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Poesia e sentimento

Nel n. 1 del 1998 di questa Rivista ho tentato di spiegare la natura del piacere estetico, collegandola alla contemplazione di un oggetto esterno (una poesia come anche un paesaggio) che rievochi l'ordine interiore di cui siamo sostanziati, il quale è innato fin dagli albori della vita perché è l'ordine stesso delle molecole con cui fu costituita la materia vivente. Per conseguenza l'ordine è l'unica categoria kantiana a priori con la quale affrontiamo il mondo che ci circonda creandolo "a nostra immagine e somiglianza". Il piacere estetico sarebbe dunque la soddisfazione di veder realizzato nell’opera artistica quest'ordine originario che permea il nostro organismo e la nostra mente.

Oggi vorrei confutare l'obiezione che potrebbe esser volta contro questa tesi; obiezione fondata sull'opinione, nata col romanticismo e formalizzata e consolidata da più di un filosofo di successo, che la poesia sia espressione del sentimento, quasi intendendo con questo ingannevole slogan che il sentimento "contenga" la poesia e che l'opera del poeta consista nell'estrarla da esso! In realtà questo slogan è la fusione arbitraria di due termini incompatibili, dato che espressione e sentimento sono termini dal significato opposto. Ora cercherò di spiegarmi.

Sentimento è sinonimo di emozione, che è la risposta biologica dell’organismo a degli stimoli esterni ed è definita – come sa ogni studente di biologia – come una delle proprietà fondamentali della materia vivente, la cosiddetta irritabilità: il microrganismo dotato di movimento, che sfugge a chi l'ha azzannato (e nel suo piccolo anche lui forse ha avuto una grandissima "emozione"), obbedisce a questa proprietà degli esseri viventi di reagire agli stimoli provando, chi più chi meno, delle emozioni. Le emozioni dunque non sono che una forza bruta ed amorfa della vita, semplicemente la capacità di provare piacere o dolore, attrazione o repulsione, o sensazioni elementari come l'amore, la paura, la collera, che nei vertebrati, dal pesce fino all’uomo, hanno sede anatomica in zone del cervello risalenti ad epoche evolutivamente antichissime. Una cosa è certa: che le emozioni non contengono assolutamente nulla di "formato" che abbia a che fare con la conoscenza verbale come noi l'intendiamo; nulla quindi che possa servire a trasmettere informazione e a comunicare; contengono soltanto piacere o dolore, attrazione o repulsione, appartengono cioè al mondo di per sé inesprimibile dei nostri istinti. Questi infatti sono inconoscibili agli altri anche quando si tenta di esprimerli attraverso comportamenti corporei quali la collera, l'approccio amoroso, le grida inconsulte di dolore o piacere: nessuno potrà mai renderne partecipi gli altri, farli veramente "sentire fisicamente” ad altri. Possiamo infatti tentare di analizzarne uno, cercare di capirne le origini magari con l'aiuto d'uno psichiatra; ma quando si prova a descriverlo verbalmente, esso cessa di essere emozione e diventa fredda "parola".

Con il termine espressione, invece, si intende esattamente l'opposto: essa è l'atto con cui si dà forma verbale, quindi razionale, ad un pensiero ancora informe perché non ancora elaborato dalla mente e che giace nei sotterranei della memoria come un materiale pronto ad essere prelevato e organizzato. Certo, ci si può illudere di aver fatto uscire alla luce questo materiale emozionale avendogli dato forma verbale, quindi dopo averlo spezzato in mille parti, analizzato e descritto, ma è evidente che non è più l'emozione originaria, perché questa non può uscire dal soggetto che l'ha provata; è diventata un'altra cosa, un oggetto, una serie di parole, un pensiero che non conserva più nulla dell'emozione originaria. Tutti sanno infatti che la forma verbale, cioè la parola organizzata, è il frutto di un atto razionale; il quale ha anch'esso una sede anatomica, precisamente nella zona del cervello evolutivamente più recente di certi primati e degli esseri umani che è la corteccia cerebrale, cioè il luogo del pensiero cosciente e della ragione. L'espressione è dunque ciò che ha fatto diventare l’emozione una "cosa" reale e concreta, un oggetto caratterizzato da una “forma" e che, per essere stato emesso dalla mente, ora sta fuori di noi e può passare da una coscienza all'altra tramite la veicolazione di parole e concetti universali noti a tutti perché elaborati dalla ragione per mezzo di quell'unica categoria a priori di ordine che permea e sostanzia la mente di tutti. Collegare dunque due elementi così diversi e incompatibili, come sentimento ed espressione, è un po' come voler compiere operazioni aritmetiche su patate e cavalli.

Tutto ciò non è una questione di lana caprina, o una pura esercitazione filosofica, perché, generalizzandosi, l'infelice locuzione espressione del sentimento ha abituato la gente a credere che il sentimento sia più importante dell'espressione, quindi a privilegiare il sentimento invece del pensiero, le emozioni invece dei contenuti, e a prendere in considerazione ad esempio solo la poesia che muove alle lacrime, come se la funzione di questa fosse solo di titillare gli istinti per sprigionare emozioni. In base a questo preconcetto, è stata buttata a mare come non-poesia una gran fetta della buona poesia di tutti i tempi, fra cui, da qualche grand'uomo della filosofia, molta di quella di Dante. Ciò non sarebbe accaduto se si fosse continuato a considerare la poesia per quello che è sempre stata fin dai tempi più antichi, vale a dire nient'altro che un mezzo di comunicazione e di convincimento, la cui funzione è soddisfatta semplicemente quando l'espressione verbale raggiunge il massimo di efficacia nel rappresentare, nel convincere e nell’avvincere. Sarebbe dunque più naturale, e consono a una tradizione più che millenaria, chiamare poesia quella che offre delle nuove rappresentazioni del mondo (siano esse verosimili o totalmente fantastiche) anziché quella che, rimasticando solo vieti argomenti sentimentali, non è capace di trasmettere un messaggio originale degno di interesse.

A questo punto va detto chiaramente che qui non si vogliono né incriminare né eliminare i sentimenti: essi ci sono, e come! Si vuole semplicemente affermare che essi non vanno privilegiati come lo scopo vero della poesia. E' chiaro che qualunque cosa si faccia o si dica non può non provocare un'emozione, per quanto piccola; perfino il pensiero astratto e i concetti filosofici, se sono formulati in modo chiaro e convincente, hanno una valenza emotiva; tuttavia, essa non è lo scopo principale dello scrivere. Chi scrive poesia, o qualunque altra cosa, lo fa solo perché ha, o crede di avere, qualcosa di originale da comunicare agli altri, dei concetti, delle storie, delle riflessioni; e la grandezza della sua poesia si misura non dalla quantità di sentimenti che suscita, ma dalla qualità, originalità e importanza del messaggio trasmesso e soprattutto dall'efficacia delle sue parole nel convincere. Così è sempre stato fin dai tempi più antichi e questa è la vera ragione perché la poesia di un Dante o d'un Leopardi è considerata immortale, fatta eccezione per certi argomenti che oggi sono caduti d'interesse.

Per spiegarci meglio, prendiamo come esempio il celeberrimo canto di Dante su Paolo e Francesca, sopra il quale mezzo mondo di studenti e non studenti si è commosso. Perché si è commosso? <Facilissima domanda> direte voi, <perché ha scatenato sentimenti primari ed universali>. Non è esatto, dico io; quel canto è immortale perché, per la prima volta nella storia letteraria della lingua italiana, pur portando alla ribalta un fatto noto di cui tutti a quel tempo parlavano o sparlavano, ha reso in forma verbale (cioè razionale) pensieri che tutti gli esseri umani sulla faccia della terra oscuramente percepiscono e intuiscono, ma solo Dante ha formulato e cristallizzato in una forma sintetica nuova così efficace da essere folgorante e superare ogni barriera di tempi e di costumi. Ciò scatena naturalmente anche le nostre emozioni, dato che nessuno può restare indifferente davanti a quell'episodio; ma, certo, chi torna a leggere più volte quel brano dantesco non lo fa per commuoversi ogni volta di nuovo (anche perché ad ogni lettura successiva l'impatto emozionale si attenua fino quasi a scomparire, per una ben nota legge biologica), bensì lo fa per il puro godimento estetico della forma verbale unica e lapidaria in cui Dante ha coniato tutto l'episodio. La prova di ciò sta nel fatto che dopo l'unicità della formulazione dantesca, più nessuno ha potuto, né potrebbe, affrontare la descrizione di quell'episodio se non prendendolo da un punto di vista totalmente diverso, dandocene ad esempio una nuova versione e inviandoci comunque un nuovo messaggio. Se lo scopo della poesia fosse di "esprimere sentimenti", basterebbe ripetere l'episodio cantato da Dante cambiando un po' le parole; poiché infinite sono le parole atte a far sgorgare emozioni, il risultato nell'economia dei sentimenti dovrebbe essere lo stesso; invece tutti sanno che farebbe solo ridere, come una maldestra e mai altrettanto efficace imitazione di un pezzo unico; poiché è solo quell'unicità, e non un'altra versione, che persuade e convince.

Il vero scopo della poesia dunque sembra essere quello di racchiudere i pensieri più o meno inconsci in una forma sintetica unica e folgorante che appaia chiara e persuasiva davanti alla nostra coscienza e ci faccia esclamare: "toh, è vero, è proprio così!" La poesia sarebbe quindi una vera e propria forma di conoscenza, e potrebbe essere un ben più nobile mezzo di arricchimento spirituale, se non la si cercasse solo per scovarvi sentimenti più o meno banali. La poesia insomma potrebbe essere, come un tempo, punto di riferimento etico, conoscitivo ed esistenziale per gli uomini di buona volontà.

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