida, o forse
la nemesi terribile di Dio
come accadde a Sodoma e Gomorra,
ma certo più niente sopravvisse
che avesse forma vegetale o
animale.
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