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Lettera a un giovane poeta
(non menzionato)

Caro Amico,
ho letto il Suo libro, ma mi trovo spiazzato a parlarne. Come ha visto, io sono quasi un alieno rispetto al mondo della Sua poesia, e purtroppo anche a quello di molti altri. Non ci si guadagna molto a chiedere pareri agli alieni. E credo anche fermamente che nessun poeta può fare il critico degli altri: è troppo incatenato al proprio stile di scrittura, al proprio mondo immaginario, alla propria filosofia poetica. Ad esempio, Lei scrive quasi generalmente per brevi flash, quasi per sintagmi, che si accavallano l'un l'altro spesso senza un collegamento logico, grammaticale o sintattico; ciò conferisce senza dubbio alla Sua poesia una non comune agilità e vivacità delle immagini, che potrei anche apprezzare se esse riuscissero a parlare la mia stessa lingua e il mio stesso pensiero. Questo modo di scrivere produce senza dubbio un certo effetto di "sospeso", di "incompiuto", di "misterioso", che tuttavia (mi perdoni) deriva solo dalla loro oscurità, piuttosto che dai contenuti. E una moda che nella poesia del Novecento andava molto; e a dire il vero sta andando molto bene tuttora, che siamo entrati nel Terzo Millennio; non sembra proprio che la Nuova Era abbia fatto nascere la voglia di fare qualcosa di nuovo. Forse perché è più facile fare gli epigoni e scrivere ciò che premia, ad esempio quello che vogliono i concorsi, la maggior parte dei giornali di poesia, quella parte di poeti che fanno anche i lettori (pochi), ma soprattutto quelli che credono di essere moderni e progressisti scrivendo in quel modo. Purtroppo il nostro mondo vetero-positivistico crede ancora nel Progresso Infinito, e crede che anche la poesia si debba adeguare mandando al diavolo i vecchi impacci della sintassi, della punteggiatura, della coerenza sequenziale delle proposizioni che una volta si chiamava retorica (ah la vecchia buona retorica! che poi non era altro che l'arte di esprimersi in modo comprensibile e convincente). Ma per apprezzare l'arte di questo popolo di innovatori bisogna essere ideologicamente allineati al "Partito", bisogna avere quanto meno una grande disponibilità a guardare col microscopio fra le righe per scovare i contenuti ed esser pronti anche ad annoiarsi se non vi si riesce (ah í vecchi buoni contenuti! che poi non erano altro che ciò che non faceva annoiare).

Io dico invece che, dopo quasi un secolo di esperimenti più o meno avanguardistíci, í veri progressisti saranno paradossalmente proprio quelli che torneranno ad usare gli strumenti più tradizionali dell'espressione, perché ogni altro modo di esprimersi si è sempre chiamato, e si chiama, balbettio di sintagmi fra i quali non si vede un nesso, ma soprattutto che non dicono niente di interessante a chi per disgrazia non sia addetto ai lavori o non appartenga alla falange degli allineati. Ma io, che sono maligno, sospetto che anche costoro non ci trovino niente di avvincente, e leggano perciò molto poco quello che scrivono i loro fratelli di ideologia; sospetto convalidato dal fatto che nessuno compra libri di poesia, se li fanno solo regalare, anzi glieli tirano dietro con tanto di dediche atte ad elemosinare un piccolo sguardo; il quale molto regolarmente viene a mancare, dal momento che chi li riceve neanche si degna di rispondere o di dir "grazie".

Ecco dunque il punto cruciale: la gente ormai sente il bisogno di una scrittura logica, chiara, univoca, e credo che sia anche stufa del minimalismo intimista, sapete, quella poesia-sfogo che interessa solo all'autore. Caro Amico, non si è mai chiesto per quale ragione oggigiorno la gente ami (e compri!) solo la narrativa? So già che risponderebbe "perché la poesia è più difficile"; ma a me sembra una risposta troppo facile. Non sarà invece perché la poesia di oggi è meno interessante? perché non ha la presa avvincente della narrativa? Anche il lettore di poesia sente il bisogno di un discorso più approfondito, più ricco non solo di immagini ma anche di concetti, quindi più "interessante" proprio dal punto di vista esistenziale. Soprattutto è stufo di ascoltare le immagini minime di chi guarda il mondo solo per parlare delle proprie sofisticate funamboliche sensazioni. Insomma scrivere grammaticalmente corretto non basta, bisogna dire anche cose degne d'esser dette e meditate; la poesia che ti passa sopra la testa lasciandoti uguale come prima, senza averti indotto a meditare sulle cose serie anziché su quisquilie insignificanti o sugli amori infelici (vezzo di tante poetesse) rinuncia alla sua funzione morale di riferimento esistenziale, nobilmente espletata dalla più remota antichità solo fino agli inizi del Novecento; e poi più niente. Non me ne vogliano ora le poetesse chiamate in causa per i loro piagnistei, ma purtroppo è un fatto statistico che tali sfoghi siano la poesia irresistibilmente da loro prediletta, alla quale resistono solo poche toccate dalla Grazia. Se la poesia non serve a farti crescere, anche a costo di coinvolgerti con temi drammaticamente e talvolta sgradevolmente esistenziali, a che serve? Qualcuno obietterà che sia arbitrario attribuire alla poesia il compito di costituire per forza un punto di riferimento esistenziale; dirà che la poesia ludica è sempre esistita e son sempre esistiti poeti cui nemmeno passava per la testa di parlare di cose serie che facessero pensare. Ed è vero. Ma mi dite quanti di costoro, anche fra gli antichi, sono rimasti? quanti di costoro continuino ad esser letti? Mi risulta invece che molti leggano ancora Dante o Leopardi, ma molto pochi un Metastasio o un Marino; lo stesso grande Petrarca (attento! adesso i benpensanti si scatenano) credo sia letto ancora per costrizione scolastica o forse da qualche studentello innamorato. Non è detto che tutta la poesia antica sia interessante anche per l'uomo moderno, molto più dubbioso e problematico di allora perché afflitto dal relativismo delle verità e delle opinioni e perché porta il peso di millenni di storia.

E ora, caro Amico, mi chiederà come dovrebbe scrivere. Ma è semplice. Innanzitutto scriva in modo linguisticamente corretto, come Le è stato insegnato a scuola, e senza pretendere di inventare nuove parole; non certo per conservatorismo, ma perché il modo di comunicare è uno solo: la lingua che ci è stata data. E poi tratti la materia in modo logicamente consequenziale e coerente, in modo che il discorso abbia un principio, un decorso, e una fine. Semplice, no? Ma vi è un'altra cosa di cui si sente il bisogno e che solo pochissimi osano oggi affrontare: il discorso allargato; voglio dire non la singola poesia, non la silloge, queste raccolte indiscriminate di singole poesie slegate che nulla hanno a che fare l'una con l'altra, poesie che si possono leggere cominciando dal fondo del libro o aprendolo a caso, (delizia dei recensori perché se la cavano con pochi sguardi qua e là) ma accanito, coerente, unitario, spesso sofferto, spesso anche spietato perché sgradevole, svisceramento di un tema, di una narrazione, di una meditazione. Insomma un poema. Il quale può essere lirico o epico, scritto tutto di seguito o meglio suddiviso in stanze che separino un momento o un fatto senza per ciò essere scollegate; oppure in lasse come nell'antica tradizione della "chanson de geste"; queste piccole separazioni, queste pause fra una lassa e l'altra, danno al lettore la possibilità di fermarsi un momento a meditare ciò che ha letto. Ma la forza della scelta poematica sta nel fatto che la materia non viene troppo succintamente, e perciò superficialmente, trattata; si ha modo, appunto, di sviscerare un tema o una narrazione soffermandosi sui loro vari aspetti, dando in tal modo più soddisfazione al vero lettore affamato di sapere; e inoltre, ma non ultimo, rendendo la lettura più interessante e avvincente perché sfrutta l'effetto del "vediamo-come-va-a-finire"; effetto sempre presente nelle trattazioni di una certa estensione, anche se non sono propriamente narrative ma puramente fantastiche o poeticamente filosofiche, e molto ben conosciuto dai narratori, purché non parlino beninteso dell'acqua calda.

Detto tutto questo, caro Amico, aggiungo che (anche se non mi sento la capacità di analizzare o commentare la Sua poesia) non deve pensare che non sia in grado di riconoscere chi come Lei ha certamente una vena poetica spontanea e vivace, che potrebbe senz'altro meglio utilizzare se volesse abbandonare la tentazione che esercita ancora su molti la cosiddetta avanguardia ed entrare per la porta diretta nella poesia del nuovo millennio; e che – lo confesso volentieri – nonostante tutto non mi ha completamente "annoiato". Questa è per me la prova del fuoco. Di un piccolo fuoco, da coltivare.

Veniero Scarselli

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