|
Se oggi quasi nessuno compra libri di poesia (e forse neanche li legge se glieli regalano) ma solo di narrativa, le cause a me non sembrano per nulla misteriose: i libri di poesia sono decifrabili solo dagli addetti ai lavori o da altri poeti; e inoltre i loro contenuti (se ne hanno: nota del malizioso redattore) non sono interessanti come quelli della narrativa, quindi è naturale che la gente comune non può essere invogliata a leggerli. Ma è anche chiaro che nella poesia c’è qualcosa che non funziona, e anche da parecchio tempo. E’ logico dunque pensare che il male stia nel modo in cui oggi viene concepita. Evidentemente quella concezione della poesia, che a suo tempo sembrava aver portato col simbolismo una ventata di nuovo, adesso è esaurita; il simbolismo infatti ha dato inizio a una diabolica fase in cui la poesia era già condannata dai suoi stessi presupposti ideologici a diventare un prodotto esoterico destinato esclusivamente ad altri poeti, a vivere cioè in catacombe dove il poeta-scrittore si poteva rivolgere solo a un altro poeta-lettore: il classico serpente che si morde la coda. Inoltre (voglio proprio affondare il coltello nella piaga) la sua scarsa comprensibilità ha indotto le folle a credere che fare poesia fosse facilissimo: tutti infatti sono capaci di mettere insieme delle frasi oscure e senza senso. La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è una folla di nipotini del simbolismo che scorrazzano degeneri, ma fiduciosi d’esser veri poeti, fra lirismo intimista, ermetismo e sperimentalismo d’avanguardia, tutti uniti nella stessa colpa d’aver prodotto la dolorosa frattura con la gente normale, autoconfinandosi in un ghetto, ed essersi paludati di un perverso e arrogante atteggiamento elitaristico. Ebbene, chi può ancora meravigliarsi che la poesia non riesca ad interessare il grande pubblico, se essa si ostina ad offrirgli l’aria fritta, anziché affrontare i brucianti problemi esistenziali dell'uomo di oggi? Sembra anzi che vi sia un tacito accordo fra i poeti per evitare accuratamente tutti i problemi; e lascio indagare i sociologi, se ciò accade per una sorta di malinteso pudore, o timore di fare della retorica, o perché si stima che siano troppo importanti per le proprie forze, o semplicemente perché si preferisce stare alla larga dagli argomenti inquietanti. Ma nessuno sa perché si riservi questa attenzione più o meno reverenziale solo alla poesia, mentre ai prosatori è concesso di non avere alcun confine né alcun pelo sulla lingua. Fatto sta che oggi i poeti preferiscono ispirarsi alle effimere emozioni private come se fossero le cose più interessanti del mondo da raccontare, oppure occuparsi di vuote forme incomprensibili piuttosto che dei contenuti. Ambedue hanno insomma rinunciato alla comunicazione, naufragando in un nuovo genere di accademia. Ma diciamola finalmente questa verità: a che serve una poesia incapace di costringerci volenti o nolenti, anche a costo di sconvolgerci, a riflettere sul mondo e sulla nostra condizione, una poesia che non accresca la consapevolezza della nostra vita, una poesia insomma che dopo la lettura ci lascia uguali come prima? Che essa non serve assolutamente a nulla, permettetemi di affermarlo in barba a tutti quelli che proclamano la bellezza della poesia fine a se stessa e della poesia inutile, la cosiddetta “arte per l'arte”. Come può interessare la gente, oggi sempre più tormentata da problemi esistenziali e metafisici? Io invece vorrei rivendicare proprio la bellezza della poesia utile, quella che aiuta a capire il mondo, perché penso che anche la poesia, non diversamente dalla scienza e da ogni altra attività dello spirito, ubbidisca, seppure con un linguaggio diverso, all'innato ed eterno bisogno dell'uomo di conoscere la realtà che lo circonda. Penso dunque alla poesia come a un potente mezzo di esplorazione della realtà e di rappresentazione del mondo; e non trovo giusto che sia ridotta alla funzione di esprimere banalità sentimentali o incomprensibili funambolismi verbali. Ma questa semplice idea di poesia si trova ancora a lottare contro il triste retaggio dell’ermetismo, che contamina anche quelli che pur rifuggono dai funambolismi estremi. Si è generalizzata infatti l'opinione che identifica la poesia con l’oscurità ermetica; e tutti, tranne quelli che usano la poesia solo come sfogo di private emozioni, pensano quanto meno che un po’ di oscurità non guasti, e che la chiarezza dei contenuti sia una caratteristica esclusiva della prosa. Dio sa quante volte si deve non solo sentire in discussioni da caffè, ma anche leggere in recensioni di critici avveduti, che il tale o tal’altro testo poetico è, sì, bello e toccante, ma alquanto prosastico, oppure discorsivo, che è esattamente lo stesso. Sembrerebbe insomma che il cosiddetto canto degli antichi oggi si possa ottenere solo con l’invenzione di oscuri e spericolati accostamenti di parole, con l’uso insomma di un linguaggio incomprensibile il più lontano possibile dalla semplicità del linguaggio quotidiano; nessuno s’accorge che ciò equivale ad affermare che la poesia d’un Dante o d'un Leopardi non è vera poesia perché vi si usa un linguaggio troppo limpido e piano, quindi razionale, discorsivo, prosastico, dato che fa uso della grammatica e della famigerata proprietà di linguaggio. Chiariamo allora, una volta per tutte, che la comprensibilità dei contenuti non è una caratteristica del linguaggio della prosa, ma una “condicio sine qua non” di tutti i linguaggi della terra in quanto veicoli della comunicazione; alle cui eterne leggi sottostà anche la poesia pur col suo particolare linguaggio figurato, metaforico, e non-logico. Mi sia consentito anche di dissentire da un’altra idea perniciosa molto corrente, anzi ormai incancrenita, che la poesia sia espressione del sentimento. Badate che non voglio essere frainteso o considerato sacrilego: con la mia poesia non posso certo, né voglio, evitare di suscitare sentimenti, dato che ogni immagine, anche la più semplice, si trascina dietro inevitabilmente una qualche emozione. Voglio solo osservare che in realtà le emozioni sono un prodotto secondario, un “effetto collaterale” anche se inevitabile (ma chi le vuole evitare?) poiché anche la poesia, come tutte le attività dello spirito, è la contemplazione oggettiva, la comprensione razionale e consapevole di un’esperienza che pure senza dubbio ci ha emozionati a livello istintuale, ma il suo vero scopo è la trasmissione di conoscenza. Essa dunque non può essere l’emozione stessa; e neppure la sua “espressione”, termine generico inventato dal Croce e di cui non si capisce nemmeno il legame filosofico col sentimento. Ne consegue per esclusione che la poesia non è altro che un vero e proprio atto di riflessione razionale su quella determinata esperienza che ci ha emozionati, atto che naturalmente non può evitare di procurare agli altri l’emozione che procura ogni immagine o parola. Quindi, invece di degradarla a un mero titillamento di emozioni, facciamo che lo scopo della poesia sia quello che ha sempre avuto in passato, di tradurre cioè a livello cosciente ciò che tutti più o meno oscuramente percepiscono, ma che non tutti sono abituati a formulare oggettivamente; salvo poi esclamare, dopo il suggerimento del poeta: “toh! è vero, non ci avevo pensato!” Se qualcuno tuttavia nonostante tutto è proprio convinto di cercare nella poesia emozioni, lasciamoglielo credere, non fa del male a nessuno: importante è soltanto che tali emozioni lo inducano anche a riflettere. Ora forse si comprende perché quest’idea della poesia come espressione del sentimento è stata perniciosa: essa ha autorizzato una folla di poeti a dar sfogo ai loro amori e dolori personali riempiendo il mondo di trite e ritrite lamentose banalità, credendo con questo di far poesia. Infine vorrei attirare l’attenzione su di un’altra perniciosa idea, quella cioè che alla poesia competano solo argomenti tranquillizzanti e per niente inquietanti. Ebbene, se la poesia è una forma fondamentale di conoscenza, l’unica forse capace di darci delle rappresentazioni soddisfacenti del mondo, bisogna decidere se del mondo vogliamo saper tutto o soltanto gli aspetti che non ci turbano. Ora, si dà il caso che tutti gli aspetti della realtà che più ci stanno a cuore siano proprio quelli che più ci tormentano. Su che cosa vogliamo dunque riflettere? Esclusivamente sulle cose allegre e piacevoli, ma che in genere sono anche piuttosto ovvie e noiose? Sui soliti palpiti d’amore, la primavera, la natura serena, i voli di rondini? Ma dove sta scritto che la poesia deve esplorare soltanto le cose piacevoli? E poi ci sono anche gli innumerevoli aspetti buffi e ridicoli degli esseri viventi, le realtà biologiche più basse che sono sempre state accettate così come sono perché ritenute ovvie e sulle quali conseguentemente mai la poesia si è soffermata; ma che ovvie non sono affatto, se le si considera con occhio non distratto. Io penso che sia meglio guardare in faccia la vita senza autocensurarsi, purché lo scopo naturalmente non sia di rotolarsi nella morbosità fine a sé stessa; e se si vuole uscire dal ghetto in cui si sono autoconfinati i poeti, e interessare veramente il pubblico, si devono lasciar da parte i luoghi comuni della poesia (quelli sì, sono le vere ovvietà) e affrontare invece finalmente queste benedette realtà della vita che tutti scansano, cercare di capirle, fare una nuova lettura del mondo, indurre insomma alla riflessione ogni essere umano in grado di leggere. La vera crisi della poesia non riguarda gli stili e le forme, ma solo i contenuti; rinnoviamo i contenuti e rinnoveremo la poesia. Per concludere, consentitemi di ribadire che se la poesia rinuncia a insegnare qualcosa, o ad arricchire comunque la nostra coscienza, essa rinuncia alla sua funzione più importante, conferitagli fin dall'antichità, di trasmettere agli altri una visione della vita, una saggezza, una morale, che possano costituire per tutti ancora oggi dei punti di riferimento. |
|
|