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Sui poeti sdegnosi della metrica

Fra la maggioranza dei poeti di oggi (si fa per dire: ormai è realtà che data da decenni) circola un curioso atteggiamento di ripulsa per il bel verso tornito e ritmato. Sembra quasi che credano che per essere "moderni" sia assolutamente necessario ignorare l'armonia del fraseggio (e spesso della grammatica), dimostrando così di non essersi mai accorti che anche la prosa, quando è bella, segue ritmi e cadenze regolari e che in generale l'efficacia dell'eloquio umano dipende dalla posizione degli accenti nella frase, cioè dalla cadenza ritmica.

La semplice spiegazione di ciò risiede nella fisiologia della mente, la quale è capace di riconoscere ed elaborare un'informazione soltanto se questa le viene presentata nel modo ordinato di un linguaggio. Molti scrittori distratti sembrano non tener conto del fatto che un linguaggio non è altro che un codice, cioè una serie di regole atte a pre-ordinare i materiali di un'informazione in modo da permetterne l'acquisizione. Ebbene, oltre alle regole insostituibili della grammatica, senza le quali non si attua alcuna trasmissione di pensiero (salvo accontentarsi di emettere suoni inarticolati) esistono regole minori capaci tuttavia di facilitare la trasmissione d'un pensiero; e questo è appunto il regno dell'arte. Voglio dire che se l'uso della grammatica rende tout court intelligibile bene o male un determinato pensiero, è solo la successione degli accenti e delle pause che mette in evidenza i punti cruciali di una frase e ne facilita drasticamente la comprensione; l'ottimizzazione di questa successione produce appunto la tipica soddisfazione che si prova leggendo la frase bella e armoniosa. Mettete in mano ad un bravo attore un testo qualsiasi di un cattivo scrittore che state stentatamente leggendo, anzi cercando di capire, e toccherete con mano se è più efficace la vostra lettura o quella dell'attore. Che operazione ha compiuto l'attore? Mediante un sistema coordinato di accenti, pause, sospensioni, ha "preparato" il testo in modo da evidenziare le parti prioritarie e farci cogliere più facilmente l'ossatura, cioè la struttura sintattica del discorso con tutte le sue sfumature. Questo sistema di accenti, pause e sospensioni costituisce appunto il ritmo di un testo, ciò che si suole chiamare anche espressione. L'operazione che ha dovuto fare il bravo attore per migliorarne la comprensione è esattamente quella che avrebbe dovuto compiere il cattivo scrittore sul proprio testo distribuendo appropriatamente gli accenti, le pause e, nel caso della poesia, le sospensioni di fineverso, applicando cioè i codici dell'espressione. Il ritmo dunque e la metrica (che è appunto la codificazione delle leggi del ritmo) non sono orpelli gratuiti d'altri tempi inventati per seviziare lo scrittore, ma fanno parte integrante del linguaggio come veicolo d'informazione, al pari della grammatica e della sintassi. Sia l'attore che declama dal palco, come il lettore che declama dentro di sé (anche quando leggiamo in silenzio, declamiamo!) non fanno che decodificare, oltre ai codici grammaticali, quelli dell'espressione, in modo da ricavarne e farne ricavare la più pronta ed efficace comprensione del testo e quindi la massima soddisfazione.

Quando dunque mi càpita di leggere uno di questi poeti sdegnosi del ritmo (quando non addirittura della grammatica), provo una sofferenza inaudita; che diventa commiserazione quando per caso chiedo loro di leggere "con sentimento" il loro testo; si assiste infatti a qualcosa di incredibile: essi leggono bene! Con ritmo ed espressione! Fanno cioè l'operazione che farebbe il bravo attore sul testo del cattivo scrittore: mentre leggono il proprio cattivo testo, introducono a voce, improvvisando, gli accenti, le pause, le sospensioni di fineverso che avrebbero dovuto introdurre molto prima, quando l'hanno scritto, applicando subito e coscienziosamente i codici del ritmo e dell'espressione imparati a scuola. Perché non l'abbiano fatto prima resta per me un mistero. Possibile che dalla lettura dei classici non abbiano imparato ad apprezzarne l'armonia e la musicalità? Possibile che non si siano affinati l'orecchio?

Ma la sofferenza e la meraviglia davanti a questo mistero si tramuta in rabbia quando leggo alcuni poeti sdegnosi del ritmo, che tuttavia per altri aspetti della loro poesia sono fra i pochi che grandemente stimo ed apprezzo. Ho anche la consapevolezza che con questa dichiarazione sto violando un tabù: sono convinto infatti che nessuno ha mai osato far loro la critica d'essere sdegnosi del ritmo e della metrica; sono convinto anzi che il loro "onore" sia accuratamente protetto... dall'omertà; talvolta mi viene perfino il sospetto che essi, in buona fede, credano di fare dei versi molto ben ritmati e armoniosi: il loro impegno è troppo serio perché rinuncino a una fetta così sostanziosa di espressione. E allora? perché spezzare la frase proprio in quel punto anziché in un altro, se il capoverso non serve a evidenziare nessun particolare sintagma né alcun movimento sintattico? Anche la possibile, se pur peregrina, idea di trasmettere con tagli sgradevoli e mancanza di ritmo qualche, anche se oscuro, significato, è illusoria; la cacofonia e la sgradevolezza non trasmettono al lettore nessun messaggio poetico. Non sarebbe allora più onesto adottare francamente la cosiddetta prosa poetica?

Per concludere, spero d'aver convinto qualche ignaro poeta "modernista", e forse qualche ermetico recalcitrante, che l'osservanza del ritmo e della metrica migliora la leggibilità, la comprensione e l'efficacia espressiva del testo. Può darsi tuttavia che qualcuno non si senta capace di compiere questa specie di make up sui propri testi, vuoi per mancanza d'orecchio, vuoi per sue altre innominabili ragioni; a lui direi comunque di consolarsi, poiché nell'opinione dei molti fa lo stesso; sono convinto anzi che buscherà più facilmente qualche premio letterario, dato che sono pochi quelli che stanno nelle giurie e che badano al ritmo. E poi, perfino Mario Luzi è molto spesso "sdegnoso della metrica". Ai suoi tempi faceva tanto "moderno"; ma oggi?

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