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Metrica, fraseggio, declamazione
Fra la maggioranza dei poeti di oggi (si fa per dire,
perché ormai è realtà che data da moltissimi decenni) circola un curioso
atteggiamento di ripulsa per il bel verso tornito e ritmato. Sembra quasi
ch'essi credano che per essere "moderni" sia assolutamente necessario
ignorare l'armonia del fraseggio (e spesso della grammatica), dimostrando
così di non essersi mai accorti che anche la prosa, quando è bella, segue
ritmi e cadenze regolari; perfino il fraseggio del normale eloquio umano deve
avere, per essere efficace, un ritmo armonioso che dipende dalla posizione
degli accenti nella frase e dall'enfasi. In poesia la posizione di questi ha
sempre seguito le regole ferree stabilite dalla metrica, un altro
spaventapasseri per il volgo dei poeti dilettanti.
L'esistenza di queste regole è imposta dalla particolare
fisiologia della mente, poiché essa è capace di riconoscere ed elaborare
un'informazione soltanto se questa le viene presentata secondo l'ordine
ancestrale innato fin dagli albori della vita, allorché molecole organiche non
vitali si sono aggregate secondo un ordine dettato dalle valenze chimiche
presenti; a quest'ordine, sviluppatosi durante 1' evoluzione in cellule,
tessuti, organi, cervello umano, obbediscono ovviamente anche tutti i
linguaggi. Molti scrittori distratti sembrano non tener conto del fatto che un
linguaggio non è altro che un codice, cioè una serie di regole atte a
preparare i materiali di un'informazione pre-ordinandoli in modo da
permetterne più facilmente l'acquisizione da parte del lettore; queste regole
una volta facevano parte di una scienza che aveva il nome oggi tanto
ridicolizzato di Retorica. Ebbene, oltre alle regole insostituibili della
comunicazione verbale-grammaticale, senza le quali non si attua alcuna
trasmissione di pensiero (come si può osservare dai suoni inarticolati in
voga in certa poesia moderna), esistono regole minori capaci tuttavia di
facilitare grandemente l'acquisizione d'un pensiero. Voglio dire che se l'uso
della grammatica rende intelligibile bene o male un determinato pensiero, è
solo la successione ben cadenzata degli accenti e delle pause ciò che mette in
evidenza i punti cruciali di una frase facilitandone immediatamente
l'identificazione e la comprensione; l'ottimizzazione di questa successione
produce appunto la tipica soddisfazione (piacere estetico) che permette di godere della bella frase o del bel
verso annonioso. Certamente non è facile per tutti, ci vuole un po'
d'orecchio, forse anche di abitudine, ed è per questo che la massa dei poeti
da strapazzo non ci si cimenta nemmeno.
Ma proviamo a fare un bell'esperimento. Mettete in mano a
un bravo attore un testo qualsiasi di un cattivo scrittore che state
stentatamente leggendo, anzi, cercando a fatica di decifrare a causa della
cialtronesca disposizione degli accenti e delle pause o addirittura per la
mancanza di punteggiatura: toccherete con mano se ai fini della comprensione
è più efficace la vostra stentata lettura o quella fluida e modulata
dell'attore. Che operazione ha compiuto l'attore? Mediante un sistema
coordinato di accenti, pause, sospensioni dettate dalla sua bravura
interpretativa, vi ha "preparato" e poi sciorinato il testo in modo da
evidenziare le parti prioritarie e farvi cogliere più facilmente l'ossatura
sintattica del discorso con tutte le sue proposizioni principali,
subordinate, coordinate, ecc, e tutte le sfumature che esse mettono in
evidenza. Il rispetto di questo sistema di accenti, pause e sospensioni
costituisce appunto il ritmo di una buona dizione, ciò che si suole chiamare
anche espressività. Ricordate ciò che ci raccomandava la brava maestra
elementare quando si doveva leggere un testo? «leggete con più sentimento!» ed
è la stessa operazione che deve fare il bravo attore per migliorare la
comprensione di un testo cattivo.
Ma la cosa veramente irritante è che questa operazione
avrebbe dovuto compierla il cattivo scrittore sul proprio testo non solo
secondo le regole della sintassi ma distribuendo appropriatamente gli
accenti, le pause, la punteggiatura e, nel caso della poesia, le sospensioni
(importantissime!) di capoverso, applicando semplicemente le regole
dell'espressività. Il ritmo dunque e la metrica (che è appunto la
codificazione delle leggi del ritmo) non sono orpelli gratuiti d'altri tempi,
inventati per seviziare lo scrittore, ma fanno parte integrante del
linguaggio come veicolo d'informazione al pari della grammatica e della
sintassi. Sia l'attore che declama dal palco, come il lettore che declama
dentro di sé (anche quando leggiamo in silenzio, declamiamo! non ve ne
eravate accorti?) non fanno che decodificare, oltre ai codici grammaticali,
quelli dell'espressività, in modo da ricavare e fare ricavare la più pronta
ed efficace comprensione del testo e quindi il massimo piacere estetico.
Quando mi capita di leggere uno di questi poeti sdegnosi
del ritmo (se non addirittura della grammatica), provo una sofferenza
inaudita; che diventa commiserazione quando per caso chiedo loro di leggere "con
sentimento" il loro testo, come raccomandava la maestra. Si assiste infatti a
qualcosa di incredibile: essi ce la mettono tutta, per leggere bene, con
ritmo, espressività e sentimento! Fanno cioè l'operazione che farebbe il bravo
attore sul testo del cattivo scrittore: mentre leggono il proprio cattivo
testo, introducono a voce, improvvisando, gli accenti, le pause, le
sospensioni di fineverso che per pigrizia, dabbenaggine, o ignoranza non
avevano messo prima nel loro testo scritto applicando subito e
coscienziosamente i codici del ritmo e dell'espressività imparati a scuola.
Perché non l'abbiano fatto prima, resta per me un mistero. Possibile che
dalla lettura dei classici appresi bene o male a scuola non abbiano imparato
ad apprezzame l'armonia e la musicalità? Possibile che non si siano mai
affinati l'orecchio?
Ma la sofferenza e la meraviglia davanti a questo mistero
si tramuta in rabbia quando leggo alcuni poeti sdegnosi del ritmo, che
tuttavia stimo ed apprezzo per la novità dei contenuti che essi mettono in
campo. Mi rendo conto che facendo loro questa critica sto violando un tabù:
sono infatti convinto che nessuno ha mai osato far loro notare d'essere
sdegnosi del ritmo e della metrica; sono convinto anzi che il loro "onore" sia
accuratamente protetto... dall'omertà; talvolta mi viene perfino il sospetto
che essi, in buona fede, credano di fare dei versi molto ben ritmati e
armoniosi: il loro impegno sembra troppo serio perché rinuncino a una fetta
così sostanziosa di espressività. E allora? perché spezzare la frase proprio
in quel punto anziché in un altro, se il capoverso non serve a evidenziare
nessun particolare sintagma né alcun movimento sintattico? perché scrivere
versi zoppicanti, corti, oppure lunghissimi, pieni di faticosi ed inutili
enjambement? Anche la peregrina pretesa di trasmettere con tagli sgradevoli
e mancanza di ritmo chissà quale oscuro significato, è illusoria; la cacofonia
e la sgradevolezza non trasmettono al lettore nessun significato, anzi lo
uccidono. Non sarebbe allora più onesto adottare francamente, anche se
banalmente, la cosiddettaprosa poetica?
Spero d'aver convinto qualche ignaro poeta "modemista" e
forse anche qualche ostinato poeta ermetico che l'osservanza del ritmo e
della metrica migliora la leggibilità, la comprensione, e l'efficacia
espressiva del testo. Può darsi tuttavia che qualcuno non si senta capace di
compiere questa specie di make up sui propri testi, vuoi per mancanza
d'orecchio, vuoi per sue altre innominabili ragioni; tuttavia, poiché in
questo mondaccio letterario anarchico e farneticante tutto va bene, armonia e cacofonia,
sono convinto che, imboscato nel gregge della moda, buscherà addirittura più
facilmente qualche premio letterario, dato che sono pochi quelli delle giurie
che badano al ritmo e alla leggibilità. Così, chi aspira solo a un effimero
successo hic et nunc, piuttosto che all'immortalità, sarà ugualmente
soddisfatto. E poi, perfino l'idolatrato Mario Luzi è stato molto spesso
"sdegnoso della metrica". Ai suoi tempi faceva tanto "moderno"; ma oggi?
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