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E tu, sei poetico o prosastico?
Confesso – e forse sono in buona compagnia – che le mie notti sono tormentate da
questo dubbio: che differenza c’è fra poeticità e discorsività, ovvero
prosasticità? Da quando infatti ho abiurato la fede giovanile di poeta ermetico
(sì, confesso, a quei tempi lo ero anch’io: ah, i giovani, che birichini!) per
dedicarmi a una scrittura chiara e trasparente, più matura, qualche sapientone
mi ha tacciato d’esser poco poetico e molto prosastico; in altri
termini, discorsivo, recitativo, pedestre, terra-terra, insomma da
buttare; e insieme a me naturalmente tutti i confratelli nella colpa,
clandestini della poesia chiara e trasparente (ma non per questo insulsa)
costretti da grandi editori, grandi premi letterari, grandi poeti di moda e
grandi critici dei giornali quotidiani, a vivere e morire in oscure catacombe,
pagando per giunta di tasca propria anche il proprio oscuro funerale. Secondo
quei sapienti una scrittura piana, trasparente e senza trabocchetti, una
scrittura che quando dice “pane” è davvero pane, e quando dice “vino” è davvero
vino, sarebbe da classificare come prosa, e quelli che la praticano sarebbero
solo scrittori prosastici senza un briciolo di fantasia; in tal modo
viene contrabbandata l’idea che la fantasia sia esclusiva peculiaritù del
linguaggio oscuro, cioè della poesia ermetica. A nulla vale chiedere agli stessi
sapienti dove collocherebbero la cosiddetta “prosa poetica”: risponderebbero che
non è la versificazione a distinguere la poesia dalla prosa e che anche la prosa
poetica è... poetica quando costringe lo sfortunato lettore a penetrare col
sesto senso nell’oscurità delle parole e a indovinare il “non-detto” (cioè
quando non ci capisce nulla, n.d.r.), mentre, quando si capisce tutto alla
perfezione, è piatta prosa... prosastica. Quei signori non si rendono neanche
conto che la prosa poetica si chiama appunto “poetica” solo perché è fatta da
una sequenza di versi veri, con ritmi musicali veri, messi in fila in una
sequenza continua dove i versi non si vedono ma si “sentono”.
Il
bello è che, se si guarda bene, la maggior parte dei poeti di oggi sono senza
saperlo cultori di prosa poetica, anche se fanno finta di scrivere in versi;
infatti per ideologia, o incapacità, o mancanza d’orecchio, la maggior parte ha
in grande disdegno la metrica, oltre che la grammatica, e spezza i versi andando
a capo quando gli pare e piace senza alcuna ricerca di ritmo musicale, così che
i cosiddetti “versi” si potrebbero mettere in fila appunto come nella prosa
poetica senza che cambi niente: cambiando l’ordine degli addendi infatti il
risultato non cambia. Qualcuno se ne vanta, qualcun altro fa solo la pecora nel
gran gregge dei senza-metrica. Tuttavia tutti, sentendo confusamente nel fondo
della loro coscienza che una versificazione senza metrica non sarebbe altro che
ignobile prosa poetica, pensano di poter venire ancora classificati nel più
nobile genere della poesia “salvando” i loro versacci con un po’ di oscurità.
Non si
può dunque ignorare che ancora oggi i sapienti del momento continuano a
stabilire una ferrea corrispondenza fra “oscurità” e poeticità, e per
converso fra “chiarezza” e prosasticità. Non tutti hanno il coraggio di
ammetterlo, e allora si nascondono malamente dietro metafore o eufemismi
affermando che la poesia è il regno del “non-detto”, e la prosa il regno del
“detto”; al massimo concedono che un po' di oscurità fa bene alla poesia, e
fanno così passare la panzana che in tal modo si stimola la fantasia del
lettore. Hanno addiritura l’impudenza di invocare a sostegno una frase ambigua
di Leopardi nello Zibaldone interpretandola a modo loro. Ebbene, davanti alla
sapienza fideistica di così autorevoli critici e grandi poeti, cosa può fare una
minoranza, se non sentirsi vergognosamente sprovveduta, e infine inchinarsi? Io
stesso devo confessare che la mia auto-liberazione è avvenuta attraverso molti
dubbi tormentosi; ancora oggi, per ogni verso che scrivo, mi capita
inconsciamente mio malgrado di chiedermi se esso contenga almeno una briciola di
oscurità, in modo da potere far vibrare un po’ anche i cuori sofisticati degli
ermetici. Meno male che subito prevale l’eroica consapevolezza di non vendersi
al nemico, confortata anche dalla rassicurante protezione di un Dante e dello
stesso Leopardi – tanto per prendere una bella bracciata di storia letteraria –
ai quali non si è certo mai rinfacciata la chiarezza e la trasparenza; anzi, mi
risulta che quando a quei poverini era scappata qualche oscurità, eserciti di
professori di liceo spiegavano agli alunni che in quel punto la poesia aveva
avuto un momento di debolezza, una specie di mancamento, e quindi si poteva
tranquillamente saltare quel brano a pie’ pari. Insomma, nessuno ha mai
rinfacciato a quei Grandi che la loro poesia fosse discorsiva o
prosastica perché diceva le cose chiare e tonde e usava correttamente la
lingua, dimenticando fra l’altro che la lingua italiana l’hanno fatta proprio
loro. Perché dunque proprio oggi si dovrebbe invertire la tradizione e dire
“oscurità uguale poesia”? Forse perché anche la poesia dovrebbe seguire il
progresso tecnologico?
Ma
se ai nostri Grandi l’oscurità di linguaggio nemmeno passava per l’anticamera
del cervello, allora quando è nata questa benedetta-maledetta idea che la poesia
sia... “poesia” solo quando prevale il “non-detto”? Io ho una teoria molto
maligna, che dice che la ricerca sfrenata dell’indicibile, o del “non-detto”,
sia nata non a caso in questo nostro secolo di neo-medioevo, in cui, vuoi per il
frastornamento causato dal relativismo e permissivismo imperanti, vuoi perché si
crede che anche la poesia debba a tutti i costi partecipare a quest’orgia di
progresso consumistico-tecnologico, vuoi perché si pensa che gli antichi
avrebbero già detto tutto ciò che si poteva dire, accade che oggi non si sappia
più che cosa inventare di “nuovo”. Crisi di contenuti, dunque, e non di stile
poiché lo stile e la metrica son sempre quelle; la verità è che chi, poveretto,
di contenuti non ne ha si nasconde nello scrivere il “non detto”, credendo che
stando nel gregge di chi si autodefinisce “avanguardia” egli possa mantenersi
l’ambita patente di poeta; perfino i pochi che scriverebbero più volentieri
chiaro e tondo si arrabattano a inventarsi le più improprie associazioni di
parole o, bontà loro, analisi egocentriche dei propri intimi sentimenti come se
questi fossero la cosa più interessante del mondo; oppure si dedicano a parlare
di ovvietà quali prati in fiore, mamme o farfalle, pensando di fare almeno
un’onesta poesia cristiana, edificante e rasserenante, mentre invece è solo
insulsa e banale. Ben pochi sono quelli che perseguono un’articolata riflessione
esistenziale o metafisica che tocchi i temi terribili dell’umanità e della
spiritualità o quelli vietatissimi che riguardano i misteri della corporeità;
pochi sono quelli che credono che la poesia debba recuperare la sua antica
funzione di insegnare qualcosa attraverso una rilettura del mondo per arricchire
la nostra consapevolezza.
Ma per
chiudere con un filo di speranza, diciamo pure che se ciò non avviene oggi,
perché disperare che avvenga nel millennio appena cominciato, che forse ci farà
risorgere dal medioevo? Quindi, poeti chiari e trasparenti di tutto il mondo
unitevi! e facciamogliela vedere!
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