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Dialetto sì, dialetto no

Durante una riunione di lettori di una nota rivista letteraria molto incline a pubblicare poesia dialettale, tenutasi or non è molto, si è evidenziata l'esistenza, in una parte significativa del pubblico (l'altra era indifferente) di una profonda divergenza di vedute sulla letteratura in dialetto, per cui alcuni hanno rimesso in discussione l'opportunità stessa di dedicare alcune pagine della loro rivista a questo tipo di produzione letteraria. La mia impressione di spettatore fu che l'opportunità di esprimersi in dialetto sia nell'intimo degli animi molto più incerta e dibattuta di quanto si voglia confessare, quasi che a dichiararsi contrari ai dialetti si rischi la riprovazione dei benpensanti; e che ci sia una grande zona di incerti, di ragionevoli, di tolleranti, aperti a discutere il problema in tutte le sue varie sfaccettature, teoriche, pratiche, estetiche, linguistiche, ecc. È evidente che il tema ha delle forti valenze sociali e politiche in quanto dal dialetto si sentono rappresentate molte minoranze regionali che reclamano il diritto di esprimersi nella loro lingua materna, quale evidentemente è il dialetto; c'è addirittura chi, come il linguista Giancarlo Oli, (e qui confesso – nonostante l'amicizia e le numerose spiegazioni – di non averne ancora capite le argomentazioni) vorrebbe introdurre il dialetto nei primi anni della scuola elementare, quasi una facilitazione propedeutica allo studio della lingua ufficiale, come se i nostri bambini di qualunque ceto e regione non fossero abbastanza precocemente imbottiti da Mamma Rai. Credo, dunque, che bisognerà prima o poi affrontare su questo argomento una sana e democratica discussione. E' nella speranza di introdurre su questa ottima rivista un tale dibattito, che tenterò di mettere a fuoco alcuni termini del problema.

In primo luogo è chiaro che il dialetto, per alcuni strati sociali e in diverse condizioni storico-geografico-culturali, abbia ìl diritto d'essere considerata la lingua materna (nel senso d'esser stata appresa per prima) di una comunità più o meno grande e come tale sia una cosa degna di rispetto; lo è ancor più quando molti decidono di esprimersi solo in quella lingua, considerando evidentemente secondaria la lingua imparata a scuola. Ma è altrettanto chiaro che per altrettanti strati sociali forse a più alta scolarità o forse soltanto più familiarizzati con i mass media (guarda caso, è proprio fra questi che in prevalenza si sente il bisogno di scrivere) il dialetto può non essere affatto la lingua materna, perfino nell'ambito della stessa regione; e può arrivare ad essere perfino del tutto incomprensibile per popolazioni di altre regioni. A prima vista sembrerebbe che per una rivista letteraria il problema sia semplicemente di natura strategico-editoriale e che basti decidere, sulla base di dati di marketing, quale fetta di lettori si desideri accontentare. Sorge subito però il primo inghippo, in quanto la rivista dovrebbe mettere in conto che altre consistenti fette di lettori forse salteranno a pie' pari le parti ch'essa dedica a quel determinato dialetto; ed altre, ancora più consistenti, salteranno quelle dedicate tout court a tutti i dialetti, voltando proprio pagina; la qual cosa non dovrebbe riuscire molto gradita a una rivista che aspiri a coprire e soddisfare il territorio nazionale e, a causa della concorrenza, non può non tenere nel debito conto che molte e altrettanto accreditate riviste non offrono alcuno spazio ai dialetti. Poiché nessuno è deliberatamente autolesionista, la scelta di tali riviste sembra proprio dettata dal desiderio di non perdere lettori: per una rivista nazionale, infatti, restare fedele alla lingua ufficiale, che tutti comprendono, massimizza senza dubbio il numero dei lettori.

Ma oltre alle considerazioni pratico-finanziarie, il problema ha anche notevoli risvolti di natura ideale. Il problema dell'unità linguistica e politica della nostra penisola è vivo fin dai tempi del buon Dante, che lo ha affrontato e discusso da vero pioniere nel suo De vulgari eloquentia (chissà come si rivolterebbe nella tomba il Poeta dei poeti se potesse ascoltare gli odierni nostri dubbi). Se già con le ridotte comunicazioni del '200 era così sentita l'esigenza di una lingua (il volgare illustre) che riunisse caratteri di costanza, universalità e ufficialità, possiamo immaginare quanto profondamente dovrebbe essere sentita oggi, in un mondo che sta per diventare a tutti gli effetti il villaggio globale. Stranamente invece – in barba al poderoso effetto omologante dei mass media, televisione in testa – si stanno facendo strada ancora un po' ovunque lc più particolari urgenze regionalistiche. Il problema, dunque, è squisitamente politico e coinvolge tutte le forze sostenitrici dell'unità nazionale; le quali attualmente, chi per un motivo, chi per un altro, si trovano sia a destra che a sinistra. Ma poiché è chiaro che l'unità nazionale non è prescindibile da quella linguistica, è legittimo chiedersi se sia bene incoraggiare queste spinte particolaristiche coltivando e promuovendo anche le loro espressioni letterarie, in un mondo che almeno a parole aspira a unificarsi e affratellarsi. Certamente, questo avviene per interessi soprattutto economici e politici; ma sta di fatto che mira, proprio attraverso la standardizzazione linguistica dei mass media, ad uniformare ogni cosa, dai consumi alle idee. Probabilmente, è in questo contesto di forse soffocante uniformità, che trovano la loro ragion d'essere i dialetti, come una comprensibile e forse legittima reazione di difesa delle proprie originali tradizioni locali, cioè della propria identità. Così, assistiamo con tenerezza agli sforzi quasi eroici di molti poeti che rinunciano a una platea nazionale e si accontentano di pochi affezionati lettori, pur di salvare la loro pericolante identità linguistica. E' giusto incoraggiarli? Giro il quesito ai lettori di questa rivista.

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