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Evviva se qualcuno, come Monaco e Alessandri, su questa Tribuna Aperta ha "lanciato il sasso nello stagno" ed ha "iniziato un discorso serio e onesto sulle patrie lettere". La mia è quasi la gioia di chi trova finalmente dei fratelli, dato che da anni vado portando avanti, anche su questa Rivista (n. 11/1992 e n. 27-28/1993), un analogo discorso. Mi sia concesso oggi di aggiungere alcune riflessioni circa le cause per nulla misteriose dello stato di malessere della poesia denunciato dai nostri Autori. Sembra che anche riguardo al modo di concepire la poesia stia finendo un'epoca. Dovrebbe essere quindi logico che solo attraverso una chiara ridefinizione di quest'oggetto misterioso e delle sue funzioni (perché no?) sociali si possa sperare di coagularvi intorno un qualche consenso e quindi anche la partecipazione attiva di un gruppo di poeti rinnovatori. La ventata di nuovo che portò a suo tempo il simbolismo adesso è veramente esaurita; questo infatti ha dato inizio a una diabolica fase in cui la poesia era condannata dai suoi stessi presupposti ideologici a diventare un prodotto destinato esclusivamente ai poeti, in cui cioè il poeta-scrittore si rivolge a un poeta-lettore. Il serpente, dunque, che si morde la coda. La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è la folla di suoi nipotini che scorrazzano perplessi fra lirismo intimista, ermetismo e sperimentalismo d'avanguardia, tutti uniti dalla stessa colpa d'aver prodotto la dolorosa frattura fra i poeti e la gente, confinando la poesia in un vero ghetto, ed essersi paludati di un perverso, arrogante, ma soprattutto ingiustificato perché vuoto, atteggiamento elitaristico. Ebbene, chi può ancora meravigliarsi che la poesia non riesca ad interessare il grande pubblico, se essa si ostina ad offrirgli il vuoto, anziché degnarsi di trattare i veri, brucianti, paurosi problemi esistenziali dell'uomo d'oggi? Sembra anzi che vi sia un tacito accordo fra i poeti per evitare accuratamente tutti i problemi; e lascio indagare i sociologi, se ciò accade per una sorta di malinteso pudore, o timore di fare della retorica, o perché si stima che siano troppo importanti per le proprie forze, o semplicemente perché sì preferisce stare alla larga dagli argomenti inquietanti. Ma nessuno sa perché si riservi questa attenzione più o meno reverenziale solo alla poesia, mentre ai prosatori è concesso di non avere alcun pelo sulla lingua. Fatto sta che i poeti preferiscono ispirarsi alle effimere emozioni private come se fossero le cose più interessanti del mondo, oppure occuparsi di vuote forme incomprensibili (spesso non sono nient'altro che suoni) più che dei contenuti. Ambedue hanno insomma rinunciato alla comunicazione, naufragando in un nuovo genere di accademia. Ma una poesia incapace di costringerci, volenti o nolenti, a riflettere sul mondo o sulla nostra condizione (anche a costo dì sconvolgerci), una poesia che non serve ad accrescere la consapevolezza della nostra vita, una poesia insomma che dopo la lettura ci lascia uguali come prima, a cosa serve? Che essa non serve assolutamente a nulla, permettetemi di affermarlo in barba a tutti quelli che proclamano la purezza della poesia fine a se stessa e la bellezza della poesia inutile, l'arte per l'arte. Come può interessare la gente, oggi sempre più tormentata da problemi esistenziali e metafisici? Io qui vorrei rivendicare invece proprio la bellezza della poesia utile, quella che aiuta a capire il mondo, perché penso che anche la poesia, non diversamente dalla scienza e da ogni altra attività dello spirito, seppure con un linguaggio diverso, ubbidisca all'innato ed eterno bisogno dell'uomo di conoscere la realtà che lo circonda, o che è in lui. Penso dunque alla poesia come a un potente mezzo di esplorazione della realtà e dì rappresentazione del mondo; e non trovo giusto che sia ridotta alla funzione di esprimere banalità sentimentali o incomprensibili funambulismi verbali. Ma quest'idea di poesia cozza contro un triste retaggio dell'ermetismo che contamina anche quelli che più rifuggono dai funambolismi estremi. E' comunissima infatti l'opinione che identifica la poesia appunto con l'oscurità ermetica; e tutti, tranne quelli che praticano il lirismo intimista ed usano la poesia solo come sfogo di private emozioni, pensano quanto meno che un po' di oscurità non guasti; anzi, è purtroppo opinione veramente generale che la troppa chiarezza dei contenuti – conseguita da un linguaggio grammaticalmente corretto e da una ponderata ed esatta scelta dei termini sia una caratteristica esclusiva della prosa. Dio sa quante volte si deve non solo sentire, in discussioni da caffè, ma anche leggere, in recensioni di critici avveduti, che il tale o talaltro stile di scrittura poetica è sì, bello e toccante, ma alquanto prosastico, oppure discorsivo. che è esattamente lo stesso. Sembrerebbe insomma che il cosiddetto canto si possa ottenere in poesia solo con l'invenzione di arditi accostamenti di parole e di metafore astratte o surreali, con l'uso cioè di un linguaggio oscuro e lontano dalla concretezza del linguaggio quotidiano; nessuno s'accorge che ciò equivale a dire che la poesia d'un Dante o d'un Leopardi non è vera poesia perché vi si usa un linguaggio troppo limpido e piano, quindi razionale, discorsivo, prosastico. dato che fa uso della grammatica e della famigerata proprietà di linguaggio. Chiariamo allora una volta per tutte che la comprensibilità dei contenuti non è privilegio del linguaggio logico e discorsivo proprio della prosa, ma una condizione di tutti i linguaggi della comunicazione e si può ottenere anche col linguaggio figurato, metaforico, non-logico, proprio della poesia. Mi sia consentito anche di dissentire da un'altra opinione troppo corrente, anzi ormai incancrenita, che la poesia sia espressione del sentimento. Badate bene, perché non vorrei essere frainteso né considerato sacrilego: nessuno può, né vuole, evitare di suscitare sentimenti, dato che ogni immagine si trascina dietro inevitabilmente una qualche emozione o sentimento; tuttavia ritengo che in realtà le emozioni siano un prodotto secondario, anche se inevitabile; e che comunque non siano assolutamente il fine ultimo della poesia. Questo dovrebbe essere invece la trasmissione di conoscenza. dato che la poesia, come tutte le attività dello spirito, consente la contemplazione oggettiva, cioè la consapevolezza, cioè l'intelligenza razionale di un'esperienza che pure senza dubbio ci ha emozionati a livello istintuale. La poesia dunque non può essere uguagliata all'emozione stessa; e neppure alla sua "espressione", termine generico di cui in questo caso non si comprende nemmeno il significato. Ne consegue, per esclusione, che la poesia non può essere altro che un vero e proprio atto di riflessione su quella determinata esperienza, anche quando essa si serve di un linguaggio figurativo non-logico. Quindi, invece di degradarla a un mero titillamento di emozioni, facciamo che lo scopo della poesia sia quello che ha sempre avuto in passato, di tradurre a livello cosciente ciò che tutti più o meno oscuramente percepiscono, ma che non tutti sono abituati a formulare oggettivamente, salvo poi esclamare, dopo il suggerimento del poeta: toh! è vero, non ci avevo pensato! Se qualcuno tuttavia nonostante tutto è proprio convinto di leggere poesia allo scopo di provare emozioni, lasciamoglielo credere, non fa del male a nessuno: importante è soltanto che tali emozioni lo inducano anche a riflettere. Infine vorrei attirare l'attenzione su di un'altra perniciosa idea, quella cioè che alla poesia competano solo argomenti tranquillanti e per niente inquietanti. Ebbene, se la poesia è una forma fondamentale di conoscenza, l'unica forse capace di darci delle rappresentazioni soddisfacenti del mondo, bisogna decidere se del mondo vogliamo saper tutto o soltanto gli aspetti che non ci turbano. Ora, si dà il caso che tutti gli aspetti più. interessanti della realtà siano proprio quelli che più ci tormentano. Su che cosa vogliamo dunque riflettere? Esclusivamente sulle cose allegre e piacevoli, ma che in genere sono anche piuttosto ovvie e noiose? Sui soliti palpiti d'amore, la primavera, la natura serena, i voli di rondini? Ma dove sta scritto che la poesia deve esplorare soltanto le cose piacevoli? E poi ci sono anche gli innumerevoli aspetti buffi e ridicoli degli esseri viventi, le realtà biologiche che sono sempre state accettate così come sono perché ritenute ovvie e sulle quali conseguentemente mai la poesia si è soffermata; ma che ovvie non sono affatto, se le si considera con occhio non distratto. lo penso che sia meglio guardare in faccia la vita senza autocensurarsi, purché lo scopo naturalmente non sia di rotolarsi nella morbosità fine a se stessa; e se si vuole uscire dal ghetto in cui si sono autoconfinati i poeti, interessando veramente il pubblico, si devono lasciar da parte i luoghi comuni della poesia (quelli sì, sono le vere ovvietà) e affrontare invece finalmente queste benedette realtà della vita che tutti scansano, cercare di capirle, fare una nuova lettura del mondo, indurre insomma alla riflessione ogni essere umano in grado di leggere. La vera crisi della poesia non riguarda gli stili e le forme, ma solo i contenuti; rinnoviamo i contenuti e rinnoveremo la poesia. Per concludere, consentitemi di ribadire che se la poesia rinuncia a insegnare qualcosa, o ad arricchire comunque la nostra consapevolezza, essa rinuncia alla sua funzione più importante, conferitagli fin dall'antichità, di trasmettere agli altri una concezione della vita, una saggezza, una coscienza morale che possano costituire per tutti ancora oggi dei punti di riferimento. |
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