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La lobby degli ermetici: l'oscurità fa bene alla poesia

Diciamolo pure chiaro e tondo: oggi il lupo cattivo è la potentissima lobby degli ermetici, e io gli dichiaro guerra. Sono loro che tengono ancora saldamente in pugno la poesia, coccolata e imbalsamata dalla protezione di vegliardi che l'annaffiano tutti i giorni con vitamine per tenerla in vita almeno finché campano loro, o almeno finché dura la loro speranza di ottenere il sospirato Premio Nobel. Non si accorgono neanche che pretendere di portare in trionfo la poesia ermetica anche nel terzo millennio, infiocchettata come un neonato da tenere a battesimo, è come voler portare nel nuovo mondo un morticino, un modo di poetare già da tempo decotto e defunto.

E' purtroppo per questa lobby di vegliardi e relativi vassalli e servitori, che i poveri poeti dissidenti, quelli che si ostinano a scrivere chiaro e trasparente e secondo grammatica, sono stati finora costretti da grandi editori, grandi premi letterari, grandi poeti di moda e grandi critici dei giornali quotidiani, insomma da tutti i potenti, a vivere e morire come martiri in oscure catacombe, pagando per giunta di tasca propria anche il proprio oscuro funerale. Secondo la lobby degli ermetici, una scrittura piana e comprensibile, senza nascondigli e trabocchetti, sarebbe uguale alla prosa, perciò quelli che la praticano sarebbero scrittori prosastici senza fantasia; secondo loro infatti, solo la poesia ermetica è esclusiva depositaria della fantasia. A nulla vale chiedere a quei sapienti dove classificherebbero la cosiddetta "prosa poetica": risponderebbero dando per scontato che non è la versificazione a distinguere la poesia dalla prosa e che anche la prosa poetica è... poetica quando penetrando col sesto senso fra l’oscurità delle parole si percepisce il "non-detto" (cioè quando non si capisce nulla, n.d.r.), mentre tutto ciò che si capisce alla perfezione è piatta prosa... prosastica.

Il bello è che secondo questo criterio di oscurità ermetica moltissimi poeti di oggi sono in pratica, senza saperlo, cultori di prosa poetica dato che fanno finta di scrivere versi più o meno spezzati, ma senza metrica né ritmo musicale, avendo essi, per ideologia o per mancanza d'orecchio, in disdegno la metrica, oltre che la grammatica. Qualcuno se ne vanta, qualcun altro fa solo la pecora nel gregge dei senza-metrica, andando nelle sue finte poesie addirittura "a capo" come gli pare e piace, come nella prosa, convinto che anche... cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambi e venga sempre fuori automaticamente qualcosa che viene acclamato come “verso” dai loro consimili. Tuttavia qualcuno dovrà pure ricordarsi d’essere stato a scuola, e sentire confusamente in fondo alla coscienza che una versificazione senza metrica non è neppure prosa poetica; questa infatti si chiama prosa poetica perché, pur non essendo suddivisa in versi, contiene lo stesso al suo interno, variamente distribuiti, ritmi metrici assolutamente armoniosi. Tuttavia, vuoi perché non sono capaci di produrre ritmi armoniosi, vuoi perché non verrebbero accettati nel più nobile genere della "poesia", a tutti questi non resta che seguire l’andazzo che richiede alla poesia come minimo comune denominatore l'oscurità del linguaggio, oscena perversione che ha imperato impunemente per tutto un secolo e, se qualcuno non si ribella continuerà ad imperare per nascondere la mancanza di idee.

Non si può dunque ignorare che ancor oggi i sapienti del momento continuano a stabilire una ferrea corrispondenza fra "oscurità" e poeticità, e per converso fra "chiarezza" e prosasticità. Non tutti hanno il coraggio di ammetterlo, e allora si nascondono malamente dietro metafore o eufemismi lodando ad esempio più il "non-detto" che il "detto"; al massimo concedono che un po' di oscurità fa bene alla poesia, facendo passare la panzana che così si stimola la fantasia del lettore. Ebbene, davanti alla sapienza fideistica di così autorevoli critici e grandi poeti, cosa può fare una timida minoranza, se non inchinarsi? Io stesso devo confessare che la mia auto-liberazione è avvenuta attraverso molti dubbi tormentosi; ancora oggi, per ogni verso che scrivo, mi capita mio malgrado di chiedermi se esso contenga... almeno una briciola di oscurità, in modo da poter far vibrare anche i sofisticati animi degli ermetici con un po' di "non-detto". Meno male che subito prevale l'eroica consapevolezza di non vendersi al nemico, confortata anche dalla rassicurante protezione d'un Dante e d'un Leopardi, ai quali non mi risulta sia mai stato rifacciato d’esser chiari e trasparenti; anzi, mi pare che quando a quei poverini era scappata qualche oscurità, anche solo un po' di "non-detto", ogni onesto professore di liceo ci spiegava che in quel punto la poesia aveva avuto un momento di debolezza, e quindi si poteva tranquillamente saltare pagina. Insomma, nessuno ha mai rinfacciato a un Dante o a un Leopardi (tanto per prendere una bella bracciata di storia) che la loro poesia fosse discorsiva o prosastica per il solo fatto d'aver detto le cose chiare e tonde e aver usato correttamente la lingua (fatta, mi pare, da loro). Perché dunque proprio oggi si dovrebbero applicare i famosi "due pesi e due misure"? forse oggi la poesia è "progredita"? ha fatto un salto di qualità, come la tecnologia dei computer? Ecco: forse il marcio della poesia attuale sta proprio in questa ingenua credenza che anche la poesia debba seguire le leggi del progresso e della moda; e per "progresso" tutti intendono naturalmente solo quello formale, non quello dei contenuti.

Ma se ai nostri Grandi nemmeno passava per l'anticamera del cervello che la poesia potesse essere oscura, allora quando è nata questa benedetta idea che la poesia sia... "poesia" solo quando prevale il "non-detto"? Io ho una teoria molto maligna, che dice che questa ricerca sfrenata dell'indicibile, o del "non-detto", sia nata non a caso in questo nostro secolo di neo-medioevo in cui, vuoi per il frastornamento causato dal relativismo e permissivismo imperanti, vuoi perché si crede che anche la poesia debba a tutti i costi "progredire", vuoi perché si pensa che gli antichi avrebbero ormai detto tutto il dicibile, accade che oggi non si sappia più che cosa dire. Crisi di contenuti, dunque, e non di stile; e chi, poveretto, di contenuti non ce ne ha, si butta sull'indicibile, pecora fra le pecore; perfino quei pochi che scriverebbero volentieri chiaro e tondo si sentono obbligati a fare "ricerche" stiracchiate sullo stile, anche su quello tipografico, o quanto meno, bontà loro, sui fatti del loro ego privato come se questo fosse la cosa più interessante del mondo; oppure si buttano sul facile, e si dedicano allora a parlare di prati in fiore, di mamme e di farfalle, pensando di fare almeno un'onesta poesia cristiana, edificante e rasserenante, mentre invece è solo banale. Ben pochi sono quelli che perseguono un'articolata riflessione esistenziale o metafisica che tocchi i temi terribili dell'umanità, della spiritualità o quelli vietatissimi della corporeità; pochi sono quelli che credono che la poesia debba recuperare la sua antica funzione di insegnare qualcosa attraverso una rilettura del mondo, di arricchire la nostra consapevolezza, di trasmettere agli altri una concezione della vita e una saggezza che siano – per tutta la gente normale alfabetizzata e non solo per gli addetti ai lavori – dei punti di riferimento morale.

Ma per chiudere in bellezza, diciamolo pure: se ciò non avviene oggi, perché disperare che avvenga nel millennio che si sta per aprire, e che forse ci farà risorgere dal medioevo? Quindi, poeti trasparenti di tutto il mondo, unitevi! e almeno nel nuovo millennio facciamogliela vedere! Però non aspettate troppo.

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