Servizi
Contatti

Eventi



Cancellazioni

romanzo
© Enzo Schiavi

Prefazione

Flavia Lepre

Un originale romanzo simile ad un affascinante viaggio fitto di sorprese e decisamente intrigante fino all’ultima frontiera del pensiero, là, dove pochi osano penetrare. Una lettura lunga, laboriosa, per via dei tanti personaggi, ognuno con una interessante personalità e con un suo bisogno di esprimerla questa personalità e lo fa instaurando un colloquio con se stesso, mentre apparentemente, sembra che il discorso si svolga fra due persone. E la cosa più geniale e sorprendente, è il fatto che si tratta di un romanzo alquanto strano, perché i personaggi che in esso agiscono, dopo aver vissuto sulla ribalta parti salienti della loro vita che pare viaggi su binari comuni, ad ogni nuovo capitolo a poco a poco scompaiono e nei capitoli successivi, si ritrovano altri nomi, personaggi diversi, che vivono situazioni diverse. La faccenda mi è stata chiara quando l’ultima pagina letta, l’ho messa a riposare sulle altre, rendendomi così conto che, davanti a me, stava a guardarmi una pila di fogli che, per ore e ore, avevano tenuto vivo e attento il mio interesse con una lettura infinitamente penetrante. E ancora adesso, dopo aver portato a termine questa lunga lettura, l’eco della voce di ogni singolo personaggio mi risuona nelle orecchie. Di tanto in tanto, un po’ confusamente, perché le persone che in questo romanzo parlano, sono diverse ed ognuno di loro dimostra di voler spiegare il suo punto di vista per quanto gli accade mentre vive uno “stralcio” di un’unica storia che però non segue i canoni di una storia compatta dal principio alla fine. In Cancellazioni, l’autore si è sbizzarrito, creando un romanzo assolutamente originale, sorprendente e diverso da ogni normale aspettativa. E confesso che è sbalorditivo il come egli abbia saputo tenere bene un filo conduttore alquanto difficile, anche se, via via, come si può notare, le pagine scorrono senza intoppi, sotto gli occhi di chi legge, anche se non si ritrovano più i personaggi che avevano dato l’avvio al romanzo. E se si va un po’ più a fondo, si scopre che però è facile trovare la vera personalità dell’estroso autore, sempre presente, specialmente in due particolari personaggi che hanno con lui diverse affinità, come quelle di essere giornalista ed anche poeta, con una interiorità molto complessa, dove le immancabili urla dell’esistenza umana, risuonano ad ogni piè sospinto…

Confesso che, pur avendo alle spalle una lunghissima esperienza della mia professione di “critico”, questa volta ho dovuto ragionare parecchio per superare alcune difficoltà e ho spesso riletto più volte alcune pagine, per riunire in forma più solida e più coerente, la gran quantità di parole che andavo via via classificando nella mia mente. E in certi momenti, ho avuto l’impressione che le parole che leggevo con un significato, in realtà ne avessero un altro ed era come se esse, giocando a “nascondino” volessero prendersi gioco di me, mettendomi in difficoltà, anche se io ero così concentrata da essere certa di non farmi “scappare” nemmeno una virgola. Ma la “burla” si è ripetuta più volte, soprattutto ad ogni cambio di situazioni e di personaggi che avvenivano nelle pagine. Per alcuni attimi, mi sono trovata come “spaesata”, fuori dal mio ferreo controllo… Poi, la mia lunga esperienza di “critico”, ha eliminato le apparenti difficoltà e sono andata avanti speditamente nella lettura di Cancellazioni, un romanzo che presto sarà dato alle stampe e quindi pubblicato.

E rileggendo più volte questo titolo, dopo qualche normale e comprensibile scombussolamento, mi è stata perfettamente chiara l’idea dell’autore Enzo Schiavi di voler scrivere questo libro che gli ha dato la possibilità di parlare molto di sé, pur senza mai esprimere idee e pensieri e intime concezioni di vita in prima persona. Lui, l’autore, lo ritroviamo nei panni dei due più importanti personaggi di questo libro, quelli che, in una specie di “soliloquio”, parlano a lungo della vita e dei problemi che sono dentro la vita. Sono due personaggi speciali, perché giornalisti e, contemporaneamente, ottimi poeti, profondi conoscitori dell’esistenza umana. Confesso che c’è stato qualche momento che ho temuto di essere stata messa K.O., fuori combattimento, perché l’autore Schiavi ha mescolato le carte in modo tale da dirottare le mie constatazioni verso altri binari, costringendomi poi a fermarmi, ad interrompere la mia attenzione sul normale svolgimento del romanzo…

Perché erano le varie interruzioni che personaggi di “contorno” e non di primo piano effettuavano, così pure i loro interventi discorsivi, che tentavano di distrarmi, di farmi cambiare idea e fissarla sul singolo ragionamento di quanti, in quel momento, nella mia lettura, stavano in primo piano, costringendomi a dar loro la priorità e concedendo la parola.   A questo punto, si potrebbe dire che questo è un romanzo con una trama “volutamente” tortuosa, dove ognuno svolge, autonomamente, la sua parte nel capitolo o nei capitoli dove li ha chiusi l’autore. Perché in effetti, man mano che si avanza e ci si addentra nel cuore del romanzo, come per magia, i personaggi scompaiono dalla scena. Ed è così che avviene una strana “cancellazione” delle loro esistenze, anche se – e questa è la nota più importante dell’intero complesso romanzesco – restano integralmente inseriti e sempre in primo piano, i particolari colloqui, molto profondi e superlativamente legati alle esigenze sceniche del momento, che esigono una partecipazione attiva di tutti i diversi attori presenti sul palcoscenico del racconto, proprio per poter esternare le proprie idee su quella che è la vita che loro stanno vivendo. Ognuno di essi ha in serbo un suo discorso, lodevolissimo e particolarmente interessante. E la cosa veramente sorprendente, è che tutti hanno intenzioni e posizioni diverse per commentare gli avvenimenti che costellano le loro parole, perché anche se espresse in forme diverse, hanno sempre un fondo di negatività, proprio perché questa vita, non è fatta solo di gioie e di benessere, ma è, soprattutto, un ricettacolo di tristi avvenimenti, di guerre, di miserie, di tragici accadimenti, di emozioni, di parole, di pensieri, di lamentele, di ingiustizie, di accuse e di cattiverie varie, che seppure espresse con toni diversificati, nel contesto di questo strano vivere la vita, gli esseri umani ritrovano un’infinità di punti di contatto. E l’autore Enzo Schiavi, è bravissimo a spiegare, a raccontare le varie idee dei suoi un po’ strampalati personaggi, forse perché ad ognuno di essi, egli presta sempre buona parte di sé, della sua complessa vicenda esistenziale, dell’urlante rotolìo dei suoi più intimi sconvolgimenti di anima… Proprio perché l’autore non è un “robot”, ma un essere umano e, come noi tutti, è impastato di enigmi e di assurdità ignote a se stesso…

Ed è per questo che con foga, quasi rabbiosamente, egli chiede e si chiede: “Usare la penna, può essere una soluzione?”. La domanda è riferita, naturalmente, al corso balordo di questa nostra misteriosa vita, sempre colma di ombre e di apparenti silenzi… Ma i lunghi silenzi, si frantumano nelle oscurità più fitte ed è per questo che poi, dagli abissi più profondi, salgono in superficie le urla più raccapriccianti, più dolorose, più difficili da accettare e spesso impossibili da far tacere…

Personalmente, essendo un essere eccessivamente sensibile, sempre pronto a soffrire per qualsiasi cosa, amalgamato con la catena dei pensieri e delle parole, comprendo benissimo il dubbio racchiuso nella domanda dello scrittore… Malgrado questo però, sinceramente, non credo di poter dare nessuna valida risposta, perché anch’io non faccio altro che pormi domande assolutamente impossibili, alle quali è ancora più impossibile rispondere, perché sempre brancolo nel buio…

Forse – ma è solo un mio convincimento – sono le persone molto semplici, quelle che vivono senza porsi troppi problemi, che possono essere considerate le meno oppresse dall’acuta infelicità che avvelena – invece – la nostra esistenza con un’infinità di oscuramenti spirituali, di intense paure segrete e non visibili…

Perché chi scrive, è un condannato che si stanca della normalità e quindi è destinato a sopportare il peso delle sue scelte complicate, che spesso gli marchiano col fuoco l’intera vita…

E la vita, non gli concede nessuna tregua e, men che meno, nessuna “cancellazione”.

Deve egli sottostare alle leggi del Cielo e, per liberarsi dalle catene che lo tengono prigioniero, aspettare che il destino, dopo aver fatto l’iter stabilito, sia lui a provvedere alla “cancellazione definitiva”, restituendo alla sofferenza umana il “requiem” della eterna pace!

* * *

Parte prima

Capitolo I

Era come nella vetrina delle luci verdi che si alternavano alle ombre viola e quando venivano le ombre i pupazzi tutti insieme, stipati l’uno sull’altro ai piedi della vetrina, dicevano “ohhh” con la loro voce metallica nella pancia. Sulle scale mobili, nel moto alternato del salire e dello scendere, senza conquiste ma con il pugno d’aria sullo stomaco nell’atto di ascoltare ronzii di indifferenza e di buone maniere. Non c’era nulla da ridere, con i pupazzi accatastati senza occhi e senza bocche eppure con il lungo ohhh nella pancia. Un pugno d’aria che ricordava le gentilezze delle grandi dame a sorridere di qua e di là ai conquistatori alleati coi narragansett per affondare gli ultimi miseri pequot.

Per i rights, già, per i rights! Violenze e gentilezze per i rights, pugni d’aria nella pancia a dire, stupite e gentili, ohhh. C’era l’effige da conquistare, il ritratto a cavallo, gli stivaloni lucidati dai lustrascarpe negri, e tutte le ricchezze ammonticchiate e fatte ceneri per il gentile ohhh delle dame.

Cosa credevate: che le nostre ricchezze le distribuissimo a voi? Mentecatti! A voi le ceneri, ai sorrisi gentili il nostro ardore per nuove avventure e nuove conquiste.

No, impossibile salvarsi dai pupazzi collegati automaticamente alle luci e alle ombre con il calar delle ombre a dire automaticamente ohhh senza vedere nulla. Il lungo grido meccanico dominava emozioni e desideri. Così era la grande avventura che regnava sul mondo.

Charlotte non aveva pace ed era confusa, i suoi pensieri erano turbini di follia, e lei stava davanti alla bara con lo stemma di famiglia. “Con lo stemma e gli alamari: che vigliaccata!” gridò nel vuoto. Era sola, gli altri dov’erano? Forse a passeggiare nel parco, oppure a volare tra gli alberi specchiandosi nel grande palazzo di vetro. Insomma, lei era lì sola davanti alla bara con lo stemma, ma un momento: dentro la bara c’era Betty e Betty era ancora giovane e ancora aveva i capelli color dell’oro e il nasino rivolto all’insù. Ma Betty era lì nella bara e non sognava più né sorrideva pallida alle sue lacrime sincere quando lei la guardava torcersi dentro le lenzuola piena di tremori, lacerata e convulsa.”Charlotte ti prego” le bisbigliava tenendo gli occhi bassi che scendevano fino alla bocca arsa. “Ti prego… ti prego…”. Voleva la maledetta medicina, il propossifene. Già, vede, la cellula cerebrale… Sì, guardi, guardi anche lei. Le aveva messo la lente del microscopio davanti.Guardi, ci guardi dentro. Vedrà la lesione, il disfacimento locale – quanto lo detestava quel dottore ricciuto e occhialuto e freddo come una foca –. Allora abbiamo dovuto intervenire con un oppiaceo. Sa, prima di metterci dentro i ferri! Vede, l’oppiaceo si combina perfettamente con il recettore specifico (specifico… ma quale recettore specifico!) e i segnali dolorosi trasmessi da una cellula nervosa all’altra sono bloccati. Lo vede questo serpentello che ha una freccia sopra il capo? Eccolo il propossifene che striscia contro la lesione, s’impunta e la blocca con autorità. Sì, con caparbia autorità!

Ecco fatto, la lesione cerebrale di Betty è stata bloccata con l’autorità del propossifene, l’oppiaceo della misericordia e del perdono. Ecco fatto, tutto a posto! Betty adesso può riposare in pace nella bara, a dispetto dei recettori specifici e degli analgesici salva dolore. Ma dottore, mia sorella Betty la vedo spesso vomitare e non riesco più a tenerla a bada. Chi la tiene più? E’ sempre più ansiosa, sempre più depressa, sempre più allucinata. Dottore, mia sorella sta morendo, Betty muore! Ha diarrea? No! Ha convulsioni? No! Sbadiglia spesso, starnuta anche senza avere raffreddore, è confusa… No, dottore, soltanto vomita e suda. Sua sorella non è grave, Charlotte! Betty deve continuare la nostra cura. Non ci sono problemi, ancora qualche giorno, dieci giorni al massimo, e vedrà che tutto nel cervello di sua sorella sarà ricomposto. Mi creda, la lacerazione del tessuto non è irreparabile. Vedrà! Già, vedrò!, ma intanto adesso Betty è lì nella bara… eppure un qualcosa come un gorgoglio l’ho sentito venir fuori dalle sue labbra violacee. Un piccolo gorgoglio, un ansimare inorridito, dei brevi sussulti, qualche goccia di saliva tra i denti. “Le bacche nere”, ecco, appena un sussurro, un lamento fievole, una preghiera. Ho pensato subito al sambuco velenoso del parco. Non mangiate di quelle drupe, diceva sempre il papà. Mi raccomando! Betty le aveva mangiate senz’altro volontariamente. Ne sono certa, ha voluto farla finita perché era stufa di vivere, ma non per farmacodipendenza bensì per un uomo, per un verme. Sì, lei muore per un verme d’uomo. Betty era ancora viva, ma solo nel bianco degli occhi, solo nell’attimo di respiro.

Charlotte si torse le mani e guardò il cielo appiccicoso. Un olio sporco colava dalle pareti di catrame del cielo, lei si passò la mano sulle labbra secche per quel caldo torrido che non dava tregua. Il parco aveva l’aspetto di un polmone bruciato impotente a ricevere ossigeno. Guardò il sole ed ebbe la certezza di essere ormai sola dentro le grandi ombre collose dei bagolari. La fine di tutti i suoi sogni era ormai una realtà, la morte era lì davanti a lei e non poteva essere nascosta. Ecco cos’era la morte: un sole pieno di assenza e di solitudine. Betty non sarebbe più stata al suo fianco e c’era qualcosa di ridicolo in tutto ciò. Cosa bisognava ancora fare? Chiamare forse quel tanghero di Edmund che stava trafficando insolentemente nel garage. Ma quello non sentiva la morte, ne era del tutto indifferente, adesso si sarebbe tolto il grosso fazzoletto da intorno al collo e se lo sarebbe passato sul viso sugoso come quello di un maiale. Quel senza collo, pigro e fannullone! Quel porcino marcito nel fogliame putrido! Com’è buffa la vita: la guardi negli occhi e un attimo dopo è già dimenticata. I rumori nel garage cessarono e Charlotte ghignò guardando di traverso il sole. Fine dell’eternità, mormorò davanti alla bara di Betty.

Passi nervosi si udirono nel corridoio, qualcuno avanzava furtivamente. La porta azzurra si aprì di scatto, proprio quando Charlotte guardava inorridita il viso della sorella morta, cercando di restare il più possibile nella penombra del baldacchino quasi volendo nascondere gli attimi di euforia e di follia che la stavano assalendo. La porta azzurra si aprì con violenza, sconvolgendo l’ordine dell’immenso salone quasi del tutto vuoto, pieno soltanto di bambole consunte, animali di peluche stinti, coperte lavorate all’uncinetto e tappeti di colori pallidi e slavati. Adesso troneggiava al centro un letto a baldacchino coi tortiglioni, messo lì quando Betty aveva incominciato la cura della disintossicazione. Lei lo aveva voluto a tutti i costi come fosse stata una cortigiana alla corte di un re. Per Charlotte, adesso, nulla aveva senso: né i passi nel corridoio, nervosi e stridenti che avanzavano, né la porta azzurra che si stava aprendo con violenza. Era del tutto indifferente verso chi stava entrando, era la morte la protagonista di quel palcoscenico.

Lei guardava in faccia la morte e nelle orecchie rimbombavano gli urli degli occhi vuoti di Ellis Island. Tutti i canti disperati della miseria più nera: davanti a lei c’era la follia della speranza e del furore, e lei, esperta di sociologia, conosceva tutti gli urli e tutti i canti disperati della speranza e del furore. Strinse forte con le agili dita una borchia della bara. Una morte assurda, disse piano alla morta. Non ti è servito questo palazzo rinascimentale, non ti sono servite tutte le luci della libertà. No, Betty, non ti sono serviti tutti i giorni dei ringraziamenti. Chissà se tu fossi stata uno di quei ragazzi russi con la grande elle appiccicata sulla giacca! Bene, tu non avresti sofferto così tanto e, zoppo o no, lavoratore o no degli altiforni, tu non saresti qui, in questa bara. Fece un gesto di stizza con la manina alla Michelangelo e puntò gli occhi verso la figura immobile sulla porta azzurra.

Stava pensando: – Vale qualche preghiera? Betty ne ha proprio bisogno, o è soltanto una cara, sottile utopia che lei si porterà con sé nel lungo viaggio del buio? –. Davanti a lei vide la madre con la veletta viola sugli occhi e il fazzolettino cremisi pressato sul naso. Le mani tremavano leggermente, anzi, tutto il corpo magro tremava leggermente. Rose, la sognante nuda solarizzata rivestita di lamè argento e oro e fronzoli di seta ai bordi, con strascico a coprire le scarpette di raso bianco e tacco a spillo. Charlotte ebbe per un attimo l’impressione di vedersi davanti una di quelle statuarie modelle anni venti.

“Mi ha avvertita Edmund, sono arrivata dal mare”. La voce di Rose era stridula, nervosa.

Tenne il piede destro a mezz’aria come trasognata. Adesso pensa ai suoi sogni perduti, pensò Charlotte. Eccotela che si sbriglia! Dov’è la tua libertà? I tuoi sogni sono lì davanti a te, forse è un po’ troppo tardi, forse dovrai ricominciare tutto daccapo. Charlotte quasi le sorrideva. Rose restò con la gamba all’aria per un attimo, poi restò legata al pavimento, scalpitò con i tacchi, prese la rincorsa e si chinò sulla bara adagiata sul letto, abbrancandosi prima a un tortiglione poi rivoltando la veletta sui capelli colorati di fresco e fissati come col cemento. Adesso grida come Bette Midler e fa la mossa alla Pointer Sisters. Charlotte era velenosa, evidentemente non amava la madre. Rose si inginocchiò davanti alla bara, emise oscuri gridolini, muovendo le labbra pitturate come lombrichi che hanno visto la luce per la prima volta. La veletta infine si staccò dalla testa, svolazzò come una foglia staccata dall’albero, restò ferma proprio sotto la bara. Rose la raccolse con un gesto teatrale della mano e gridò con voce stridula: “Profumi e veleni!”. Sfiorò per un attimo con le labbra la bara e restò rigida e assente senza dire altro. Soffriva terribilmente, questo Charlotte lo capiva da quel petto piatto che sussultava a scatti. Finalmente le lacrime trasformarono tutto il viso in un impiastro di rimmel e ombretto alla Fabulous Poodles. Mirror Star, pensò velenosa Charlotte. Ghigno di Lucifero!

Charlotte controllava ogni mossa della madre. Ricordati che ho sempre ragione, dice lei, e rimuginò, cercando di non perdere il controllo di sé, lei non permette a nessuno della famiglia di controbatterla. Charlotte non le sfuggì un leggero livore di rabbia fra le rughe diffuse a ventaglio sul viso. Tutto si sviluppava su una falsa scena di disperazione. Poi vide un’ invasione di pulviscoli lunari sulle labbra sdegnose della madre e riuscì appena a contenere la stizza quando Rose esplose: “Così sei morta, bambina mia!”.

Charlotte alzò il pugno e gridò: “Basta! Adesso basta! Porta almeno un po’ di rispetto per la sua morte”.

Rose restò di sasso, non disse nulla e rabbia e sdegno restarono dietro le nuvole di tempesta dei loro cuori. Nei due cuori c’erano due strade giallastre parallele che mai avrebbero potuto incontrarsi. Forse le due donne avrebbero voluto dimenticare tutto, anche se stesse, e correre nel buio di un folto bosco da dove sarebbero usciti soltanto urli di rabbia e di freddo: la morta nella bara stava per alzarsi e imporre loro un lungo silenzio con il dito pressato sulle labbra.

Charlotte guardò fuori, sull’ala sud del palazzo, e disse togliendosi una perla di sudore dalla fronte: “Vorrei sapere dov’è! Sempre così quando si ha bisogno di lui! Charlotte era fuori di sé. “L’ho sentito picchiare col martello nel garage e adesso chissà dov’è! I chiodi! I chiodi dovrebbe piantarseli in testa, quello scansafatiche!”. Guardò la sorella nella bara. “Almeno fosse andato a chiamare il prete!”.

Rose non disse nulla, non c’era da spingere oltre la tensione, il prete non serviva più e neppure il dottore. Cosa fare della vita, ormai? Inutile spiccare un volo nel buio! Rose guardò la figlia morta dentro la bara e mise una mano sul petto. Il suo viso a ragnatela di rughe assunse un’aria preoccupata, il suo mondo di sogni stava per essere assorbito, tutto, da quella bara, l’abisso della vita era stato attraversato, tutto, da un lungo salto, tutti i suoi istanti di sogni si erano esauriti. Iniziava per lei il conto alla rovescia, la sua vita era stata una meravigliosa parentesi di sogno.

Il dottore era ormai inutile, il prete era una chimera, il necroforo aveva già fatto il suo dovere: la bara era lì, davanti a lei. La bara, e che bara! Niente di meno che una bara con intagliato sopra il coperchio lo stemma di famiglia: una vergogna! Senz’altro era stata un’idea di Edmund. Sempre lui! Di lui proprio non ci si poteva fidare.

Sentì la voce senza tono di Charlotte. “Prega almeno per la sua anima”. Lei si riscosse dal suo torpore, cercò di essere viva, sorrise perfino un poco a Charlotte, ma Charlotte continuò con voce tesa: “Sempre là, sotto l’aspersorio del prete! Sempre ad annusare l’incenso, sempre con le ginocchia arrossate sopra il legno del solito banco, sempre con gli occhi umidi fissi al crocifisso, e adesso: neppure una preghiera di perdono!”. La guardò di traverso. “I tuoi sogni!” gridò. “Ti avessero almeno fatto capire qualcosa! Tu vorresti dirmi, lo so,: – Anche la morte è un sogno, anche il paradiso (che è il premio guadagnato col sangue: questo mi vorresti dire!) –. Ma io adesso, invece, ti chiedo soltanto una piccola preghiera per Betty, senza sogni, senza paradisi, senza purgatori, senza inferni… In fondo, la piccola preghiera che ti chiedo non sgualcisce nulla di te. E’ soltanto un piccolo atto di umiltà che ti farebbe bene al cuore; piangere e benedire, adesso, non hanno senso; fare tragedie e gridare ipocrisie sarebbe infangare la morte della nostra cara Betty. E’ tutto troppo tardi! Ci vuole soltanto una piccola preghiera, tutto il resto sarebbe falsità”. Guardò la madre e fece uno sforzo enorme per non scuoterla con violenza nelle spalle.

Rose restò rigida davanti alla bara, rimise la veletta sul viso e chinò il capo. Non c’era risposta da dare, il tempo era il padrone del vuoto, le anime urlavano la debolezza dei moralismi. Forse intorno a loro c’erano caos e solitudine; forse c’era, in ognuna delle due donne, la voglia che vincesse la coerenza; quel che mancava – e non sarebbe mai successo il contrario – era l’amore tra loro, perché, in loro, il disprezzo per questo sentimento vinceva perfino la loro totale nullità.

° ° °

Tu sai che nella notte sorgono fantasmi sbiancati che vengono a grattarti le piante dei piedi e tu non senti il solletico perché la tua amarezza vince tutte le sollecitazioni del tuo sistema neurovegetativo. Sorge dunque quell’attimo di gentile saluto, quell’attesa vagante, quel blues di sentimenti e di repulsione; sorge quella preghiera che insegna il dolore, e sono quei vaghi pensieri, è la brezza accennata di un sogno, il respiro del silenzio nel lieve inchino che coglie la rosa. E la morte ha occhi chiari di salvezza, tu cerca il segreto di una promessa, cogli il fruscìo incantato della luna. Ecco allora che tu gridi alla tua maschera di graffito nascosta da tremuli battiti di notti folli: – Vai per la tua strada con le pietre in tasca e lanciale lontano nelle luci dei cadaveri che allungano ombre disfatte di buio –. E’ questa la gioia? La gioia è senz’altro un’avventura, il fascino dell’avventura, il fascino del piacere, del brivido, del sogno, dell’illusione, del piangere dopo il grande ridere. La gioia è il fascino dell’amore nascosto, che crea, fantastica, seduce. E’, alla fine, il fascino del dialogo e dell’inganno.

Ma tutto resta, nulla cambia, nulla traspare nell’acqua torbida che corre verso il mare ignoto. Quale riscatto morale?

° ° °

Un colombo venne ad appollaiarsi sulla soglia della grande porta-finestra aperta che dava luce alla bara dove riposava – e avrebbe riposato per sempre – Betty, allungò il collo di qua e di là verso il centro del salone, battè le ali con brevi scatti, poi, non soddisfatto, volò via.

Vai via da tutto: nessuno ti sarà amico!

Dentro e fuori il salone l’aria era irrespirabile; ma in tutti i palazzi intorno l’aria era irrespirabile dentro i saloni e le finestre erano aperte e i ventilatori stridevano lamentosamente dando respiro alle ombre che si muovevano leggere nelle penombre dietro le finestre. Ci fu un fischio che venne dalle tenebre dei sotterranei della metropolitana e le bocche ansimarono con più vigore e nelle luci dietro le finestre ci fu polvere di deserto. Qualcuno gridò in qualche cortile interno: valeva la pena salvare il mondo con quel grido alla luna? Non sarebbe stato più conveniente far silenzio e lasciare in pace luna e gente intorno? Quello non sapeva osservare la vita standosene tranquillo in silenzio nel buio. Anche un cane legato alla catena latrò. Anche piedi artritici strascicarono sull’asfalto del viale. L’afa incantava.

Ci fu un improvviso sussulto di lamenti, echi di suoni imprevedibili si diffusero negli angoli bui, i lamenti aumentarono di tono, adesso sembrava il Cairo, alla moschea di Raud al-Farag: prima, il mormorio delle voci all’interno, poi il rovescio delle voci sul piazzale, poi ancora ombre inquiete smarrite tra tombe di califfi. Ombre impaurite dagli spiriti del Ragab, ombre assassine con le ali mozzate. Ognuno inventava a suo modo un suo mondo privato esclusivo, lo gridava alle acque sacre del Nilo, giurava a se stesso che tutto in lui era sotto controllo. Ma nessuno ci credeva ai suoi progetti, giurati e spergiurati alle acque. E neppure credevano a se stessi quei garzoni di bottega che gridavano fuori dalle botteghe: – Rubiamo ai ricchi! Che male c’è? –.

Il cielo versava sulla città pece a tutto andare, la città languiva, la gente si strappava di dosso i vestiti, ombre confuse gridavano tra gli alberi dei parchi, si arrampicavano sui tetti, scendevano dai canali di scolo, rabbrividivano nei gridi satanici degli spettri: occhi colati di pece, bocche languide di baci d’arsura. Tutti camminavano, tutti facevano quel che dovevano fare, ma nessuno era se stesso: dietro le spalle si nascondeva sempre, infido, qualcosa. E tutti non erano se stessi, ma tutti avevano la presunzione di sentirsi se stessi, e ancora di più di sentirsi i padroni di se stessi.

Nel salone dei Gitton, Betty riposava ormai in pace nella bara, il baldacchino coi tortiglioni faceva la sua bella figura sopra il letto con la coperta di raso azzurro, Rose e Charlotte si gettavano odio raffinato in faccia, meditando in silenzio qualche sottile vendetta da sviluppare in futuro. Edmund era finalmente apparso, stava con le spalle curve presso la bara e fingeva afflizione rigirando tra le mani unte di olio bruciato la banda del basco di tela verde. Poi arrivarono i necrofori a chiudere il cerchio della triste sinfonia: avvitarono il coperchio della bara, bullonarono, saldarono e ricoprirono il tutto con un drappo di velluto viola. Adesso i respiri maleodoranti delle tempeste si erano dissolti, i cavalli scalpitavano nei rodei e i viaggiatori dei deserti s’infilavano ai piedi le scarpe coi fili d’acciaio per ripararsi dalle insidie nascoste nelle sabbie.

Intorno a Betty tutto fu buio.

Capitolo II

La valanga di pece continuava il suo percorso devastatore, la gente continuava a mangiare ciambelle e giocare a bocce, a cricket e a tennis. La gente bestemmiava e sorbiva limonate, strizzandosi l’un l’altro gli occhi per ingannare il caldo micidiale. Le macchine tritaneve stavano nei depositi della nettezza urbana, i cani stavano allineati davanti agli abbeveratoi, un orecchio su e l’altro giù, gli occhi truci a fissare la grande piscina fatta a uovo di struzzo che accettava le pance piene di lardo catapultate dallo scivolo lungo e stretto . Pista che arriviamo noi, erano i colli dei cigni nei laghetti del parco, e da qualche parte c’era perfino una gara di beveraggio: tutti col sedere in aria e la faccia dentro il secchio pieno di soia e mousse di mela, e via a chi arrivava primo a sorbirsi tutta la poltiglia. L’individualità: dove stava la grande nemica dei conformismi? La valanga di pece era implacabile, il numero delle bestemmie toccava il numero delle stelle, le imprecazioni riempivano gli angoli più remoti. Insomma, era l’istante che cattura le nebbie tra gli alberi, con i versi dall’esasperazione dei vecchi incarcerati nella città a fare da contralto e gli urli dei balordi a grappoli sui bordi dei parchi a scomporre chiome scalpellate e sguardi di crani rinati a nuova vita dalle rovine antiche. Le allucinazioni dei voli notturni delle aquile, le fronti struggenti, le strisce violette con fughe rosso sangue a sprizzare scintille sui menti aguzzi. Tutto era un luccichio di anellini e bottoni di porcellana infilzati nelle narici destre (le destre in assoluto, avvolte nella fortuna e nella prosperità).

Gli Shawnee erano finalmente calati in città e avevano preso possesso di tutta l’area dove sorgeva il palazzo dei Gitton. I tumulti dei nuovi conquistatori stracciavano ormai perfino le pareti degli orecchi di un Daniel Boone, avvezze a tutte le arie rancorose dell’Ovest.

Ma la vita segue il suo misterioso corso di battaglie vinte e di battaglie perse. La vita offre ogni sorta di colpi di genio, ogni sorta di intuizione, dunque di soluzione. Ma il grande fiume della vita non ha argini e colpi e intuizioni corrono insieme ai detriti e al fango, si mescolano e perdono per strada la loro prodigiosa fragranza. Tutto scorre via con gli urli, le strisce, le scintille, gli anelli, i tumulti, i rancori, le baronie, i vassallaggi. Tutto scorre via nelle acque turbinose dei sogni del cuore, nelle vie turchine dei desideri, nelle follie dei sussurri in fuga.

La colata di pece non s’arresta, presso i chioschi delle bibite c’è ressa scalmanata. Dammi quella schiuma bollente di merda! Toglila dall’orlo quella merda! Dammi un gelato… freschissimo! Che hai da ridere, fesso! Ma che fai: spingi? E non spingere! Che vuoi? Vuoi forse leccare con me questo piscio di gelato?… Ressa ai chioschi delle bibite, con i cani che si rincorrono sulle collinette dei detriti e i visi diventano tetri e convulsi alla Mind Bomb e alla Blasters Tutto è irritazione e rabbia, le bestemmie sono appena sussurrate, gli spintoni sono soffici quasi carezze, e intorno imperversano i clacson, le luci delle macchine sono ordinatamente incolonnate, le frenate prendono la dolcezza delle unghie limate sulle pelli, i sudori profumano di fiordalisi e i fazzoletti al collo ammorbano l’aria già satura di smog. Nel grande scenario delle curiosità, nella leggerezza di un sorriso, nella finzione di un’illusione: ovunque, una leggera brezza di comicità, di sottile trasparenza di gesti e di bizzarrie, per non cadere nella rigidezza della drammatica realtà. Tra le bestemmie, gli spintoni, i clacson e i fazzoletti al collo passava indisturbato qualche completo di gabardine, giacca pantaloni cravatta, perfino qualche cappello di feltro: la vita andava avanti così, le celebrazioni si celebravano, gli sposalizi dovevano essere fatti, i battesimi andavano definiti. La vita è un’avventura piena di impegni e di divertimenti, tutto si dà, tutto dà speranza, tutto si dissolve. Ma il caldo torrido non mollava, le bestemmie non mollavano, gli anelli agli orecchi e alle narici celebravano il rito dei portafortuna, e tutto era un lento cammino di tram, tutto si svolgeva nello strascicato vagare di turisti, in gruppo come corridori ciclisti al giro delle Nazioni. C’era tutt’intorno l’impercettibile sapore di respiri strozzati e di occhi inchiodati a voli acerbi di colombi. Tutto andava avanti come in un film delle illusioni e i dirupi erbosi erano graffiati dal rosso dei papaveri. L’estate della metropoli offriva ai vinti inconsce palpitazioni e nell’aria vagavano canti di solitudini, di finzioni e di beffe.

Il palazzo dei Gitton incuteva rispetto. Tutt’intorno si girava l’inquietante film delle illusioni e la maestosità architettonica settecentesca della facciata del palazzo metteva rabbia negli animi tesi. Chi guardava su, nelle grandi finestre con gli infissi lucenti, scorgeva tendaggi damascati sempre immobili, mossi qualche volta da piumini impugnati come clave da mani nervose.

“Arriva dalla Pennsylvania e non sa. Vorrei gridargli: si sono trasferite al mare! Ma come faccio a dirglielo a quello, sempre così elegante! Quello mi mette paura, Donald! Io ho timore di dirglielo… e poi: sempre con quel nodo di cravatta! Mi mette l’angoscia, quello! Mi mette l’angoscia, e anche la malinconia”. Silvia guardava dalla finestra l’uomo elegante e parlava al marito. Quell’uomo, giù in basso, stava ritto col cappello in testa in mezzo al viale e guardava su nei tendaggi dietro le grandi finestre del palazzo dei Gitton. “Sono fuggite nel Delaware” vorrei gridargli. “Avevano i polmoni secchi, non respiravano più. Sono scappate via con le valigie piene di roba di mare. Vada… corra là! Quelle l’aspettano là!

Ma non ha caldo, quello?” sbottò infine. “Non lo vedi, quello? Giaccia abbottonata, nodo alla cravatta, cappello in testa: un imbalsamato! Ma non lo vedi, Donald?”. Silvia guardava l’uomo dalla finestra e il suo viso rosso scoppiava.

Poi sospirò e si mosse lenta a gambe larghe e bocca aperta. Andò a una credenza, tirò un cassetto, vi agitò dentro la mano destra, pescò infine un ventaglio fiorato bordato di rame. Incominciò a farsi aria sulla faccia con violenza, se lo mise un po’ sulla sua faccia un po’ su quella del marito: il sincronismo del passaggio del ventaglio da una faccia all’altra era degno di una fresatrice calibrata al millimetro. Donald sudava lo stesso e teneva la faccia all’indietro: non si sa mai con questa! Questa tiene in mano un rastrello di ferro, non un ventaglio, e prima o poi mi pianta in un occhio una sua asta. Questa è un tipo pericoloso! Tiene in mano un’arma, questa!

“Animo, Donald!” disse Silvia, ruotandogli vicinissimo all’occhio il ventaglio. Lui si ritrasse con un’espressione preoccupata, poi tutta la faccia la spostò da un lato e dilatò gli occhi. “Animo, animo… cos’è quel bianco smorto che ti tieni negli occhi? Che è: il caldo? Ma il caldo passa, mondo boia! Sembri uno di quei pesci fritti ubriacati dalle luci psichedeliche. Forza, Donald! Cosa sono quelle bretelle slacciate? Ti sembra educazione restare sdraiato sul sofà con tutti quei peli grigiastri che ti escono dai buchi della canottiera? E datti una stirata ai capelli, insomma! Sembri un istrice in calore”.

Donald disse, passandosi le dita gialle di nicotina sui capelli e non facendo caso alle parole della moglie: “Quelle sì che ce l’hanno il culo! Dico: quelle là del palazzo di fronte! Un intero palazzo qui, e mica un palazzetto! Eh no! Hai presente quello dei Serbelloni? Poi, una villa sull’Oceano e una nel Vermont. Poverette, eh! E noi, qui, cinquanta metri quadri in affitto. Bel culo, eh, che abbiamo!”.

“Non fai altro che dire culo, tu!” gli sbattè in faccia Silvia. “Culo su e culo giù, ma non sai che per riuscirci, nella vita, bisogna rischiare e dar via il c…”. Silvia si fermò in tempo, quella parola le dava fastidio Ricominciò con più leggerezza. “Non ti ci vedo, no proprio non ti ci vedo, tu, essere a Las Vegas e giocarti la pensione! Figuriamoci un po’! Poi: a Disneyland! Ma figuriamoci! A te farebbero prudere il sedere tutte quelle luci! Tu, in mezzo a tutti quei Bingo Bingo, a quei Fortune Club, a quei Pioneer Club… Tu! Tu, sotto quei giganti di cartapesta! Tu, sotto tutti quei fulmini a ciel sereno, sotto a tutta quella bella gente intorno alle roulette, ai blackjack, alle luci dorate! Tu, con tutte quelle belle donne nude che sorridono a tutti gli uccelli dell’aria!”. Si fermò gonfiando le gote per lo scoppio di riso che la prese. “A tutti gli uccelli…”. Ancora rise con la mano sopra la bocca. Poi prese un’aria seria e disse facendo roteare il ventaglio davanti all’esterrefatto marito: “Già, ma a te i nudi fanno paura. Lo vedo con me: è una vita che non mi vuoi vedere nuda! Eppure,” si fermò, tirò fuori i seni cadenti, strizzò i capezzoli secchi come i funghi secchi e scrollò il capo. Disse sconsolata: “Beh, non hai poi tutti i torti, in fondo hai ragione! Che ci guadagni a guardare me? Cosa ci vedresti di bello?”.

Si rimise i seni nel reggipetto e allungò il collo verso la finestra. “E’ ancora là!” disse storcendo la bocca. “Quello è capace di stare là impalato per tutta la notte. Ma non lo vede? Non s’accorge che là dentro non c’è nessuno? Intelligente quello? Elegante: e va bene! Senza una goccia di sudore addosso: va bene lo stesso! Ma furbo: beh, proprio non direi! Non vedi che è là da più di un’ora e ancora non ha deciso niente”. Fece due occhi da triglia al marito. “Dai, fai qualcosa! Digli qualcosa! Quello, se sta ancora un po’ là fuori sotto il sole, va a finire che gli cuoce il cervello. Un po’ tocco lo è!”.

“Perché quello ha un cervello?” disse Donald.

“Certo che ce l’ha un cervello, quello!” replicò immediatamente Silvia. “E che cervello fino! Quello là è un avvocato di Filadelfia che lavora dentro lo studio più importante della città. Giovane com’è, ne farà di strada, quello! Dai, Donald, fai qualcosa, digli qualcosa, non stare lì impalato. Apri la finestra e digli che le signore sono andate ad Atlantic City a raffreddarsi il c… nell’acqua – il culo lo disse talmente sottovoce che Donald non capì cosa, le signore, erano andate a raffreddarsi nell’acqua ad Atlantic City –.”. Restò un po’ in silenzio, poi gli gridò addosso: “Non dirgli mica così, neh! Quello potrebbe offendersi, e lui è un avvocato e noi siamo povera gente. Lui è un signore, capisci, e non va offeso”.

Gridava e gli roteava il ventaglio minacciosa intorno agli occhi. Donald non faceva altro che tirare indietro la faccia con una smorfia e far finta di interessarsi al giovane là sotto, vestito da capo a piedi come fosse stato autunno. Ho già questo viso qui, mezzo da Prodigy e mezzo da Burning Spear, e questa, infervorata com’è, chissà cosa mi combinerebbe con questo ventaglio se non tiro indietro la faccia! Riguardò giù nel viale il giovane. Quello se ne stava calmo sotto la colata di pece, tenendo un piede incastrato tra i binari del tram e l’altro nascosto dietro un tronco di un grosso bagolare incombente sull’edicola dei giornali. Lo guardò incantato. Il giovane era alto e aveva una figura ieratica, un po’ crepuscolare come le figure dei grandi comici della metà del secolo passato. Un viso da primo rock ‘n‘ roll… beh, sì!, se adesso ci penso bene ha molto del grande trombettista… ma come si chiamava? Ma sì, quello della famosa big band del jazz! Ma non ti ricordi? Sì, prima è stato un grande trombettista di jazz, poi… non ti ricordi quella vecchia foto di compositore? Come si chiamava quel compositore! Oh, la memoria! Sì, quel giovane là fuori col viso scolpito nella pietra… Mah! Si può sapere come si chiamava quel genio con la mano puntata sullo spartito? Chi era quel genio che scriveva musica e cancellava musica, rimettendo e togliendo note sulle righe, sovrapponendole a piramide con la cupola su e la cupola giù, schizzandole un po’ dappertutto, facendole vagare di qua e di là, tirandoci righe rosse e blu sopra per farle impazzire, sognare, dileguare, armonizzare, folleggiare… Impossibile! Proprio non lo ricordo! Eppure, quel giovane là fuori è la copia esatta di quel compositore!

Ma che importa! Sono sempre stato un romantico da quattro soldi e rimarrò sempre così! Non ci posso proprio fare nulla. Ma cosa importa se quel giovane assomiglia a J. Frank Wilson o a Elvis Costello! Ma guarda un po’: a me cosa interessa? A me, adesso, interessa soltanto aprire la finestra e dire a quel giovane che la signora Rose e la signorina Charlotte sono partite per il mare con l’autista. Se poi lui mi dirà come faccio a saperlo, gli spiegherò che ho visto l’autista portare sulla macchina bracciate di vestiti leggeri e colorati… Insomma, vestiti leggeri come questo caldo torrido e colorati come questo sole carico di olio bollente. Ma sì, dai, apri questa finestra e digli qualcosa. Donald aprì finalmente la finestra e gridò al giovane: “Cerca le signore Gitton? Guardi che le signore sono partite presto questa mattina. Lo so, perché stavo portando il sacco della spazzatura nel cassonetto e le ho viste salire in macchina”.

“Con Edmund, l’autista?” chiese il giovane.

“Sì! E le dirò: l’autista portava sulle spalle un grosso bagaglio e aveva sulle braccia una tale quantità di vestiti e costumi da mare, che gli coprivano la vista e lui barcollava perché non ci vedeva davanti a lui. Poi ha messo tutto sulla limousine”.

“Grazie” disse il giovane con indifferenza, e continuò a guardare su, nelle finestre della facciata.

Donald chiuse la finestra.

La moglie lo guardò scrollando la testa. “Sempre lo stesso, non c’è verso che tu cambi. Sei come la neve in questa stagione: ti squagli! Donald, tu ti sciogli, tu diventi molle. Donald! Ce la vedi, tu, la neve con questo caldo? – Sa, andavo a portare via la spazzatura nel cassonetto… Ho visto l’autista carico di un grosso bagaglio e di tanti vestiti da mare sulle braccia… Ha buttato tutto sulla limousine e sono partiti. Donald, non è così che dovevi dire! Le signore sono partite, dovevi dire. Punto e basta! Che ti vai a impicciare con quello? A quello cosa vuoi che importi della spazzatura e dell’autista carico come un mulo! Le signore sono partite, punto e a capo, poi chiudere subito la finestra. Donald, sei sempre lo stesso, non cambierai mai! La gente che s’arrangi! Che s’arrangi, quello! I ricchi vanno lasciati marcire nel caldo dell’inferno. Che s’arrangi quello là! Se vuole sapere delle signore, lo vada a chiedere al conte del palazzo di fronte… a quel bavoso!”. Le presero i cinque minuti nel ricordare il conte. “Bavoso!” proruppe con rabbia, e diede un calcio al cestino da lavoro che aveva davanti ai piedi. “Conte, si fa ancora chiamare quel bavoso! Saprei io come chiamarlo! Fermami Donald! Non farmi dire di più”.

Donald sapeva e non sapeva. La moglie era stata al servizio del conte per trentacinque anni, e… Donald sapeva e non sapeva.

“Si faceva togliere perfino la merda da sotto il culo, scusami lo sfogo, Donald! Lo so che sono volgare, ma quando ci vuole ci vuole.

Lui si preparava per i suoi party e io gli annodavo perfino la cravatta. Lui andava alle sue riunioni d’inferno e io giù coi ginocchi per terra a infilargli i calzini ai piedi e a lucidargli le scarpe con l’orlo del vestito. Una serva ero! Ci voleva poco che gli leccassi anche il … Fermami Donald!”.

Donald faceva finta di nulla: lui sapeva e non sapeva.

Silvia continuò con la bava ai lati della bocca. “A volte stava male, allora: apriti cielo! Prima, bestemmiava come un miscredente: lui, che alla domenica si metteva sempre in prima fila davanti all’altare! Poi: Silvia qui e Silvia là… Poi tutto mielato: Silvietta, potresti andare in farmacia? Digli al farmacista che ti mando io, digli di prepararti subito questa medicina che mi ha prescritto il medico. Mi raccomando: fagli il mio nome, così la medicina te la prepara subito. Quella merda di nobile!” proruppe la donna, raccogliendo il gomitolo della lana che si era srotolato per tutto il pavimento. “Hai capito, Donald? La medicina “nobile” voleva che gli andassi a prendere! Mi raccomando: fagli il mio nome! Eh già, fagli il mio nome, così la medicina diventa “nobile”! Fallito! La ballata dei falliti: ecco cos’è adatto a fare, questo conte! Ballare giorno e notte con i falliti come lui… ma lui non arriva neppure a fare questo!”.

Donald sapeva e non sapeva; spesso, però, sapeva più di quello che avrebbe dovuto sapere. Per esempio, lui sapeva che la moglie si era innamorata del conte. Certo, Silvia non glielo aveva mai confessato apertamente quel suo amore disperato e non ricambiato. Insomma, lei serva e lui conte, beh cosa avrebbe potuto, lei, pretendere? Il suo cuore era semplicemente un ciottolo schizzato via dalla terra di Marte, una sasso di fiume abbandonato sulla terra, senza storia e di un pianeta lontano e sconosciuto. Un sasso ricoperto di polvere rossa di deserto. Poi, i battiti di questo suo “sasso” rappresentavano la caduta in picchiata della storia ed erano la conferma di un cuore da nulla che non aveva storia. Quei battiti di cuore erano ciottoli radioattivi annientanti, erano vasi coronari desertici, orifizi irrigiditi, valvole scoppiate. Questo, in breve, la composizione – e il meccanismo – del suo organo nobile! Il suo nobile cuore – lei sì che aveva un cuore nobile! – era considerato dal conte uno straccio adatto solo per pulire pavimenti, water e latrine.

Quel cantastorie di nobiltà! Trentacinque anni a nuotare nell’umido di occhi sognanti; trentacinque anni a correre dietro a cappellini che segnavano i tempi delle mode; trentacinque anni di foulard di seta ricamati a mano. Un vanesio che rincorreva chiome soffici e bocche sensuali. Non c’era senso ad essere innamorati di un tale soggetto: lui disprezzava gli occhi della disperazione e non sapeva cogliere il lamento di tromba che era custodito nel segreto di quegli occhi. Maledetto cantastorie da quattro soldi! Lui si metteva in posa davanti al suo uditorio imbalsamato, allargava le braccia con il viso da cane bastonato e pronunciava con enfasi: vi abbraccio tutti! Figuriamoci! Poi sorrideva a tutti come un ebete, e non sapeva neppure cogliere il fascino di una sola nota di violino. Il nobile uomo del savoir faire! Puah! L’incantatore di serpenti a sonagli!

Lui, nobile? Averlo visto quando era stato sbattuto fuori dal consiglio d’amministrazione della Società Elettrica Nazionale: averlo visto! Averlo sentito! Avergli visto il viso: gli occhi trasformati in noccioli di caffè! Un gigante li aveva schiacciati quei noccioli! Una drupa resinosa nera era uscita da quei noccioli. Era proprio così: da quei noccioli schiacciati era uscita tutta la materia nera della coscienza di chi li possedeva. Quel conte? Un delinquente! Sì, un conte con la faccia da delinquente: non c’era da aggiungere altro!

Lei l’aveva visto, quella volta della Società Elettrica Nazionale! Il giorno del tribunale per la resa dei conti. Lui davanti allo specchio! Quella faccia da pirata del Bengala all’assalto di una nave che luccica di ori! Un avvoltoio! Ho visto l’inferno, si dice Silvia ricordando quel giorno. Ho visto com’è fatto il viso di un diavolo! Ho visto di cosa è fatta la smorfia dell’odio: un solco sinuoso pieno di tutti i colori schizzati su tutto il viso; e quel solco spinge in alto il labbro superiore, contorcendolo e facendogli toccare gli orli delle narici del naso che s’allunga e diventa un piffero con due tubi: altro che le maschere delle religioni tribali!

Tutto si è svolto per un attimo, per un solo attimo, ricorda Silvia, poi tutto nel suo viso si è ricomposto e, anzi, lui quella volta ha perfino scherzato con me: santo cielo, un miracolo! Quando mai ha scherzato con me? – Ma sì che vado bene, vero Silvia? Vero che la cravatta s’intona con il vestito? Oggi ho proprio un bell’aspetto! Serietà, oggi! Serietà e compostezza! –. Mah, non ha neppure aggiunto: e nobiltà. – Oggi devo essere più serio del solito, Silvia – mi ha detto. Ebbene, subito dopo quella maschera dell’inferno, lui è diventato perfino più umano. Eppure, io sola lo vedevo! Io sola gli leggevo dentro l’animo! Ebbene, il suo animo, in quel momento, era l’animo di un comico che sta davanti al pubblico che lo fischia e lui ride.

Poi, che faccia da saltimbanco davanti al microfono del tribunale! Io c’ero, ricorda Silvia. – Sì, Vostro Onore, io sono stato soltanto un umile esecutore di ordini –. Che farabutto! Tutto falso, naturalmente. Niente verità! Lui, l’ipocrita prepotente e cartastraccia! Lui, buono soltanto per il potere e il macero. E tutti quei soldi? Soldi che puzzavano di morte. – Sì, Vostro Onore! Bacio le mani a Vostra Eccellenza! Do il culo a Vostra Signoria! – (che volgare sono diventata!). Lui, un conte? Beh, se lui è un conte, io sono la baronessa Orlovski!

Silvia ricordava. E mi sono invaghita di lui subito, fin dall’inizio: fosse stato almeno un bell’uomo! Vorrei sapere che cosa ho visto io con lui. Di coerenza e di logica in quest’amore è inutile parlarne: è perfino comico! Poi, in quest’uomo, l’umanità era andata in vacanza trecentosessantacinque giorni all’anno. Grattugiargli il cuore con le lacrime e i sospiri, era fare il suo gioco: lui, dentro, aveva soltanto polvere rossa di deserto! Di nulla, del nulla, dell’assoluto nulla: questa era l’unica moda del vestito del conte (una natura da selvaggio aveva, ed ha, questo conte!). Sembra una barzelletta pensarlo un selvaggio, e c’è da ridere e da piangere. Certo che c’è da ridere e da piangere pensare uno un selvaggio, quando ha movenze leziose in tutto il corpo e cammina a passettini sincopati, studiati, provati e riprovati mille volte, giorno e notte, davanti allo specchio.

Lei ricordava. Ricordava tutte le pugnalate che aveva visto dentro la casa del conte. Il conte non si era mai fermato un solo istante davanti allo specchio a guardarsi bene in faccia. E’ una regola fondamentale saper guardarsi bene in faccia, da uomo a uomo. Il conte? L’essere tenebroso della sfiducia! Lui sapeva offrire a piene mani sfiducia e diffidenza: non per nulla c’era stata la giornata della Società Elettrica Nazionale contro di lui. Il conte un uomo? Silvia ricordava e rideva con se stessa. Adesso cammina come un gambero (ed è rosso in faccia, anche, come un gambero!); adesso strascica i piedi come un moccio sbattuto di qua e di là negli angoli più sporchi; adesso ha le rughe che gli saltano fuori dall’anima e gli attraversano gli occhi e la bocca. Tu, conte, che adesso sei l’ombra che ride, credi ancora nella luce? Quanto hai riso, conte! Quanto hai sputato addosso a questo e a quello! D’accordo: noi tutti siamo la vita che pugnala alle spalle, noi tutti siamo sempre affamati di conquiste, di sogni, d’amore…(a questo proposito sarebbe meglio aggiungere che oltre ad essere affamati, siamo anche alquanto egoisti, terribilmente egoisti!). Ma ritorniamo a te, conte! Conte: tu sai cos’è la luce? Tu sai cos’è l’anima, nobile del cazzo? (Silvia, sei proprio volgare!). Tu mi hai rubato quanto di più prezioso possa avere una povera donna come me: mi hai rubato la luce dell’anima. Sai che ti dico, conte? Che io proprio non lo meritavo di perdere la luce dell’anima! Tu ti sei permesso di sorridermi e sedurmi come meglio ti gradiva; colpa mia, non ho capito nulla dell’amore! In fondo, per ottenere qualcosa dall’amore bisogna essere dei fottuti egoisti. Se solo dai, raccogli soltanto bastonate nella schiena.

Silvia ricordava. Adesso ho perso la voglia di ridere ed è tutta colpa mia, perché mi sono dispersa dietro falsi sorrisi: avessi riso anch’io dietro alle spalle di lui che mi offriva falsi sorrisi!

Ma tu, conte della malora, mi hai rubato la luce dell’anima e adesso che sono vecchia vivo senza luce dentro. Porco di un conte!

Ma Donald sapeva tutto questo?

Silvia proruppe all’improvviso: “Quel conte maledetto, Donald! Lui non glielo direbbe dove sono andate, neppure se quel giovane gli regalasse tutto ciò che possiede! Sai che ti dico: avrebbe paura. – Ma, direbbe tra sé, se me lo chiede, vuol dire che sotto sotto si nasconde qualcosa – ”.

Silvia andò alla ricerca dei ferri da lavoro, disseminati un po’ ovunque sul pavimento dopo il calcio nel cestino, e ridivenne cattiva contro il giovane: “Farlo crepare sotto il sole quel damerino, altro che avergli detto tutto punto per punto. Le signore sono andate al mare: che gli crepasse la voglia di sapere! Perché glielo hai detto dove sono andate? Dovevi dirgli soltanto che le signore non ci sono, stop. Chi si crede di essere quello? Forse perché è un avvocato, lui ha diritto di sapere? Ma se è appena un avvocato da quattro soldi!”.

“E’ il più giovane avvocato di Buffalo che è sceso a Filadelfia ed è già nello studio più importante della città” ribattè Donald. “Quello diventerà un principe del foro, te l’assicuro io”.

“Cosa, un principe? Un altro nobile qui? Un principe, dici tu, ma vai a farti fottere, Donald! So io dove li butterei tutti questi conti e tutti questi principi! Nella Geenna, li butterei! Conosci la valle della Geenna? Conosci l’inferno? Ecco, nell’inferno li butterei; ecco dove li butterei tutti questi rifiuti dell’umanità!”.

Donald lasciò che Silvia si sfogasse e rimase indifferente ai suoni aspri che le uscivano dalla bocca. Distolse l’attenzione dalla moglie e guardò dalla finestra. Laggiù, tra i binari e i bagolari, non c’era più nessun giovane elegante con il cappello in testa.

Un tram vuoto stava arrivando proprio in quel momento.

Capitolo III

Comoda rinchiudersi in casa e non aprire a nessuno! Comoda nascondere le ombre e far vedere soltanto le luci! Comoda ogni cosa, ma la vita è una lunga discussione fondata, esclusivamente, sulla falsità. Chiaro? Ma… Già, è vero! Ma… vince sempre la diplomazia! Ordine interiore, disordine interiore, truffa delle coscienze… disincanto: le incertezze degli impulsi, i doppiogiochismi, i funambolismi, i nascondimenti: l’incoerenza regna! La vita è una parentesi sempre aperta, neppure la morte chiude la parentesi. Il problema continua all’infinito, il problema esiste: altroché che esiste il problema! Il problema – quello più vero e reale – è il non saper conoscere noi stessi. Ma questo problema contiene qualcosa di assolutamente incomprensibile per la logica di vita che ci portiamo dentro. Noi non ci accorgiamo che non sappiamo conoscerci e continuiamo a correre imperterriti per la nostra strada: guai a chi ci contraddice e ci dà qualche buon consiglio! Così, tutto non si muove in noi e tutto resta come è sempre stato.

Ci vorrebbero nuove forme di vita, nuovi modelli, nuovi scoppi di creatività. Bisognerebbe poter far assorbire dal vento tutta la follia buona che nascondiamo nell’anima. Se potessimo far entrare questo vento dalle finestre delle nostre case e poter fargli fare tutti i vortici che vuole! E’ così che renderebbe la nostra follia buona la grande madre di tutte le cose! La follia buona è la nemica numero uno di tutte le iniquità che ci incatenano e non ci fanno essere noi stessi. “Andremo a Coney e mangeremo un panino con il polony…”. E’ “Manhattan”, la canzone di Lorenz Hart che lo dice, e la canzone di Lorenz Hart scorre facile nel tempo, attorciglia le budella, rende amico l’estraneo.

Perché dunque non andare a Coney? Ma cos’era Coney… cosa c’era a Coney… quali panini si mangiavano a Coney. O forse era meglio non andare a Coney? Infatti: quale sabbia d’oro poteva esserci a Coney! Quali passerelle… quali sale giochi.. Un carnaio, ecco cos’era Coney! Coney, la spiaggia madre della metropoli? Ma quale spiaggia! Quale mare! E quale refrigerio… quale bagno… quale respiro… quale riposo! Mettersi tutti in posa per lo scatto fotografico del secolo; lo vogliamo mostrare sì o no quel petto villoso nascosto a metà dalla stoffa salva peccati? Fluttuazioni, cadute all’infinito, sussurri nel sole e dal sole, un grido di misericordia: punta su di me l’obiettivo! Fammi la foto che poi l’ingrandisco e la metto come poster nella cameretta del bambino. Ricordo da Coney, firmato Felicità. Tutti col dolce sorriso, tutti con lo sguardo nel punto magico dell’obiettivo, nessuno a fare il bagno. Dov’era il mare? Dove erano le sale da gioco, le passerelle, la sabbia dorata…

Nulla conta! Conta soltanto essere stati a Coney, essere stati sotto il fuoco eterno dell’obiettivo di Coney, conta aver mangiato il panino con il polony a Coney. Che importa se i piedi non hanno provato il fresco dell’acqua e sono rimasti tutto il tempo a friggere nella sabbia rovente? Ma cosa importa, diamine! Ho l’immortalità della foto ricordo: chi può togliermela? Chi può rubarmi quel piacere che provo, quando gli amici, che a Coney non sono andati, mi dicono con una punta d’invidia: sei stato a Coney? Ma davvero sei andato a Coney? Perbacco, parlaci di Coney!

Eppure le Gitton e i loro amici a Coney non erano mai andati, né avevano mai seguito le gesta dei guerrieri di fine settimana che affrontavano a muso duro la strada tutta in pendenza per Coney. “Coney… Si può sapere dove sta Coney?” disse Diana.

Figurina fluente e romantica, era tutta concentrata sulla pallina da golf.

“Che t’importa di Coney!” disse Hugo. “Liftala, sfiorala appena come se accarezzassi il petalo di una rosa, oppure dalle un colpo deciso come se giocassi a tennis e sei sotto rete”.

Hugo guardò Diana alzare la mazza con decisione, quasi con impeto, e allora gridò: “Diana, mi raccomando la statuetta della nicchia della villa!”. Tutti risero, ma Diana non ascoltò nessuno.

La villa stile Rinascimento stava a trecento metri dalla buca e li guardava tutti dal belvedere sotto la guglia conica, strizzandogli l’occhio dai pinnacoli e salutandoli grottescamente con i suoi putti messi tutti in ordine nei frontoni ciechi. La villa era una sontuosa signora di un bel rosa minuetto, con un largo portale incorniciato da capitelli pseudocorinzi e fregi a dentelli. Si vezzeggiava tutta con conchiglie, ornamenti a voluta, coronamenti, architravi, pannelli decorati, e gli mandava un saluto affettuoso dal tetto a falde, lanciando brillii dai medaglioni e dalle lesene decorate con patere. I Gitton avevano esagerato nell’inghirlandare la loro “vecchia signora”, e l’esagerazione veniva tutta dalle bizzarrie di Rose che in fatto di fregi e di ghirlande non era seconda a nessuno: bastava guardare i suoi vestiti svolazzanti.

Diana si preparò al drive dichiarando all’indirizzo della diciottesima buca, poi fece partire la pallina con slancio e precisione tali che la pallina andò ad adagiarsi nel putting a pochi metri dalla fine buca. Non ascoltò le grida di ovazione e si avviò lentamente sul green per raggiungere la pallina, scegliere un putter leggero, adagiare la punta a serpente vicinissima alla pallina, inarcare le spalle, produrre un piccolo arco ai gomiti, trattenere il respiro e battere decisa. La pallina caracollò con delicatezza estrema verso la buca ed entrò senza tentennamenti. Aveva vinto con un numero quasi irrilevante di colpi. “Buca!” gridò soddisfatta e con naturalezza. C’era forse bisogno di mettere in dubbio la sua vittoria? Ciò che lei faceva era sempre perfetto, doveva essere sempre perfetto! Poi, il suo sguardo! Uno sguardo fiero, uno sguardo che non ammetteva sbagli. Era di una bellezza da MGM Pictures, linda, solare, pulita. Le si leggeva l’anima negli occhi e le si leggeva anche il carattere negli occhi. Era l’amica preferita di Charlotte. Lei diceva sempre a Charlotte: “L’oceano, il mio oceano, il tuo oceano. L’Oceano!… Sip my ocean… Ever is Over All… Capisci, Charlotte! Sopra di noi c’è la massa insopportabile dell’oceano, e la massa d’acqua insostenibile ci rende euforici e folli. Ecco dove sta il nostro cannibalismo! Charlotte, ognuno di noi ha sulle spalle l’oceano e ognuno di noi è un folle”. Rideva all’amica. “Non farmi quella faccia buia: tanto non mi smonti! Devi riconoscere l’evidenza, devi riconoscere che non può essere che così. Noi siamo dei cannibali di anime! Sai che vuol dire essere cannibali di anime? Vuol dire essere dei divorziati! Noi siamo dei divorziati in tutti i giorni dell’anno, perché tutti i giorni noi ci dimentichiamo di noi stessi, andiamo via da noi stessi, evadiamo in altri lidi, in altre terre, in altri pianeti. Divorziamo da noi stessi, vogliamo fuggire da chi ci sta vicino, non riconosciamo più chi ci sta dentro. E’ la nostra angoscia costante, Charlotte! E’ l’angoscia di tutto l’universo”. Rideva e abbracciava Charlotte, impietrita e affascinata dalle parole dell’amica. Diana teneva tra le braccia Charlotte per un po’, poi continuava il suo monologo: “ In fondo, noi chi siamo? Siamo forse dei pezzi di marmo, delle scorie radioattive, degli ippocastani! Forse, forse, forse… Chissà!”.

Charlotte restava muta e sorrideva all’amica, attenta e infervorata. Qualcosa avrebbe voluto dirle. Avrebbe voluto dirle, per esempio, che anche gli ippocastani potrebbero avere, nei loro tronchi o tra i loro rami, delle angosce. Chi poteva ammettere il contrario? Ecco, questo Charlotte avrebbe voluto dire all’amica. Questa volta avrebbe ribattuto sugli ippocastani, un’altra volta sulle scorie radioattive, un’altra volta ancora sui pezzi di marmo… e così via.

A Diana dopo ogni partita a golf le ridevano gli occhi, e anche dopo questa partita appena terminata le ridevano gli occhi. Alla fine di ogni partita, guardandola, sembrava una donna pronta a prendere l’aereo per una qualche isola sperduta nelle liane. Lei, così razionale e decisa in ogni sua attività, sapeva aggiungere alla sua razionalità e decisione, un attimo di fantasia e un tocco di romanticismo. Correva nel buio delle ombre e trovava sempre la luce: sapeva fondere insieme luci e ombre di donna. Possedeva sangue freddo, abilità, affettuosità, affabilità, altruismo, comprensione. Nel campo dell’arte era già un’artista affermata, e anche qui lei aveva saputo imporre il suo stile di vita e la forza del suo carattere. Diceva a Charlotte: “Io vinco la follia del vivere, vinco tutti i cinismi, tutte le passioni”. Sorrideva negli occhi dell’amica. “ Sì, Charlotte!”, continuava a dirle con tutta naturalezza, “c’è un solo modo per vincere la follia dell’universo, ed io l’ho scoperto quasi per caso. E’ andata così. Stavo dipingendo un quadro di dimensioni enormi e dunque puoi immaginare quanti colori avevo impiegato per portare a termine quella mia opera colossale. Una valanga di colori si era riversata sul mio viso, sul mio camice, sui miei pantaloni, ed io vorticavo in un vero film in technicolor e le mie mani coglievano tutti i riflessi delle tonalità dei rossi, dei blu, dei verdi, dei gialli, degli arancioni, dei neri, dei bianchi…insomma, io tenevo tra le mani la bandiera di tutti gli stati del mondo! Charlotte, io avevo addosso tutti i colori e avendo realizzato la mia opera, tutti i colori che avevo addosso attestavano la vittoria della mia fantasia e della mia creatività. La follia del mondo era stata vinta dalla follia dei colori, io avevo vinto il mondo con la realizzazione della mia opera e dunque ogni follia, ogni difficoltà, ogni ostacolo potevano essere frantumati dai colori della mia tavolozza. Charlotte, da quel momento ho capito che il mondo può essere vinto con i colori della fantasia e della creatività! Sì Charlotte! Il mondo può essere vinto con i colori degli atti di coraggio, di passione e di impegno.

Finalmente avevo capito, finalmente avevo vinto. E da quel momento ho vinto! Da quel momento ho vinto il groviglio delle angosce che mi portavo dentro, e le angosce, qualunque esse siano, vengono spazzate via dal saper apprezzare i colori della sofferenza. Sembra retorica, lo so! Sembra una teoria evanescente formulata da qualche psicologo a corto di idee. Però è così! Charlotte, io adesso, dopo aver fatto quella semplice scoperta dei colori della fantasia e della creatività, riesco con facilità a vincere l’angoscia del vivere… Adesso io riesco a dimenticare l’angoscia del mio vivere, e a capire l’angoscia dei miei amici, dei miei parenti, dei miei nemici, dei miei conoscenti… dei miei amanti!” Rise.

Era tutto un suo monologo e lei non si stancava mai di parlare a Charlotte. Insistette ancora: “E’ stato facile, Charlotte! Se pensi ai colori vinci l’angoscia. Ma i colori non devono essere quelli dei fuochi d’artificio; i colori devono essere quelli della fantasia, i colori devono essere quelli della creatività”. L’abbracciò con tenerezza. Disse: “Charlotte, tutti possiedono questi colori! Tutti possono trasformare la loro angoscia in una presenza confidenziale interiore, perfino in una guida per tirarsi fuori dagli incubi della perversione. Io la chiamo: la mia teoria dell’assurdo!”.

L’angoscia, la presenza confidenziale dell’angoscia, l’angoscia guida: la teoria dell’assurdo, la teoria del tutto è già stato detto. Charlotte avrebbe voluto dire tante cose, avrebbe voluto dire di Hugo, dell’arte, del come il mondo si pone di fronte all’arte. Avrebbe voluto chiedere a Diana cos’è l’arte. L’arte è forse l’unica cosa limpida che l’uomo possiede? Avrebbe voluto dire del lato oscuro e del lato di luce dell’uomo. E l’arte dove stava? Stava tra le ombre, stava tra le luci, o stava in mezzo. Avrebbe voluto chiederle: secondo te, l’uomo ha timore di ciò che l’arte può rivelargli? Sì, era una domanda da farle, perché l’uomo, quando si trova davanti a un’opera d’arte, prova sempre timore. Diana l’avrebbe assicurata, certamente, che l’arte non è un bluff e che racchiude in sé il segreto di parlare al cuore dell’uomo e di saper confidargli quanta ingenuità contiene il suo cuore. Dunque: nessun timore davanti all’arte! Charlotte avrebbe voluto inondare di domande Diana sui lati oscuri e chiari dell’uomo, ed esprimerle la sua perplessità sulla teoria dei colori della fantasia e della creatività. La vedo insufficiente a risolvere le angosce dell’umanità, avrebbe voluto dirle. Ma Charlotte amava troppo Diana e sapeva che quelle domande avrebbero soltanto dato l’impressione di mettere in difficoltà l’amica.

“Ci vuole un drink” disse Hugo. “Alla vittoria di Diana, hip hip urrà!”.

Il gruppo si avviò verso la villa, calpestando allegramente l’erba del green.

Camminavano veloci e già avevano dimenticato il golf. C’era Diana, c’era Hugo, c’erano Sammy e James. Charlotte era davanti a tutti ed era impaziente di arrivare alla villa. Dentro il suo cellulare c’era un sms di Louis, l’avvocato di Buffalo. – Passato in città, saputo del mare, aspettami –. Louis era sempre conciso, sempre perfetto. Forse troppo perfetto!

Rose non era mai apparsa e neppure si era mai vista affacciata alla finestra. Era rimasta sempre nascosta.

Tutti erano arrivati per la partita a golf, per stare un po’ insieme in allegria e chiacchierare davanti a un drink. Sempre le stesse cose! – Oh, quel mare miserevole! Sempre la stessa sabbia, sempre la stessa gente, sempre le stesse volgarità –.

Erano arrivati tutti già vestiti coi T-shirt, i pantaloni di tela bianchi, le gonnelline pizzettate e il borsone con le 14 mazze: che fossero venuti per un US Open? Appena arrivati si erano messi a passeggiare lungo il ruscello che tagliava in due il campo, controllando i bunker mezzo pieni di sabbia e valutando le varie distanze dei boschetti sparsi un po’ ovunque. Tutto a posto, tutto a regola d’arte, tutti d’accordo, e loro continuavano a passeggiare sul campo, in lungo e in largo e di qua e di là, esponendo bene in vista le scarpe bicolori con la linguaccia e le stringhe colorate.

Chi non aveva digerito bene la vittoria di Diana era Sammy, la biondissima, sempre restia a trangugiare la medicina amara della sconfitta. Viso bellissimo e luminoso, metteva bene in evidenza gli spigoli sulle gote, trasparenti come il diamante. Sammy sorrideva poco, schizzava via all’improvviso quando uno meno se l’aspettava e dava sempre l’impressione che non volesse mai spartire nulla con nessuno. Stava con James, ma a una condizione che non ammetteva deroghe: loro due dovevano vivere insieme con l’ipoteca della divisione di tutte le incombenze che il ruolo dello stare insieme comporta; insomma, dovevano mettere in pratica la responsabilità del turnover dei ruoli: o l’uno o l’altra doveva essere presente nel corpo e nello spirito per l’uno o per l’altra; non si doveva derogare, non ci sarebbero state scuse, né scappatoie né rilassamenti. Se necessario, o l’uno o l’altra avrebbe dovuto correre in soccorso o dell’uno o dell’altro anche con un semplice sorriso, anche con una lacrima, anche con una carezza. Era un grande impegno per entrambi, ed era una idea geniale di convivenza ideale. L’accordo era condiviso da Sammy e da James allo stesso livello: vietati tutti i colpi bassi! Saper incassare, saper ribattere, saper sorridere, saper accettare. L’accordo era decisamente impegnativo e per restare dentro gli argini bisognava sentirsi liberi. Liberi sempre!

Ci voleva coraggio, e qui James era superiore e salvava sempre ogni cosa. Era una coppia interessante, ma il cammino era sempre biforcuto e l’attimo dell’oscuramento stava in agguato dietro l’angolo, come lupus in fabula. I loro momenti di relax erano i loro momenti della verità.

Sammy era ritornata dalle Filippine, dov’era andata per assistere di persona all’evento dell’incendio del cielo: il cielo in fiamme più rosso dell’universo!

Sammy abbracciò James, James abbracciò Sammy. Erano di nuovo insieme. “Ce l’hai fatta!” le disse James. “Sapevo che ce la facevi, io sono stato bene per te, io ho gioito con te davanti al tuo rosso cielo. Ho visto la luce dei tuoi occhi nell’istante in cui tu eri rapita dall’incendio più colossale che possa sfiorare la terra”.

“Grazie” disse soltanto Sammy, portando nella camera da letto il borsone da viaggio.

James era felice. Adesso aveva di nuovo vicino Sammy. Disse: “La tua felicità, innanzitutto! Io, qui, ho provato la stessa felicità che tu hai provato davanti a quel tuo rosso”. La baciò sugli occhi, le disse pacato: “Cos’è l’orma di “Buzz” Aldin? Cos’è stata quell’orma sulla sabbia della luna che ha oscurato tutte le orme famose della storia umana, compresa l’immortale orma di Sherlock Holmes? Ebbene sì: il tuo rosso cielo di Catanduanes oscura ogni immortalità e io ho visto te ascoltare il canto del cielo nel grande incendio dell’arcipelago. Ti vedevo appagata e sentivo scorrere dentro di te le onde angeliche di Calbayog”.

James era una specie irripetibile di uomo.

Ma non era soltanto così. Se fosse stato soltanto così, Sammy non lo avrebbe sopportato a lungo. Sammy viveva con rabbia ciò che di avverso le ribolliva dentro e accettava James perché James era attraversato dal grande fiume dell’imprevedibilità. E tutto diventava chiaro! Tutto non poteva essere che così! E come avrebbe potuto essere diversamente? Sammy e James, James e Sammy, una girandola di coppia infinita, la coppia che non tramonta, la coppia che non si divide, la coppia che si rincorre fino a toccare il profondo buio della gola, e poi va oltre fino al traguardo finale dell’incompletezza, fino al soffio impercettibile dell’indifferenza, fino alla determinazione del voler distruggersi senza remissione.

Distruggersi fino all’ultimo respiro: nient’altro!

Sammy e James restavano uniti perché James era imprevedibile, e lui era imprevedibile perché era un poeta. “Tu mi appari nel pensiero/accarezzato da note inquietanti di blues”. Erano suoi versi dedicati a Sammy nell’attimo del rapimento e Sammy s’infiammava. Poi Sammy diceva: “Per un attimo di sorriso, per un attimo di speranza: James sei il mio poeta”. Gli sfiorava gli occhi con le labbra, lo abbracciava con passione, gli offriva il suo respiro. Tremava tutta, non voleva perderlo. “Sei il mio poeta, sei il mio sorriso, sei la mia leggerezza. Io sogno i versi che mi offri e nelle notti di tempesta io mi aggrappo alla tua purezza: io vivo.

James, io vivo! Adesso ascoltami: non farti mai conoscere, nasconditi, nascondi i tuoi sentimenti, non scoprire mai le carte che metti in tavola: lasciale rivoltate e che la gente fantastichi cosa c’è dietro quel dorso di carta. Ci sarà un asso di fiori o un asso di picche? Un asso di quadri o un asso di cuori? Io so! Lo so! Tu vorresti sempre offrire l’asso di fiori e l’asso di cuori, ma fai come me. Vedi come faccio io? Io mi nascondo nei miei ritratti scegliendo mille pose. Tu mi vedi nuda, vestita stravagante, sola e in compagnia. Tu vedi il mio corpo muoversi e restare immobile, e vedi la mia anima che assorbe il mio vivere e il mio morire. Non mi nascondo, ma non scopro mai i miei sentimenti: la mia libertà va rispettata”.

“La libertà nasconde sempre un po’ di vuoto, Sammy!”.

“E’ ciò che pensi, James? E’ la tua legge o è la legge dell’umanità! Se è la tua legge, ti conosco e so cosa vuoi dirmi; se è la legge del mondo, io so che il mondo applaude, si commuove e piange con te: il mondo ti lascia libero di fare ciò che vuoi. Ma l’anima del mondo non ha una vera identità. Curiosità, impulsività, ipocrisia: la triade dell’anima umana. Tu sei poeta, tu non dimenticare questa triade”.

James sentiva Sammy vicina, la sentiva amica, la desiderava sempre. E Sammy scalpitava come una puledra in calore, poi si calmava e rideva con lui. Allora lui metteva tutta la faccenda in versi: “Tu cogli l’eco del mio cuore/tu scolpisci di scogli/la mia fantasia”. Lei ricominciava a scalpitare e lui affondava, nel cuore di Sammy la lama del suo coltello in versi. Declamava: “Canto la vita che non muore/canto i tuoi nudi eterni”.

Sammy, la fotografa, James, il poeta. Lei stravagante, lui sentimentale. In lui non c’era finzione, e la sua inquietudine passava attraverso le dita che lisciavano, frenetiche, i sui lunghi capelli di nebbia. Allora lei capiva il suo tormento e diceva: “Tocco i tuoi capelli, sfioro la tua nebbia”. Poi si sedeva sulle sue ginocchia, gli sfiorava il viso con le labbra, gli morsicava l’orecchio. “Sei un genio, James,” gli sussurrava negli occhi, “ e sei triste. Io amo il tuo genio, io amo la tua tristezza, io amo la tua incredulità per ogni cosa. Se tu credessi in qualcosa, io non ti amerei più”.

Adesso erano nel giardino, al di sopra del green e davanti alla villa. Le tre grandi porte finestra della villa erano spalancate sui tre vialetti che portavano al tavolo di massello, prelevato per l’occasione dal salone da Edmund aiutato da quattro operai della villa. Su quel tavolo c’erano beveraggi colorati, alcolici e non alcolici, dolci e secchi. Sammy fece scivolare sulle spalle nude di Diana le sue lunghe unghie e piccoli solchi arrossati affiorarono sulla pelle tenera. Diana restò immobile, non un gesto di stizza. Sorrise poi a Sammy e Sammy disse: “Un colpo da grande maestra, ti batto le mani e mi complimento con te. Non ti nascondo la mia invidia, ma ti dico brava”.

“Grazie” disse semplicemente Diana.

° ° °

Whiskies tutti di gran marca, bourbon, frutti esotici, brandy, zuccheri, limonate, aranciate, succhi di pompelmi, vin santo e rosoli: il tutto sotto la calda brezza pompata fin lì dai boschetti sulla cresta. Una nuvola di storni scosse le betulle in riga sulla costa a strapiombo sul mare.

“Come ronzio di biancospini” declamò James.

“Se ti riferisci a questa brezza, direi – come colata di pece infernale”. Fu Hugo a intromettersi. Continuò: “Inoltre, le previsioni per tutto il mese sono a dir poco catastrofiche”. Si corresse: “Direi, anche per il prossimo mese! Lo dicono le previsioni su internet, e l’internet non sbaglia. Facciamo il 90% di probabilità”.

“Però, il 90%!” disse serio James.

Hugo continuò a spiegare: “E non finisce qui. Loro del meteo ti fanno una descrizione delle alte e delle basse pressioni che ti lasciano a bocca aperta, poi ti annunciano con precisione il movimento delle correnti sui mari e sulle altitudini oltre i cinquemila metri, poi si addentrano sui flussi e riflussi atmosferici e quando ti hanno spiegato il tutto con terminologie tecniche appropriate, ti lanciano le previsioni con l’esattezza di un battitore di baseball. Al 90% di esattezza, nell’arco di due mesi: mica scherzano quelli!”.

“Però!” disse ancora serio James.

“Se è così” disse Charlotte, “resteremo al mare tutta l’estate. Qui non si muore di smog come in città”. Sentì vibrare il cellulare e guardò il display. Sul display c’era scritto: messaggio ricevuto. Schiacciò l’OK e lesse: “Guarda giù e mi vedrai. Louis”.

° ° °

Charlotte guardò giù nella strada che partiva dal mare e arrivava lassù. La strada era una lunga curva che svoltava, si rivoltava e ricominciava a svoltare. L’ultima svolta era a gomito chiuso , stretta al tal punto che pareva un cerchio chiuso a tre quarti. Le macchine, in quel punto, rallentavano e stavano quasi ferme, finché la prima marcia, e spesso la ridotta, venivano in soccorso per disincagliarla. Proprio là, in quel punto, stava ora la jaguar verde di Louis, a non più di trecento metri. Charlotte vide i riccioli biondi di Louis muoversi nel vento, e da sopra la cappotta abbassata il suo viso pallidissimo rise tra gli olmi ai bordi della strada. La macchina doveva ancora attraversare il ponte sul ruscello, poi avrebbe aggirato l’ultimo avvallamento del links e sarebbe piombata sullo spiazzo di mattoni grezzi. Louis fermò la jaguar davanti alla villa, scavalcò con un balzo la portiera e corse incontro al gruppo, compatto e coi bicchieri in mano. Charlotte gli corse incontro e l’abbracciò, lui gridò di gioia. Tutti lo salutarono coi bicchieri alzati, lui guardò le scarpe di tutti e fece una battuta: “linguacce!”. Tutti alzarono il piede destro mettendo in evidenza la “linguaccia” della scarpa, lui allungò la lingua e tutto finì in una ovazione di risa.

“Me l’ha detto il vecchio che sta lì accanto a voi” disse Louis a Charlotte e ripetè, scimmiottando con la erre strascicata, le parole di Donald: – le signore sono partite per il mare, ho visto l’autista caricare i vestiti fiorati e molti bagagli –. Era uno spasso vederlo strascicare le erre con le labbra arrotondate proprio come faceva Donald. Poi chiese, alzando gli occhi sulle finestre del primo piano: “Tua madre dov’è?”, ma non ottenne risposta. Intanto si era avvicinato al tavolo e già si stava versando un doppio whisky liscio. Tenne il bicchiere alzato controluce, ne guardò lo splendore del contenuto e bevve d’un fiato il liquore come se il caldo non esistesse. Teneva ancora la cravatta annodata, la giacca abbottonata e i polsini della camicia fuori dalle maniche della giacca: come se nulla fosse, come se il caldo fosse stato assorbito, tutto, dal mare di laggiù.

“… mentre colui che canta con la lingua in fiamme/rantola nel coro della corsa di topi/deformato dalle tenaglie della società…”, l’allucinazione del genio, l’infiltrazione solforosa nella mente del grande Bob Dylan con il mento e tutto il resto fatto a scarpa. Pallida è la luna, pallida è la mia tristezza in questa commedia musicale comica e sgangherata popolata da occhi spiritati, catastrofi e divertimenti. Louis fantasticava a voce alta e il gruppo esprimeva tutto il suo vuoto con drink e salatini dissolti nell’aria torrida del pomeriggio. Lui non voleva essere assorbito da tutto quel vuoto, lui camminava per il campo da golf della fantasia e non aveva una meta precisa. Charlotte lo adorava, ma sentiva che Louis non avrebbe mai potuto accettare quel mondo fatto di vuoto e di leggerezza. Eppure quel mondo era il mondo di lei e lei mai avrebbe vissuto in un mondo diverso. Era così, e così sarebbe stato!

Louis vestiva i panni di un regista del cinema muto ed era un artista di turbinose e voluttuose scenografie, un ammaliatore tempestoso, un intrepido genio di duelli, un sognatore imprendibile. Lei apparteneva a un altro cast, lei faceva parte di un cast che mai le avrebbe permesso di accettare un uomo, fidanzato di tutte le donne. Inutile che tenesse sulle braccia le tavole sacre di Mosè! Lei si sentiva attratta da lui pericolosamente, avrebbe potuto perdersi in lui, ma il suo cast era forte e mai avrebbe permesso che lei si perdesse insensatamente. Per il tuo bene noi ti teniamo incatenata a noi. Già, per il mio bene, pensava lei.

Ma adesso lei lo aveva lì vicino, adesso poteva vivere del suo incendio, e poteva bere la sua follia di artista turbinoso, di ammaliatore tempestoso, di genio di duelli impossibili, di compositore irresistibile, misteriosamente imprendibile. Adesso poteva abbeverarsi, anche per pochi attimi, del suo sguardo di luce, del suo passo agile, del suo fascino di genio di follia e di malinconia: Louis, l’essere che non si poneva in pose stravaganti, e non poneva il viso a nessun flash accecante. Lui camminava sulla strada leggera della fantasia e le sue disillusioni le davano la certezza di una indissolubile amicizia tra loro. Lei si sentiva irrimediabilmente legata a lui.

Un giorno lui si sarebbe dissolto nel nulla: questa era una certezza imponderabile. Lui rifiutava il suo cast, il suo cast rifiutava lui: non c’erano vie d’uscita, non c’era futuro per una loro unione per sempre. Ma ci sarebbe stata l’amicizia, la loro amicizia, l’amicizia di uno per l’altra e viceversa: di questo lei ne era certissima e per lei questa certezza l’appagava. Non nascondeva la sofferenza che provava per non essere sua per sempre, ma l’uomo di Buffalo era imprendibile per chiunque, la sua aria di libertà cantava spesso: “… mi dicevano che mi avrebbero seguito/quando il gioco si fosse fatto duro/ma mi prendevano in giro/non c’era nessuno nemmeno per bluffare me ne ritorno a new york/credo proprio che ne ho avuto abbastanza…”. L’uomo di Buffalo cantava le ballate di Bob Dylan e nulla poteva frantumare la forza del suo cuore, nulla poteva contro la forza della sua amicizia imperdibile. con la magica voce che fuggiva nel deserto delle sue ferite mai rivelate. Lei lo amava al di là di ogni finzione, al di là dell’avverso cast di cui faceva parte. Lei non avrebbe amato che Louis, nonostante tutto, e dopo aver amato nel passato un falò con le scintille di cenere e con il fumo soffocante. La cenere e il fumo morivano all’alba, e il sole rifletteva pulviscoli di aria umida. Lei sapeva che bisognava andare, prima o poi, il tempo del fieno era trascorso, le note della sinfonia delle lucciole erano esaurite, l’assolo languiva tra gli sterpi. “Luna… danza ancora/ nelle risa dei crepitii/vaghi delle lucciole…”, lei leggeva il soffio di quelle note che fuggivano tra le dita del suo compositore e la cenere dell’antico falò si dissolveva nei pulviscoli degli occhi come il sole si spegne nei rovi spinosi del biancospino. Un pensiero, una mossa, il momento melodrammatico dell’infallibilità: lei amava i duri traguardi e Louis era un duro traguardo. Peccato per quel cast troppo duro da frantumare!

“Jurare in verba magistri” sentenziò improvvisamente Hugo. “Orazio… Orazio… dove sei Orazio?”. Non la finiva più. “Orazio, mandaci le tue Epistole perché noi possiamo vincere questo inferno di calore!”.

Diana lo fulminò con uno sguardo felino e lui la finì subito.

Ma ecco farsi avanti l’imprevedibilità. James disse: “ – Einstein travestito da Robin Hood/i suoi ricordi chiusi in un baule/passò in questa strada un’ora fa… e recitando l’alfabeto/non si direbbe a vederlo/ma era famoso molto tempo fa/per come suonava il violino elettrico/sul vicolo della desolazione – ”. James guardò negli occhi Louis. “Ti faccio l’eco con il tuo Bob Dylan, Louis!” disse, “Con Bob Dylan, l’infinito, colui che disse”. James disse tutto ciò con sarcasmo, ma Louis capì che tutto ciò non era rivolto a lui, ma a Hugo con un messaggio ben preciso: rifletti un po’ prima di parlare. Ma quel messaggio era come la pioggia che scivola via dai vetri delle finestre. La ballata di Bob Dylan scivolava via dai vetri incrinati del cuore di Hugo, come le gocce della pioggia scivolano via dai vetri delle finestre.

Per rompere il disagio che si era creato coi versi declamati sarcasticamente da James, Charlotte disse con disinvoltura: “Siamo un po’ tutti poeti, in fondo” e mise la mano sotto il braccio di Louis. “Vieni, andiamo in casa” gli disse sorridente. Poi ricordò la domanda che Louis le aveva fatto al suo arrivo, allora scrollò le spalle con indifferenza e disse: “Mia madre non è in casa. Come sempre in queste occasioni, lei o va al mare o si intrufola in qualche istituto di bellezza per ricostruire qualche pezzo avariato… Beh, scusami, ma proprio non ho potuto fare a meno di dire così! Vieni”.

Hugo non aveva raccolto un bel nulla dalle parole sarcastiche di James. Hugo era il classico uomo di poco spirito e come tale pensava fosse venuto per lui il suo momento magico: il momento della raccolta delle fragole, in inverno. Così disse con estasi: “Romanticismo!”. Ma subito si fermò guardandosi intorno: tutti i visi rimanevano immobili e nessun turbamento sconvolgeva la natura. Le foglie dei tigli restavano immote, il ruscello scorreva quieto tra i prati e i boschetti, le cicale ci davano dentro nascoste nei biancospini. Tutto procedeva secondo copione: gli occhi chiari delle donne si tuffavano nel buio degli occhi degli uomini e vaghe malizie s’intrecciavano a tremori ammaliatori. Brillavano le pelli, restavano appiccicati alle fronti i capelli ribelli, e negli altri campi da golf – tutte le ville intorno avevano un campo da golf –, eleganti signore e impettiti signori battevano le palline con le mazze adatte alla battuta, poi s’incamminavano in ordinata fila verso il punto dove la pallina era caduta, procedendo con le teste ben piantate sui colli rigidi e calzando grandi cappelli variopinti sugli occhi per ripararsi dal sole accecante. Nessuno portava in spalla il saccone delle mazze: non era di loro competenza! Arrivati sul punto di caduta della pallina, pescavano dal saccone il numero giusto della mazza – ma quanta sofferenza per la scelta giusta! –, poi, zac sulla pallina, e via per una nuova camminata sul green a testa alta, come guerrieri di re Artù.

I poveri restavano nelle baracche a cercare l’oro delle steppe, le belle donne mettevano in bella vista, pudicamente, tutto ciò che c’era da vedere, gli artisti riposavano sotto qualche ciliegio saccheggiato. A Coney arrivava sempre più gente dalla metropoli...gente… gente… gente…, e il sole si oscurava sulla sabbia dei sogni. Nelle sale da ballo i fiati premevano sugli ottoni delle trombe , le bocche cantavano, le pianole si accordavano coi sax, i clarinetti e le batterie per dare sfogo, con passione, ai dolci sussurri d’amore. Le bocche cantavano, ma baciavano anche, e gli occhi si spegnevano nelle melodie dei blues. Fraseggiavano dita abili sulle corde delle chitarre, occhiali neri coprivano antiche rabbie di cantautori emergenti, i nuotatori inesperti lanciavano smorfie adoranti alle acque putride del mare e i pattinatori dei giochi invernali salivano fino ai laghi polari per gli allenamenti. C’era gente che dormiva in letti di ghiaccio, altra che meditava sulla sua solitudine, altra ancora sulla sua insicurezza, oppure sulla sua disperazione. Qualcuno meditava un’evasione totale dalla solita vita, e poi: perché chiedere scusa, sempre? Perché non poter ammazzare il tempo come meglio si vuole? Perché preoccuparsi poi tanto della propria immagine non proprio esaltante? Inutile era pensare alle fucilate del caro prossimo! Inutile guardarsi in bocca e piangere perché tre denti sono irrimediabilmente perduti! Inutile nuotare nella merda! Oppure aver paura della lunga strada in salita, col piede rotto nella scarpa! Ma che senso avevano tutte queste cose, se non si aveva il coraggio di credere nelle proprie risorse di ripresa? E le strette di mano? Oh i riti umidi dei denti di elefante e dei labbroni di macaco! Impeachment… qualcuno ride, qualcuno sta a guardare serio i reduci al ritorno fatale dalla guerra: adesso sì che per loro incomincia la vera guerra! Sì, abbraccino pure con affetto sincero i loro cari e versino lacrime di gioia! C’è sì del materiale d’amore per piangere di gioia! Via quelle trincee da incubo! Via quei tiri traditori di bazooka! Romantiche, quelle lacrime sincere! Strappa lacrime, quelle dive in bella posa fotogenica per i flash!

Sì, romantica ogni cosa, e la vita va!

Fu proprio in quel momento di confusione e di riflessione che Hugo pronunciò con fermezza la parola magica: “Romanticismo”!. Ma, in apparenza, non provocò nessun trauma alle coscienze del gruppo. Soltanto in apparenza, perché il succo di ciò che ognuno del gruppo pensò di Hugo in quel momento, fu: gonzi, tu e il tuo Romanticismo! Perché non vai a dirlo a quelli che lavorano nelle fonderie o sotto la terra nelle miniere? Tu, stronzo e tronfio!

Però: tranquillo! Anche noi siamo stronzi e tronfi come te, dunque tutto resta tra noi, ci puoi contare. Tu dì pure la parola magica “Romanticismo” in tutto relax, noi facciamo finta di nulla, facciamo silenzio, e tu, se sei quell’intelligentone che credi di essere, non dovrai sentirti per nulla deluso per il nostro comportamento di indifferenza alla tua trovata del secolo. Tutto tra noi si risolve sempre per il meglio! Ognuno pensava più o meno così e solo Louis, il fuoriuscito del cast Charlottiano, disse in tono pacato e sottovoce: “Il mio amico Stephen dice che nella sua palestra questo vocabolo strano – questo strano Romanticismo – non l’ha mai sentito. Dice che una volta si è messo d’impegno e l’ha perfino cercato tra le leve di sollevamento e tra i pesi, e, dice, l’ho perfino cercato tra i fiati e i sudori dei miei palestrati, ma…nulla! Non ho trovato nulla: né la sua presenza né la sua essenza. Dice ancora – e ci pensa e ci ripensa su per un pezzo – forse erano i bicipiti o i cigolii delle scarpe o i battiti dei cuori troppo sotto sforzo a farmi andare fuori pista, ma, dice, ci ho messo tutta la mia buona volontà a cercarlo – e anche tutta l’attenzione! –. Eppure, nonostante tutti i miei sforzi profusi, quella parola magica – quel “Romanticismo”! – proprio non l’ho mai trovato né sentito pronunciare in tutti i trenta giorni di seguito in cui mi sono dato da fare per scovarlo. Nulla, assolutamente nulla! Nessun segno, nessuna traccia, nessun sospiro, nessun anelito di questa antica follia del tempo e dello spazio”.

° ° °

Il gruppo stava radunato sotto l’olmo, l’ombra dell’olmo raggiungeva la casina del ricovero delle mazze e del vestiario da golf, il campo da golf si espandeva dalla casina fino al limite della costa, da dove partiva l’ultimo boschetto che discendeva gradatamente fino alla grande scogliera. L’aria marina veniva filtrata dai pioppi in circolo intorno al boschetto di larici e betulle; i pioppi erano tutti in fila indiana e si distanziavano nella stessa misura. Il primo pioppo sfiorava la prima casa sulla scogliera, l’ultimo toccava il culmine della gobba, pietrosa e brulla, incombente sui larici e le betulle. Gli occhi di tutto il gruppo erano fissi sui pioppi, ed erano immobili quasi vitrei: ognuno teneva stretto in mano il bicchiere con succo di frutta esotica e ognuno tratteneva il respiro per l’ultimo profumo d’azalea.

Il grande vuoto era vicino.

Le diafane betulle erano anche disseminate un po’ ovunque sulle dolci ondulazioni del green e segnavano il limite del fairway. Louis guardò il fairway e vide che qualche passero vi beccava sopra qualcosa.

Capitolo IV

Il locale poteva essere visto come un locale dell’inferno. Qualcuno aveva orecchie come lanciafiamme e c’era chi aveva preso un whisky e il whisky aveva preso fuoco dentro il suo esofago e lui aveva mollato il bicchiere e il liquido dentro il bicchiere frantumato si era trasformato in lingua di fuoco, pronta a far esplodere tutto il locale. Spegni quel maledetto fuoco! Ma che c’hai messo dentro questo whisky: forse della dinamite? Vergognati Tommy! Ma non sai leggerla l’etichetta? Sopra c’è scritto: di puro malto scozzese… scottish 9 years old, mica scherza l’etichetta! Sai leggerla o non sai leggerla! Ma non la vedi la lingua di fuoco che mi sta bruciando i piedi? Ma cosa ti sta bruciando i piedi! Tu sei allucinato, hai le traveggole, è il caldo che ti dà alla testa! Ma non lo vedi? Lo sto vendendo ai clienti da questa mattina e nessuno si è mai lamentato. Va, che sei un bell’elemento! Perché non trasferisci il tuo culo da Gerry qui di fronte? Dai, prova! Vacci e poi vienimelo a dire se il suo whisky prende fuoco o no. Vai, Charlie del malaugurio! Se stai ancora un po’ qui, mi fai perdere tutti i clienti con le tue allucinazioni. Dai: vai! E giù tutti a ridere, e Charlie che guarda tutti con la bava alla bocca e continua a battere i piedi sulla lingua di fuoco, che nessuno vede. Charlie bestemmia! Il riso di tutti i clienti del locale continua all’infinito, allora Charlie perde la pazienza, mette una banconota sostanziosa sul bancone e se ne va senza aspettare il resto. Il resto è per le mie allucinazioni, grida a Tommy. E voi, – guarda tutti col bianco degli occhi – andate tutti alla malora!

E fuori? Fuori c’è il caos come dentro e forse ancora di più. Gerry sta richiamando un cliente: “Ma non vede? Lei se ne sta lì col tavolino sui binari…ma non vede?”. “Ma se l’ho trovato qui, il suo tavolino! Mica gliel’ho messo io!”. “E va bene: ma non è una buona ragione per stare lì sui binari. Il tram può passare da un momento all’altro, e lei cosa fa? Me lo dice, lei, cosa fa? Si sposti, la prego!”. “Ma se il tram arriva: addio al suo tavolino! O vuole fermare tutto il traffico!”. “Certo che no!”. “E allora: cosa aspetta a spostarlo? Vuole che glielo sposti io? Me lo paga lei il servizio?”.

Animi fortemente accaldati, non più in linea! Passare, transitare, investire, sfracellare, uccidere. Ha capito adesso? Lo sposti subito quel tavolino! Lo vede che il tram arriva? Ma guarda un po’ cosa mi tocca fare oggi! Adesso dovrei sollevare questo tavolino e spostarlo. Ma che: oggi siano diventati tutti matti? Io sono qui per bermi un’aranciata in santa pace, e il barista mi dice: si sposti da dove è seduto, sollevi il tavolino e lo trasporti da qualche altra parte. No, oggi qui è proprio un manicomio! Matti da legare! Sto caldo, se dura ancora un po’, farà saltare in aria tutta la città! 49 gradi segnava oggi l’orologio al quarzo del palazzo del conte! Alla fine è scoppiato! Prima sono sparite le luci delle ore, poi la data, poi i gradi della temperatura. Tutto nero, tutto bruciato, un solo cerchio nero… affumicato! Un lanciafiamme ha picchiato dentro quel cerchio: cosa mai vista! Un caldo così, mai sentito, e ho ottant’anni!

Silvia e Donald erano lì, da Gerry, già da un bel pezzo e Silvia era al suo terzo whisky e sonnecchiava. Quando sentì nominare il palazzo del conte rizzò le orecchie, fece un piccolo rutto, guardò il cliente che aveva nominato l’orologio fulminato e scrollò la testa. Barba grigia lunga di qualche giorno, questo non esce mai di casa. Adesso ha deciso di venire al bar a raccontare frottole: ne ha di tempo da vendere! Ne ha di noia da togliersi di dosso! A casa deve starci male ben. E già, è così! Lui, a casa, è solo come un cane, gli altri se ne sono andati al mare o ai monti e a lui è partito il cervello.

Silvia sonnecchiava e farneticava con se stessa. Almeno io ho Donald; lui è un ferro vecchio, però ha un cuore grande così! Silvia, mi raccomando, tienilo d’acconto questo vecchio! Poi ebbe un soprassalto in tutta la sua persona. Quel conte di m…! Guardò di sottecchi il cliente, quello del caldo e dell’orologio del conte, e si augurò che aggiungesse che oltre all’orologio andato in fumo, anche tutto il palazzo fosse andato distrutto, anzi ancora di più! Fosse diventato una torcia umana anche il proprietario! E dai, parla babbeo! Dillo che il conte è bruciato insieme al suo palazzo! Ma questo, no! Questo, adesso, se ne sta lì tutto in silenzio a guardare le macchine che svoltano sulla rotonda: ma che ti dicono queste macchine? Ho capito! Ti vedo solo come un cane e a casa non hai nessuno. Allora vieni qui per vedere il grande fiume che scorre tra le rocce del canyon fino alla diga, fino allo sfioratore, fino alle gallerie scavate nelle rocce. Altro che incenerimento del palazzo del conte! Questo, fra poco, mi fa la pipì davanti, non la tiene più, mi piscia sui piedi. Eh… la prostata! Sempre così con i vecchi! Noi poveri… diamo l’illusione di fare qualcosa di buono, poi qualcosa in noi non va mai per il verso giusto e combiniamo sempre qualche patatrac. Noi poveri non abbiamo criterio, è sempre così! Tutto è banale intorno a noi. Dai, Silvia, datti una mossa e non pensarci più su tanto.

Ragionava Silvia? Beh, in quel momento proprio no: l’alcool ormai viaggiava in tutti i suoi organi, dalla trachea alla vescica. Silvia, adesso, era prossima al delirium tremens, alle sue allucinazioni catastrofiche.

Ma non era stata sempre così. In lei c’era stato altruismo e sentimento. Un tempo, lei faceva pratica all’ufficio collocamento, era un’impiegata in prova, e sarebbe entrata senz’altro a far parte dell’ufficio in modo definitivo. Stando allo sportello della disoccupazione, aveva notato Donald, tranquillo nella fila dei disoccupati, col cappello in testa, il soprabito sul braccio e la pipa tra le labbra – un vero signore all’inglese! Appena l’aveva visto, in lei era entrata tanta tristezza. Poi aveva fatto una riflessione con se stessa e aveva preso subito una decisione: lo sposo e lo aiuto, lui da solo non ce la farà mai. Già allora, e come sempre, lei si era lasciata vincere dal sentimento impulsivo, quello che non porta mai a nulla di buono. Così aveva lasciato l’ufficio, aveva sposato Donald e si era abbassata a fare lavori umilianti, lavori che non avrebbe mai pensato di fare: lei che veniva da una famiglia piena di dollari! I dollari, in quella famiglia, erano stati sudati e strasudati, i dollari non erano piovuti dal cielo come la manna. Lei voleva sposare un buono a nulla? Okay, nessun problema! Se tu vuoi così, la libertà è il nostro credo, disse la famiglia. Però… di borsellini aperti neppure l’ombra! Ognuno per la propria strada, la maggiore età ce l’hai.

Lei aveva fatto tutti i lavori più umili, poi era entrata nel palazzo del conte come governante. Intanto Donald entrava con un piede in una ditta e ne usciva con l’altro: mai una che andasse bene! Ma lei si dava sempre da fare per sfruttare i personaggi influenti che bazzicavano la casa del conte e alla fine Donald era stato piazzato bene come contabile nella Società Elettrica Nazionale. Finalmente un lavoro fisso e stabile per Donald, ma lei non aveva lasciato la casa del conte. Lei adesso ricopriva il ruolo di segretaria e donna di fiducia del conte. Donna di fiducia, segretaria, consigliera, infermiera… Lei si fermava lì, non andava oltre. Tanto, il conte non s’accorgeva neppure di lei e lei sopportava bene Donald, trascurandolo. Lei restava sempre nella casa del conte, il conte veniva sempre prima di ogni altra persona o cosa, eppure lei non aveva mai tradito Donald. Tradirlo? A dire il vero, non c’era proprio nulla da tradire: a Donald interessava soltanto fare il contabile. I sentimenti, l’amore, erano cose da chiudere a chiave nel cassetto. Lei sperava, lei sognava, lei restava in silenzio nell’ombra. Aspettava un richiamo del cuore del conte, ma il richiamo era rimasto muto e la vita, a poco a poco, era volata via. Adesso l’amore era diventato odio: nella cantina di vini pregiati del suo cuore, tutti i vini si erano tramutati in aceto. Donald c’era pur sempre, ed era la ruota di scorta che si conserva nel bagagliaio e non si usa mai. Dunque per Silvia restava aperta la strada dell’alcool e l’alcool, alla fine, era rimasto l’unica soluzione. L’alcool, un assassino? Balle! L’alcool era un alleato contro la noia e la malinconia. L’alcool le faceva dimenticare perfino la vecchiaia e Donald si curava poco del grado alcolico del suo fiato. Una gradevole soluzione, quella dell’alcool, una compagnia fidata e sempre presente. Se lei voleva che la sua intuizione si allargasse a ogni cosa, era sufficiente bersi tre whisky e tutto dentro la sua mente prendeva fuoco e l’intuizione si allargava come per magia. Una maga: ecco, adesso lei era diventata una maga! Gli appannamenti, le nebbie davanti agli occhi, venivano messi da parte; lei non aveva tempo da perdere per simili quisquilie. Una maga… sì, una maga! Dentro di lei si erano sviluppati poteri metapsichici: tutto era più semplice, e la sua spiccata intuizione nell’azzeccare le cose, la mettevano in una posizione di privilegio. Il miglioramento della sua vita non era previsto, neppure con Donald. Donald era nato con i conti in testa e tutto, per lui, si riduceva a un ordinato registro di partita doppia: mangiare, dormire, russare, camminare, ragionare, guardare la televisione, andare a comprare la carne, il pesce, la mortadella, il pane e le patate. Tutto dentro il registro della partita doppia, tutto nel “dare e avere”, tutto con il pareggio finale del “dare e avere”. Era un bello spasso vivere con Donald! Bravo: questo sì! Uomo diligente, uomo ordinato, uomo fidato!…Woodstock stava dall’altra parte del globo terrestre, i canti del Sexual freedom for all si perdevano nelle onde della stratosfera, nulla arrivava lì, dove lei e Donald vivevano. Sexual Freedom? No, grazie! D’altronde, con Donald non c’era bisogno di questa libertà: nessun pericolo! Religiously Freedom for all? Sì, religiously freedom! Donald aveva fede ed era credente, era osservante ed era praticante. Anzi, per la verità, era un po’ troppo osservante e un po’ troppo praticante; si sarebbe potuto dire: era osservante e praticante in modo alquanto ossessivo! Ma poi: che male c’era vedere Donald genuflettersi, giungere le mani, alzare gli occhi all’altare, pregare e fare l’eco alle omelie dell’officiante! Di contabili, in fondo, se ne poteva fare a meno, ma di Donald osservante e praticante no. Meglio un Donald osservante e praticante! Di Donald contabile era giunta l’ora di chiudere bottega. Amen.

Palloncini in festa… libertà….libertà… libertà… Ma via, siamo seri! Forse tutto ciò può andar bene per i Muppet di Oz e Henson. Ma sì, ma certo, con quei cosi bizzarri e variopinti tutte le libertà andavano bene: i Muppet erano la gioia dei bambini e i bambini sono il futuro dell’umanità. Ma la fiducia, il concetto del possedere, dell’immaginare, del cogliere l’attimo della vita: qui sta il rebus! Donald, alla fine, era la soluzione. Proprio così: era la soluzione! Lei, con Donald, poteva vivere il suo tempo; il tempo di poter catturare tutto ciò che è buio dentro l’essere umano, selezionare impulsi e desideri, grida e silenzi. Con Donald si potevano intuire finzioni, slanci ed emozioni nella natura umana: era il suo portafortuna! Lei, con Donald, non aveva dubbi sulle stravaganze che manipolavano l’essere umano. Con Donald, l’essere umano filava via con scioltezza, offriva eccezionali sicurezze, toccava punte estreme di indecenza. Insomma, il metabolismo dell’essere umano esplodeva, finalmente! Via tutte le finzioni, via tutte le indecenze: l’essere umano sfuggiva a tutte le leggi della sperimentazione e la scienza era impotente a spiegare.

Empirismo, e giù una risata! Voi fingete, cari signori! E’ empiricamente certo: altroché! Altroché che voi sapete arpionare con abilità empiricamente certa le vostre prede! Altroché! E’ certo che il flusso dell’inondazione umana travolge e i ghirigori nelle chiuse creano confusione. Cari signori che fingete: voi vincerete ogni battaglia! Questo sta scritto sui libri del cielo e questi libri sono ben custoditi negli archivi dell’azzurro.

Non c’è urlo nell’anima. L’urlo nell’anima è soltanto il vuoto e l’anima aspetta il suo urlo che non arriverà mai.

Silvia guardò di sottecchi l’ottantenne e ne valutò sicurezze e indecenze. Lo vide che ansimava e sudava, e col fazzoletto spiegazzato si asciugava il grasso e le rughe. E’ triste ciò che fai, pensò Silvia, sorridendogli con gentilezza. Ti passi, questo straccio giallastro, prima sul davanti del collo, delicatamente! Poi vai su sul naso, sempre con delicatezza! Poi vai ancora più su e sei alla fronte, e qui picchietti e soffi: sei proprio l’immaginetta del brav’uomo che fa tutto da sé! Ma guarda un po’ cosa fa costui adesso! Adesso dispiega bene il suo fazzoletto giallo e lo strizza ben bene. Ma guarda un po’ cosa ci vuole per farsi rivoltare lo stomaco! Basta guardare quest’uomo! Lui si fa gocciolare sui piedi il sudore raccolto, e tu gli vomiti addosso. E’ proprio uno spasso vederlo! La furia umana! Capiterà a tutti, prima o poi, di raccogliersi il sudore dalla faccia e la m…. dal c… – Silvia, moderati! Capiterà di mollare i freni: tanto quelli saranno rotti e… “Il mondo rotola, Donald!” disse forte. “Rotola… rotola senza pietà. Quando i vecchi rompono i freni, il mondo rotola. E’ una tragedia!”.

“Ma quando la finirai con le tue fantasie”, disse seccato Donald. “Senti, alziamoci e andiamo a casa!”.

Silvia guardò tra i tigli le ombre dei lunghi stivali bianchi che sfioravano le pallide luci del viale e restò per qualche attimo fissa sulle sue dita intrecciate sulla bocca. Poi fece un gesto di stizza nell’aria con le mani ritornate libere e disse sottovoce: “A una soluzione bisogna pur arrivarci, Donald! Dai, fammi vedere che uomo sei: ordinami un altro whisky, poi ti prometto che ti seguirò ovunque”. Battè il bicchiere vuoto sul tavolo. “Ordinami un whisky, Donald!” gridò. “Tu sai che questo è la mia medicina: tu lo sai! Tu sai che in farmacia non vado mai: questo è la mia medicina!”. Indicò il bicchiere vuoto. “Lo so,” disse con un sospiro, “questo è veleno! Lo so! Altroché che lo so! Ma , per me, è soltanto medicina”.

Fu lei a ordinare il quarto whisky.

Nell’attesa, guardò Donald con dolcezza. No, tu non puoi capire, Donald! Due più due fa quattro: non può che fare quattro! Le tue montagne di libri contabili ti hanno empiricamente assicurato (bello quel “empiricamente”, ma la tua esperienza contabile te lo assicura)… Beh, ti dicevo, i tuoi libri contabili ti hanno assicurato che due più due più due più due… Cos’altro c’è di più entusiasmante nella vita? Il tuo treno del due più due ti porta al risultato finale, e il risultato finale è sempre esatto. Sono le mie intuizioni che fanno deragliare il tuo treno.

“Tutti matti” disse scrollando la testa. “Mi sa che se andiamo avanti così mi salvo solo io”. Scrollava la testa e la muoveva di qua e di là come una trottola; era come se stesse ascoltando un concerto di Gershwin: le sfarzose melodie degli archi e le note pazze del piano mettevano in moto tutta la sua bramosia interiore. Lei pensava spesso a Gershwin, ma ormai chi lo conosceva? Lei sola era in grado di catturarne il genio musicale pazzo! Sì, pensava sempre, tutti dicono che è un genio! Lo dicono con la bocca: vorrei proprio sapere chi non riconoscerebbe Gershwin un genio musicale! Ma il cuore? Chi lo dice con il cuore? Con la bocca, tutti! Con il cuore, nessuno! Genio? Il genio viene dal cuore! Tutti dicono di Gershwin: è un genio! Poi, però, tutto finisce lì e questo non basta; no, questo proprio non basta! Il genio non lo riconoscono i libri che parlano di lui; il genio in lui si riconosce ascoltando la pazzia della sua anima che ha prodotto una tale misteriosa musica! Il mistero, ecco ciò che conta saper produrre! Ma tu sai cos’è il mistero? Mistero lì e mistero là, mistero su e mistero giù: ma sai che cos’è? Vedo che stai zitta, dunque non lo sai! Te lo spiego io cos’è il mistero! Il mistero è quella luce che produce un’emozione tale che non sai neppure tu valutarne la portata. A un certo punto, tu ti accorgi di gridare, piangere, ridere, abbracciare, baciare, capire, perdonare, amare tutta l’umanità; eppure ancora non sai il perché! Ecco, sentirti vicino a tutta l’umanità e non conoscerne la causa: questo si chiama mistero. Come vedi, io so spiegarti il grande mistero della vita, ed è per questo che so cos’è l’ingratitudine – dimentica cos’è il genio, adesso, concentrati tutta sull’ingratitudine (Silvia era un fenomeno per parlarsi addosso, lei diceva a se stessa che solo così riusciva a concentrarsi e a capire qualcosa di sé e della vita). L’ingratitudine ti rompe le ossa e se non trovi subito il colpo gobbo della pazzia non hai scampo. Il colpo gobbo della pazzia, capito! Trovarlo subito questo colpo gobbo della pazzia!

Lei guardò il bicchiere di nuovo vuoto e gridò al marito: “Donald, ordinane un altro! Ne voglio ancora un altro, poi basta!”.

“Ne hai bevuti quattro! Quattro: hai sentito bene! Adesso andiamo a casa”.

“Dopo il quarto, vado liscia come l’olio: tu lo sai! Se vuoi la mia compagnia in quella strada buia che facciamo per andare a casa, devi ordinare. Ti va, forse, di portarmi a spalla in mezzo a tutti quei clacson? Ordina!”. Lo ricatto questa specie di uomo, pensò lei, e intanto mi bevo il mio quinto whisky. Alla tua salute, buono a nulla! Ti sto attaccata al culo per poter bere, ingozzarmi e insozzarmi. Donald, tu non sai quanta forza mi dai! Io acquisto la forza da te, proprio perché tu sei un debole, mi lasci fare tutto quello che voglio e alla fine io mi sento a posto. Sono proprio una baldracca e tu non te ne accorgi neppure. Donald, fatti furbo! Ma dovrei essere io a dirtelo?

“Un altro ancora, Donald!” disse con autorità, dopo aver tracannato d’un fiato il suo quinto whisky. “Stavolta è per davvero: lo bevo e ce ne andiamo”.

“E con questo fanno sei!” disse Donald, facendo un cenno a Gerry con il pollice riverso all’ingiù. “Certo che poi ce ne andiamo” disse sarcastico. “Che ci facciamo qui se tu non bevi più?”.

Gerry arrivò con la bottiglia del whisky scozzese invecchiato di 9 anni. “Vi lascio la bottiglia”, disse con sgarbo, “e un’altra volta prendete subito una bottiglia! Vi conviene, vi faccio lo sconto. Voi ve la tenete davanti e contate i bicchieri. Alla fine mi dite quanti bicchieri: di voi mi fido!”. Gerry stava davanti a loro diritto e parlava a loro serio.

“Ottima idea, Gerry” disse Silvia. “Hai superato te stesso, hai illuminato il mio cuore. Con te si ragiona sempre: hai capito, Donald? Teniamo davanti la bottiglia, ne bevo, poniamo, sette, e ne paghiamo sette. Contabilità esatta! Una bomba di contabilità! Viva il contabile Donald Merton, viva la sua esatta contabilità! Nessun problema, Gerry! Donald e io abbiamo capito tutto. Ci teniamo davanti la bottiglia, contiamo i bicchieri che bevo e: tu ti fidi di noi! Diciamo quattro, e tu ci credi; diciamo otto, e tu ci credi; diciamo…”. Silvia si versò il sesto bicchiere di whisky, poi, anziché dire “andiamo”, si assestò meglio sulla sedia e si tirò un po’ su la scollatura.

“Era ora” disse Donald, guardando le due orecchie da cocker spaniel che, poco a poco, affondavano nel bicchiere insieme al liquore. “Sei un orrore! Se le tiri fuori ancora un poco, sembri proprio una di quelle là fuori con gli stivali bianchi”.

Silvia alzò le spalle con stizza, attaccò il sedere ben bene alla sedia, si rassettò ancora meglio il busto e disse a Donald mettendogli l’indice sul petto: “Adesso ti dico come la penso io”. Guardò di traverso Gerry e gli disse: “Tu, Gerry, puoi ritirarti; ma lasciami qui la bottiglia”. Strabuzzò gli occhi per darsi un’aria da imbonitrice.

“Che dici?” disse infastidito Donald.

“Dico che quella non si è suicidata da sola. Dico che in tutta quella faccenda c’entra la psicologia. Ti dico che lei non ha fatto tutto da sola! Lo so che la legge non può accusare nessuno perché il veleno l’ha bevuto lei e nessuno gliel’ha messo in bocca, ma…”.

“Si può sapere chi è quella?”disse con rabbia Donald.

“Ma è la Betty, no! Di chi vuoi che parli se non della Betty? Te lo dico io: alla Betty hanno messo una tale paura addosso che lei, alla fine, si è ammazzata. E’ stata obbligata a uccidersi, questo te lo dico io con certezza, e se uno lo obbligano a uccidersi (perché uno, se gli metti dentro l’essenza del ricatto morale, prima o poi si uccide!); ebbene, se uno lo si obbliga a uccidersi, si commette omicidio: questo è certo!”.

“Smettila!” impose Donald guardandosi intorno. “Fai silenzio! Non lo vedi che non siamo soli? Se qualcuno ti sente! Vuoi forse andare in prigione?”.

“Ti dico e ti ripeto che quella si è ammazzata perché l’hanno obbligata” disse ancora più caparbiamente lei, senza smorzare il tono della voce.

“Fai silenzio ti dico! Vieni, andiamo via!”.

“Ti ripeto ancora una volta che l’hanno obbligata, me l’ha detto Genny, la moglie di Edmund”.

“Tu sei pazza! Quella non ti ha detto proprio un bel nulla!”.

“Genny mi ha detto proprio tutto, invece. Ti dico che quella è gente pericolosa”.

“Andiamo via! Tu non sai più quello che dici, il liquore ti ha frantumato il cervello in mille pezzi. Adesso stammi bene a sentire, allarga bene le orecchie: fin che bevi io faccio finta di nulla, ma se vai in giro a raccontare questa storia, ti giuro che ti ammazzo, capito! Betty si è uccisa, e basta: è finita lì, sono fatti suoi! Se uno decide di farla finita con la vita sono affari suoi privati, privatissimi, capito! La volontà di tenersi o non tenersi la propria vita è un fatto del tutto personale e nessuno può interferire su questo. Uno può tenersi o non tenersi la vita quando e come gli pare e piace. Mettitelo bene nella zucca, hai capito! A Betty non andava più di soffrire quel male che aveva in testa e se l’è tolto come ha voluto lei. Neppure il prete poteva impedirglielo, ricordati bene!”.

“Donald, non ti agitare. Adesso non tirare fuori i preti, loro non c’entrano un fico secco. Non ti agitare! Per questa cosa, c’entra la gente che sta là dentro. Ti dico che quella gente è cattiva e pericolosa… anche spietata! Qui non c’entra neppure il conte, te lo dico perché lo metto sempre in mezzo quando dico qualcosa di losco. Qui lui non ha nessuna voce in capitolo.

E’ Genny che dice che l’hanno obbligata a suicidarsi e se lo dice lei c’è da crederci. Genny dice che Betty era un po’ paranoica, che vedeva la gente un po’ a modo suo e che non aveva nessuna forza di volontà. Dice che lei subiva l’influsso del più forte di lei e che là dentro tutti erano più forti di lei. Così si è lasciata andare e ha fatto quello che ha fatto”.

“Adesso basta! Andiamo!” gridò Donald e si alzò. “Bisogna che non ti porti più qui” gridò ancora più forte, ballando sopra di lei come un velaccio nella tempesta.

“Il whisky mi fa dire la verità, credimi” disse Silvia restando seduta. Lo guardò con calma dal basso all’alto.

“Adesso però andiamo a casa”. Donald si era ricomposto e non ballava più.

“Ancora una cosa, Donald. Lei lo amava e loro non volevano perché non era dei loro; insomma, quello non faceva parte dei loro meccanismi e lei non doveva amarlo. Ma lei era testarda e quando si metteva in testa una cosa – in questo caso nel cuore, ancora più testarda! – nessuno poteva farle cambiare idea”. Silvia guardò Donald con caparbia insistenza. “Dimmi, Donald,” disse, “chi può vincere l’amore? E’ la forza, è la prigione, sono le minacce… No, Donald! L’amore può vincerlo soltanto il veleno. Lo capisci adesso? Lo capisci fino a che punto può portare la superbia? La superbia è peggio della lussuria perché non guarda in faccia a nessuno. Per quella gente, per i Gitton, la lussuria è soltanto un groviglio di piaceri carnali, un desiderio smodato che lascia il tempo che trova. Peccato capitale la lussuria? Loro, se glielo dici così, si sbellicano dalle risa.

No, Donald, è la superbia il peccato capitale. L’unico peccato capitale! E’ l’eccessiva stima di sé, è l’esagerata ostentazione della propria superiorità, è l’insensatezza di dire: vai via da me vermiciattolo, lurido e puzzolente!”.

“Smettila!” la redarguì Donald.

Poi la prese sotto le ascelle, la strattonò su e giù, si tenne ben piantato al suolo, ma Silvia resistette, restò appiccicata alla sedia, tenne le mani agganciate alla spalliera. Sarebbe stata una scena famigliare degna d’attenzione, e tutti a guardarli, a sbeffeggiarli, a spingerli a continuare a fare il tira e molla: Tu, su! Tu giù! Tu, in alto! Tu, in basso! Forza a chi vince! Invece la scena a nessuno interessava, con quel caldo infernale che c’era!

Silvia continuò a mitragliare Donald con le parole: “Neppure a chi ti è parente, guarda in faccia la superbia! Io ne ho viste di cose là dal conte, e ti dico che la superbia non sta né nei numeri che tu hai maneggiato né nel denaro che nascondevano i tuoi numeri né nel fumo dei camini. La superbia è proprietà esclusiva di chi non ha cuore. Chi non ha cuore possiede soltanto veleno: niente amore, soltanto veleno!”.

Donald cercò di far leva sui piedi per tirarla via dalla sedia, ma non ci riuscì.

“Solo veleno, Donald!” gridò Silvia. “Quelli dei palazzi sanno di averlo e lo sanno usare se gli vai contro… Va bene, Donald! Adesso non tirare più, ho finito. Adesso mi alzo e andiamo a casa.

Ma sì, hai ragione: che ci facciamo ancora qui? Li ho bevuti, sì o no, i miei quattro, no cinque, ma che dico: sei whisky? Sì che li ho bevuti! E allora possiamo andare a casa tranquillamente. Magari, se mi dai una mano nel tirarmi su e mi tieni una mano sotto le ascelle quando camminiamo, durante la strada ti dico alcune cose che ho imparato dal conte.

Vedi, Donald, stasera è la sera proprio delle streghe. Loro si sono svegliate all’improvviso e hanno deciso di svelare tutto il marcio che sta nei grandi palazzi. Gente perbene, chi abita nei palazzi! Bene. Allora te ne dico io di cose storte sulla gente perbene! Se apro il sacco, soltanto il diavolo sa contarle. Mi vengono le vertigini soltanto a pensarci. Andiamo via, Donald! Portami a casa, qui mi viene paura. Qui, adesso, ho solo paura”.

Capitolo V

Asfalti infuocati, il fresco era nei pensieri della gente e in questa illusoria frescura le ombre si cercavano e si sovrapponevano per annullarsi nel buio. Così era la notte della metropoli, dentro quel calore di pece che non si arrestava e non dava segni di arrestarsi. Era l’estate che avrebbe fatto epoca e sarebbe stata la protagonista della storia meteorologica, l’evento climatico mai accaduto, la rivoluzione delle correnti e delle proiezioni isobariche in cui tutti morivano e nelle strade c’erano cadaveri a camionate. Le pompe funebri stavano all’erta giorno e notte, dappertutto era un’ecatombe, era come la peste polmonare e le incornate dei diavoli sulle pelli dei poveri cristiani non si contavano più. Era una carneficina peggio che in guerra, peggio che il colera, peggio che l’assalto delle cavallette. Tutti morivano, tutti fuggivano, tutti gridavano e fornicavano e si abbracciavano e si accapigliavano e ballavano e giocavano al cricket mandando a sbattere tutte le palle e tutte le mazze sugli occhi degli spettatori inorriditi da tanta crudeltà. Beh, forse non era proprio tutto così – si sa che i burloni tendono sempre a piazzare notizie che poi risultano poco attendibili, e tendono anche a esagerare non poco, ma noi siamo fiduciosi e andiamo a pescare con animo leggero le notizie dai loro racconti. Poi interveniamo con cautela, facciamo i censori e facciamo anche un bel taglio a ciò che i burloni dicono e scrivono. Quel che è certo è che nessun ottantenne ricordava un caldo simile. Per questo evento eccezionale, epocale, i sussurri salivano dolorosi dai prati, le sottili spire delle inquietudini sorgevano all’improvviso come lingue di pece, voci e canzoni fuggivano negli uragani delle risa. Era la vita notturna delle anime alla spasmodica ricerca di un angolo di pausa: ma quest’angolo di pausa esisteva per davvero? Tracce di sorrisi s’avvertivano nel buio dei prati, la città respirava forte e quel mostro asmatico di calore lanciava le sue fameliche fiamme in faccia a tutti. Tutto giaceva nell’imprevedibilità.

Silvia e Donald stavano per essere assorbiti dalle luci astratte, il buio dei prati pulsava, i binari dei tram prendevano fuoco. Ancora un poco, ancora parole di buio, ancora sospiri sospesi nel ventre molle dell’aria. Perfino dalle modanature a toro dei palazzi rinascimentali scorreva fumo di calore, il bugnato delle facciate trasudava e i conci degli archi a tutto sesto delle bifore raccoglievano falene impazzite di luna. Silvia e Donald proseguivano lenti e con affanno. L’alcool alla fine si faceva sentire in Silvia, lei aveva voglia di sdraiarsi sui binari, lei voleva farsi travolgere dal tram. Per Donald tutto era maledettamente difficile.

Per metterla in carreggiata la prese per un braccio. “Mi fai male così, stai attento!” protestò Silvia muovendo il braccio su e giù. “Se mi stringi così mi fai male. E molla questo braccio, cretino!”. Soffiò forte nell’aria. “Ma certo che ce la faccio!” disse con rabbia. “Ce la faccio e come! Sì, ce la faccio da sola a camminare! Non ho bisogno di nessuna balia, io!”.

Erano ormai quasi arrivati. “Sediamoci su quella panchina, Donald! Fermiamoci ti ho detto!”. La donna indicò una panchina arrugginita che spuntava dal verde dell’ultimo sentiero del parco, a pochi passi dall’imboccatura della via dove abitavano loro. “Ecco fatto!” disse la donna lasciandosi cadere sul ferro fresco. “Qui c’è perfino del fresco e io ho i pensieri più liberi. Vorrei dire tante cose, Donald, ma ho una tale confusione in testa”. Si guardò intorno. “Te la ricordi questa panchina? Ti ricordi quanto eravamo innamorati noi due abbracciati qui? Ti ricordi, Donald?”. Silvia adesso era inquieta: ascoltava in silenzio le voci delle inquietudini. “Si muore… si muore… si muore…” gridò. “Quante volte si muore? Donald, mi vuoi dire quante volte si muore nella vita? Io so che non si finisce mai di morire!”. Si mosse agitata sulla panchina e incominciò a borbottare: “Si muore sempre. Già ti svegli al mattino e senti dentro quel fascino di morte che ti avvolge. Mah! Forse è perché tu cerchi un misero tubero di patata nel tuo terreno e non ci trovi neppure uno stolone. Sai quanto ci soffri, povero della malora? Tu sei proprio uno stronzo! Tu non hai neppure una patata da mangiare! Sei uno stronzo” ripetè ghignando. “Scava con la vanga e le unghie, scemo!” continuò. “Chissà che ci trovi una patata dentro il tuo terreno. Che ci sei venuto a fare nel mondo, povero della malora! Tu vivi soltanto per farti prendere per il c… (rise!) dai ricchi”.

Rise ancora, sghignazzando con le gote piene. Intorno a lei c’era odore di alcool. Continuò a borbottare: “Bastava guardarli quei bastardi! Tutti in grigio intorno al tavolo rococò del conte. Bastava vedergli i nasi da Pinocchio che s’allungavano fino a toccarsi l’uno con l’altro. E i loro busti da mummie!

Sentirli! – Di questa feccia dobbiamo liberarci: troppe bocche da sfamare, troppi vizi, troppo vociare. E’ una vergogna! –. – Come fare a liberarcene? –. – Ricordi quando la si caricava sulle navi e la si lasciava affogare nell’oceano? E’ così che bisogna fare: affogarli nel mare, abbandonarli nel deserto. Non si può fare altro! La crisi c’è per tutti (anche per noi), e tutti vogliono essere signori e fare come i signori. Me lo dici tu dove possono ormai andare le nostre signore a fare ippica? Esse vanno ai maneggi e chi ti trovano? Lei, la feccia! Tutti lì, coi calzoni bianchi e stretti e gli stivaletti neri e lucidi. Tutti pronti al via: un fischio e tutti a saltare in groppa, frustino in mano e speroni ai calcagni. Bello, no? –

Un sorriso generale sarcastico. E quello a continuare: – Le nostre signore! Loro vestono con classe falpalà e colori: è bello vedere svolazzare addosso alle nostre signore tutte quelle stoffe increspate e pieghettate e tutti quei colori che danno la gioia a chi li guarda. Ebbene no! Ormai tutte le popolane indossano falpalà e colori. E non è finita qui. La moda vuole la sua fetta di gloria nella società, e con giusta ragione. Ecco allora che le nostre signore indossano nastri, fiocchi, gonne svasate, farfalle, api, scarpette, riccioli, cappellini… tutte cose portate con classe dalle nostre signore! Adesso, tutte le donne portano queste cose: dove sta ormai la classe? – ”. Silvia borbottava a voce bassa nella notte e la sua voce era piena di rabbia, la sua voce era nera come il fumo denso del calore. Lassù brillavano pallide le stelle.

Silvia borbottava a voce bassa, ma ascoltava anche altre voci, e quelle voci erano le voci lontane della notte, quelle voci erano le voci forti del cuore, che nessuno più ascolta. Cosa sono ormai gli hoodoo di Memphis Minnie, la lady musicale dell’anima? Chi è Memphis Minnie? Chi è stata Memphis Minnie? Down in the Alley… J’ve been treated wrong… My baby… Dove sono gli hoodoo di Memphis Minnie? Silvia adesso piangeva, ma Donald non vedeva le sue lacrime. Saper cogliere tutti gli attimi di storia dell’essere umano! Saper salire su una scala tutta d’oro, saper leggere tutto ciò che c’è da leggere, saper passeggiare in carrozza, in automobile, a piedi, e mettere i nostri occhi dentro gli occhi della gente e vedere finalmente i raggi del sole e i raggi della luna navigare dentro tutti gli occhi del mondo. Silvia fantasticava, piangendo. Stare seduta su una lapide e saper cogliere tutti gli urli dell’anima di chi sta visitando quel morto. Adesso Silvia restò in silenzio, guardò di sottecchi Donald e capì che lui era assente. Allora lei poteva sognare un po’, disse a se stessa. Sognò una principessa che diventa regina, come la regina Vittoria. Sì, una bella principessa con il collare alto tempestato di diamanti, le trecce bionde, il vestito bianco che fluttua coi mazzetti di fiori di campagna, e questi fiori di campagna, questi fiordalisi, queste campanule, queste primule, sono lì, sulla stoffa che fluttua, a ornare orli e pieghe. Poi questa bella principessa diventa regina e come regina si adopera con tutto il cuore a far contenti tutti, proprio tutti – tutto il mondo! –. Ma non si può far contento tutto il mondo. Neppure lei, che è regina, può riuscirci. Così lei, dal suo alto trono di regina, deve prendere atto che neppure tutti i ricchi potranno mai essere accontentati, e neppure tutti i poveri potranno mai essere fatti felici, e neppure tutti i taxisti, gli avvocati, i netturbini, gli operai, i dentisti, i pugili, gli artisti, i ciclisti, i calciatori, i pescatori, i pensatori, gli scienziati, i tennisti, i militari, i politici, i vignaioli, i cacciatori, gli sciatori, i baristi, gli idraulici, i tubisti, i giornalisti… No, a qualsiasi categoria chiunque appartenga, potrà mai essere accontentato; neppure se appartenesse alla categoria dei re!

Silvia aprì gli occhi col terrore nel cuore. Neppure i re potevano essere felici! Lei si guardò intorno smarrita senza capire dove si trovava. Stava nel buio ed era avvolta da un’afa che metteva angoscia. Stava seduta su una panchina, e adesso ricordava: qui, tanti anni fa, sono stata felice con Donald. Provò un brivido su tutto il corpo: una testa leggera era posata sulla sua spalla. Allora si svegliò completamente. No, non sognava più! Sulla sua spalla era appoggiata la testa di Donald e lei attirò quella testa leggera fino alla sua bocca, vi appoggiò le sue labbra, la baciò con trasporto, proprio come l’aveva baciata tanti anni fa, quando i loro anni cantavano le lodi alla vita. Le voci delle inquietudini vagavano nel buio e una voce gentile di donna sorse da qualche parte. “Si muore ogni volta che si ama”, disse la voce. “L’amore nasce da un albero, vive sull’albero, cade dall’albero e muore. Poi rinasce da un altro albero e poi da un altro ancora, e ancora, e ancora…, fino a quando gli alberi finiscono. E’ la beffa delle probabilità, e nessun amante e nessun albero è escluso dalle probabilità”. Questa gentile voce di donna della notte portava nell’aria il tenue segreto dell’ironia.

“L’amore è un bilanciere e questo bilanciere è insostituibile. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni bambina, ogni vecchio, ogni vecchia – ognuno di noi tutti! – si porta nel cuore questo bilanciere, e questo bilanciere è insostituibile” disse ancora la voce gentile di donna.

Ma poi la voce gentile di donna si fece ironica: “L’asta del bilanciere va su e giù, su e giù, su e giù; l’asta del bilanciere non si ferma mai, e il suo movimento è oscillatorio, e l’oscillazione dell’asta del bilanciere è il cammino forte e incerto dell’amore”.

Silvia ascoltava la voce gentile della donna nel buio e credeva che fosse la sola a sentirla. Invece no. Vicino a lei si levò la risata sardonica di Donald e lei capì che anche lui sentiva la voce.

“Innamorarsi una sola volta nella vita è pazzia, ma se uno riesce a innamorarsi una sola volta, allora quello diventa indistruttibile” disse con autorità la voce gentile di donna e continuò: “Si può ammazzare ed essere amati, si può essere salvezza di migliaia d’individui e non essere amati. L’amore non ha nome e l’eternità sta qui, su questa terra. La grandezza dell’essere umano, il coraggio di essere umani, il conoscere la natura umana: questa è l’eternità!”.

Ci fu silenzio, la voce gentile della donna della notte sembrava essersi dissolta, Silvia fu delusa di non sentirla più. Ma non fu così. All’improvviso, e questa volta in tono più forte, la voce disse: “Non si muore mai d’amore!”.

Silvia disse tra sé rivolta alla voce: – Beh, mettiti d’accordo. Prima hai detto: “Si muore ogni volta che si ama”. Adesso dici: “Non si muore mai d’amore”. Beh, mettiti d’accordo una buona volta! Però, dopo aver sentito queste frasi, Silvia rizzò le orecchie e mise ancora più attenzione alla voce della donna. Dentro di lei si era accesa una lampadina: – Possibile che lei non sappia? Proprio qui, a due passi di distanza, è morta Betty, e Betty era conosciuta, e la famiglia Gitton non era l’ultima del quartiere. Bene, Betty ha bevuto il veleno per amore: possibile che questa donna non sappia?

“Volenti non fit iniuria, lei è stata una pura consenziente votata alla morte. Non dimentichiamoci di Betty!” disse un vocione. “Più morta di lei!”.

Silvia si sentì scoppiare dentro.

“La morte di Betty va rispettata” disse la voce gentile. “La morte di Betty va oltre il giudizio del tribunale, oltre il giudizio della chiesa. Nessuno può giudicare questa morte! Questa morte – la morte di Betty – è affare privato tra Betty e la sua essenza. E’ stata una lotta tra la materia e l’essenza, e l’essenza ha avuto la meglio sulla materia. Possono, semplici persone umane che compongono la giustizia e la chiesa, essere in grado di giudicare l’essenza della materia umana?”. La voce gentile della donna era adesso dotata di un tale timbro di autorità che non dava spazio a nessun commento. La voce continuò la sua arringa, mettendoci, dentro il timbro autoritario, un pizzico di ironia (forse la sua intenzione era di dare all’arringa un tono di libertà). “Forse possono giudicare le essenze i sorrisi ironici? Forse possono giudicarle le folle radunate per il cricket? O forse sono le gran dame al passeggio sui boulevards i giudici supremi? O le grandi sfilate della storia o le grandi celebrazioni o i grandi comizi…”. La piccola dolce voce sovrastava il vociare notturno delle inquietudini. Continuò in tono ormai da grancassa: “Nessuno può giudicare un’essenza! Nessuno può condannare un’essenza! E non può né giudicarla né condannarla sia un membro temporale che secolare. L’essenza della materia umana è padrona assoluta del suo vivere e del suo morire; se lei decide di morire, l’essenza muore, e con lei muore la materia. Non ci sono regole, non ci sono leggi, non ci sono giudici. E’ un affare privato tra la materia (il corpo!, volle precisare la voce) e la sua essenza”.

Ritornò il silenzio e Silvia trattenne il fiato. Ma la voce continuò: “Ecco perché, nel caso di Betty, l’essenza ha deciso di eliminare la materia (il corpo!). Tutto qui!” decretò la voce con autorità.

Ma il vocione dell’uomo non si lasciò convincere. “La disperazione!” gridò. “Quando uno muore, il suo corpo è sempre disperato. La disperazione è la vincitrice, non l’essenza!”.

Silvia scrollò il capo delusa. Lei non riusciva ad afferrare il sottile filo che legava insieme le voci buie della notte. Lei non riusciva a catturare gli echi delle voci delle nuove tribù che abitavano la grande città. Le nuove voci delle nuove tribù erano piene di coraggio e di stonature, di fascino e di armonie; erano le nuove voci di conquista che sapevano di ferro, di gas, di rocce e di lunghi pensieri. Quelle voci mischiavano senza pietà la violenza e il plagio. Silvia ascoltò ancora il duetto della voce gentile di donna e del vocione basso di uomo.

“Ci vuole coraggio per uscire da questo bordello di mondo e Betty ha usato tutto il suo coraggio” disse la voce di donna.

“Cos’ha ottenuto?” chiese sarcastico il vocione di uomo.

“Il rimpianto di noi che l’abbiamo conosciuta. Noi tutti la rimpiangiamo”.

“Già! Lei è morta e noi siamo qui a goderci la vita: però rimpiangiamo Betty! Noi dunque la rimpiangiamo, poi, insieme alla nostra essenza, andiamo a ballare, a nuotare, a bere e a fornicare. Direi che la nostra essenza è più furba dell’essenza di Betty… decisamente più furba!”.

Silvia attese con trepidazione la risposta della voce gentile. Disse tra sé: rispondi, ti prego! Tu sai che Betty non si è uccisa ma l’ha uccisa il cinismo del suo ambiente. Perché non ti sento, voce gentile della coscienza? Tu sai che Betty non avrebbe mai avuto il coraggio di uscire dal mondo; tu sai che lei voleva vivere, amare, entrare nel mondo, conoscere il mondo, non tradire il mondo. Perché non lo dici al vocione della provocazione? Gentile voce fatti sentire, ti prego! Silvia attendeva, piangendo, e Donald, vedendola piangere, credeva fosse l’alcool ormai tracimato sui rami dell’arteria temporale e sulle vene facciali. “Andiamo a casa, Silvia” le disse con dolcezza per non irritarla.

La notte non dava nessuna risposta alle lacrime di Silvia e lungo i bordi del prato vagava un’ombra di forma imprecisata. Forse era l’ombra di una coscienza insonne, che vagava tra le ombre smarrite e sole. Silvia guardò l’ombra di forma imprecisata e, pur nel dormiveglia dell’alcool, ascoltò tutta la storia del silenzio della notte, raccontata in versi dall’ombra: “Occhi schizzati di pietra/raccontano ombre mutanti di cielo./Una mano trafitta attende/dentro chiaroscuri d’inganni./Il sole graffia la lunga disperazione./Tace la notte,/ed è vaga pulsione d’attesa”. La voce dell’ombra prima tacque, poi fu assorbita dalle luci fosforescenti dei lampioni.

Donald cinse la vita di Silvia e lei restò attaccata al collo di Donald. Insieme s’incamminarono verso casa, i loro piedi strisciavano disuguali sull’asfalto.

Capitolo VI

Palazzo Gitton. Città. Charlotte ha scritto una lettera a Louis e adesso è davanti a lui nel salone, seduta sul divano Luigi XVI. Gli legge la lettera. “Non ci vuole nulla, Louis. L’essere umano è perfetto nei suoi movimenti e nei suoi estri di stupefazione. La sua curiosità lega insieme i suoi movimenti e la sua stupefazione. L’essere umano è un genio incontrollabile che muove i piccoli e i grandi, i ricchi e i poveri, i curiosi e gli indifferenti. Tutto cammina per rimanere alfine nell’improbabile incertezza dell’illusione. Sì, Louis, io sono romantica perché tu mi ami. Adesso io sono pazza a dirti queste cose, ma la morte tragica di Betty mi ha messo dentro inquietudine e confusione. Vorrei che tu mi accogliessi come sono, caro; vorrei che tu non mi gettassi in pasto ai cani. Ti prego, Louis, fammi credere ancora nel creato! Fammi fuggire dai massacri e dagli eroi! Aiutami a non vedere le pistole coi chiodi nei macelli, le bestie morte, il cinismo di chi affonda i coltelli nelle carni e intanto zufola l’ultimo motivo in voga nelle balere. Non c’è pietà nell’essere umano; lui sale tutti i gradini delle vele e guarda i flutti e le tempeste, e non gl’importa di chi sta soffrendo dentro quei flutti e quelle tempeste; a lui non importa nulla di chi piange fame e soffre miseria; e resta del tutto indifferente se vede la casa di qualcuno andare a fuoco.

Tutto arriva sulle caravelle piene di spezie e di dollari. Giù il cappello, il sarto taglia e cuce, i chierichetti pregano in ginocchio, qualcuno mostra i pugni, qualcuno sale sul taxi col bastone d’avorio e le scarpe di lucertola, qualcuno sta in accappatoio di seta variopinta, le braccia allargate davanti al mare aperto, i grossi occhiali neri sul viso rapito, e parla; parla alle onde del mare, parla agli uccelli del mare, parla all’aria del mare, e lassù il cielo ascolta le parole senza senso dell’uomo in accappatoio di seta variopinta. Perché a Coney Island? Perché, Louis! Perché ridono i lampioni, i bar, i pagliacci nelle sfilate sotto le girandole dei luna park. Perché tutto questo baccano, tutte queste satire, tutti questi militari in posa con le baionette a raschiare il cielo. Perché queste bandiere che sbattono nelle nuvole, e queste carcasse di navi, e queste file di folle in fuga nella tormenta. Perché tutto ciò che è fantasia è gioia, è luminosità, è purezza di espressione, è ridere a crepapelle, è liberazione dei nostri peccati, dei nostri tabù, delle nostre paure e tutto intorno a noi è aria. Perché Louis? Non c’è pietà, Louis! Stammi vicino, Louis! Non abbandonarmi mai.

Pensieri nella tempesta, occhi languidi e mai sazi, vizi e finzioni. Storie di supermen, effetti speciali, sonorità, navicelle spaziali, astronavi, luci negli spazi siderali. Lunghe ombre, lunghi fruscii, lungo buio prima dell’ultima fuga: Louis, tento la mia ultima fuga nel mondo dei fuochi d’artificio della fantasia.

Ma non voglio tediarti ancora con questa mia pazza giostra di parole, gettate tra gli alberi del parco. Betty è morta e io vorrei sapere. Questo palazzo in cui vivo custodisce segreti che devono essere svelati, e se non sarà mai penetrato fino in fondo il genio di un musicista o di un pittore, potrà invece essere penetrato fino in fondo il mistero della morte di Betty. In questa morte non c’è genio dell’arte ma genio del male. Tutto ha inizio con la farmacodipendenza. Betty soffriva di entrambi le forme di farmacodipendenza: e di quella psicologica e di quella fisica. Alla fine, Betty non potette più fare a meno dei suoi oppiacei, il mal di testa la faceva impazzire. Fin qui, nulla da eccepire. Uno ha mal di testa e prende gli analgesici, che male c’è? Tutto è normale, tutto scorre nella normalità. Ma, purtroppo, non è sempre così! Noi esseri umani soffriamo di altre malattie, noi vediamo il buio davanti ai nostri occhi e non sappiamo da dove questo buio parte, né dove arriva né dove va. La malattia del buio, dunque? Io la definirei, questa malattia, la malattia della fantasia; e quando questa malattia corrode tutta la massa cerebrale, analgesici, oppiacei e non oppiacei lottano contro questa malattia senza alcun successo: l’inondazione degli stimoli nervosi sommerge l’equilibrio della massa cerebrale e lo frantuma.

A Betty, per il suo mal di testa, si era trovato l’oppiaceo giusto, il propossifene. Ma, per la malattia della sua fantasia, nulla era stato possibile trovare”.

Louis guardò Charlotte chiudere in quattro parti, diligentemente, il foglio e tenerlo in mano con un po’ d’imbarazzo. Quale segreto nasconde il tuo cuore, pensò Louis. Tu hai bisogno di aggrapparti a qualcuno di cui fidarti ciecamente, questo è fuori di dubbio. Ma di quale natura è il tuo segreto? C’è angoscia in te? Non credo ci sia angoscia in te, il tuo scritto sembra più un pezzo letterario che una lettera indirizzata a una persona a cui vuoi affidarti con leggerezza e fiducia. No, Charlotte, tu non mi hai tramandato nessuna sofferenza che possa averti fatto sanguinare il cuore. Direi che tutto ciò che mi hai scritto è una sottile messa in scena, che si adatta perfettamente all’ambiente dei Gitton.

Ma Louis non disse nulla e si soffermò ad osservare attentamente il salone carico di arazzi, tappeti pregiati, quadri d’autore, stampe e libri antichi. Tutto era in linea con l’antica atmosfera della famiglia; ciò invece che lasciava perplessi erano le quattro fotografie giganti, anni settanta, appese a una parete completamente bianca – quella di fronte alla porta finestra del terrazzo –, che documentavano cronologicamente la storia del futuro dell’essere umano. Erano forse, quelle quattro fotografie, il percorso di un fantasma? C’era forse qualcosa di intimamente legato alla personalità segreta di Charlotte, in quelle quattro spettrali documentazioni fotografiche? Louis guardò la prima fotografia. Era fotografato il Voyager 1, con gli “anelli” di Urano, Saturno e Giove. In quegli “anelli” turbinavano masse di detriti rocciosi. Guardò la seconda fotografia: Voyager 2, con macchie rosse e formazione ciclonica del pianeta Giove. Le altre due fotografie rappresentavano lo stesso soggetto diviso a metà, e il soggetto era una grande macchia rossa che si estendeva dall’equatore fino alle latitudini solari meridionali del pianeta Giove.

Louis guardò ancora più attentamente le quattro fotografie e non ebbe più dubbi. Ecco i sogni di Charlotte che vanno tutti a posarsi sulle macchie rosse del cuore, pensò tra sé. La sua fantasia non ha riposo e lei si acquieta soltanto quando i suoi sogni possono posarsi su turbini violenti di rocce frantumate. Lì, dove tutto è confusione e frantumazione, la vita non avverte la tragicità della morte, la vita non s’arresta! In Charlotte tutto scorre al di fuori dell’ordine umano comune e nel suo scorrere di vita soprannaturale, la sua fantasia può ridere e scherzare come meglio crede, senza equilibrio e senza razionalità.

Louis guardò ancora una volta le fotografie, si soffermò sulle macchie rosse e sugli “anelli”, scosse un po’ il capo. Naturalmente potrebbe essere tutta mia pura fantasticheria, pensò tra sé. Già, potrebbero essere mie fantasticherie, eppure questi archi inferiori degli occhi: curvi, sempre più curvi, sempre più stretti, sempre più grinzosi mano a mano noi restiamo in silenzio. In questi occhi, in questi archi, in questi tremori di palpebre, tutto fa pensare che dietro si nasconde una personalità allucinata, poco attendibile, inaffidabile. Louis scosse ripetutamente il capo. Sì, affermò con se stesso, Charlotte ha una personalità altamente inaffidabile.

Charlotte e Betty, le figlie; Rose, la madre: tutt’e tre qui a stretto contatto di gomito, per vivere insieme dentro un’atmosfera acida e irrespirabile. Enoch Gitton, il capo famiglia, aveva preso il volo verso la Scozia, nel Mar del Nord, con i suoi ingegneri petroliferi. Erano tutti partiti per dar man forte alle prolunghe delle trivellatrici Transworld 61, predatrici spietate di petrolio nelle acque torbide di Beryl. Da troppo tempo le tre donne attendevano Enoch, ed Enoch, da troppo tempo, non appariva più da nessun orizzonte. Gli cheques con su parecchi zeri di sterline, però, apparivano regolarmente e questa era tutta la sua presenza: una presenza così, comunque, era assolutamente adorata dalle tre donne.

Enoch si era portato dietro Edward ed Edward era il suo miglior esperto petrolifero, oltre ad essere un giovane di aspetto attraente e del tutto speciale. Questo giovane possedeva volontà di ferro ed era disincantato di tutto.

Alle donne non piace essere oggetto d’indifferenza, loro vanno ai balli e ai passeggi, agli ippodromi e agli stadi, alle sfilate e alle celebrazioni funebri e di richiamo, e stanno sempre lì pronte per essere ammirate e adulate: guai se non fosse così! Dunque, Edward era disincantato di tutto e lo era anche delle donne; e loro, dopo il primo interesse per la sua avvenenza, facevano subito marcia indietro e si dileguavano nel nulla. Le donne, si sa, sono brezze del pensiero, sono speranza e solitudine, sono silenzio e traguardo. Le donne sono colori in festa, gentili profumi d’azalee, gocce di rugiada che raccolgono l’immensità dell’attesa. Loro sono i graffiti del mare.

Tutto ciò pensava Louis, guardando negli occhi Charlotte seduta accanto a lui sul divano Luigi XVI. Lui non aveva pace e ricordava, in quel preciso istante, il grido senza eco dei naviganti del Mayflower, inginocchiati a chiedere la misericordia di Dio davanti alla statua di Cape Cod nel Massachusetts. Louis stava accanto a Charlotte e non capiva il cuore della donna. L’impenetrabilità del cuore di Charlotte! Louis continuava il suo studio su Charlotte, cercando l’approdo nella fantasia. Così continuò a fantasticare sui marinai del Mayflower. Fantasticò: c’è chi sta inginocchiato davanti a una statua sacra e prega per tutti i pericoli scampati, e c’è chi, invece, si ubriaca col brandy all’arrivo del viaggio periglioso, oppure massacra gli isolani per emulare eroi di storia antica. Comunque, pensò, salvo quei pochi eroi dello spirito, tutti cercano la guerra. Guerra, sempre guerra! Il destino del’essere umano è essere perennemente in guerra! Guerra tra inglesi, francesi, austro-ungarici, giapponesi, malesi, vietnamiti, vietconghiti, irakeni, islamici, sudisti e nordisti; guerra per l’indipendenza, per il possesso, per la salvezza delle anime, per mandare tutti all’inferno, per mangiare il cibo nel piatto del vicino… Si fermò per un attimo e concluse follemente: – Guerra della gelosia! Sì, proprio così, guerra della gelosia, che è sempre la più subdola, la più velenosa! –. Sorrise a se stesso e restò assorto a contemplare le quattro fotografie giganti… mondi lontani, mondi sconosciuti. Sì, mondi sconosciuti! Io sono qui, braccio con braccio, respiro con respiro, pelle con pelle, pochi centimetri di distanza: sono qui vicino a un mondo! Vicino a un mondo umano che conosco, mi parla, mi sorride e mi tocca. Eppure questo mondo mi è del tutto sconosciuto: io non lo conosco affatto! Sto accanto alla mia donna e la mia donna è un essere che non conosco, che mi sfugge, che mi stringe il braccio e la sua mano io non la conosco. Forse sono solo idiozie questi miei pensieri, ma la storia del mondo è stata fatta con le idiozie. Stai comunque attento, Louis! Le idiozie sono spesso cattive consigliere: stai dunque attento!

E se volessi costruire il mio capolavoro della storia, dove vado a pescare l’irrealtà degli eventi necessari al capolavoro? Il sole non tramonta mai alla stessa ora e la realtà bussa sempre alla porta; questo mi dice che non c’è più tempo per fantasticare su Charlotte e neppure su Betty. A sentire Charlotte, Betty e Edward erano un’anima sola, ma Edward, venuto dal nulla in casa Gitton, era sparito nel nulla con Enoch Gitton, non con Betty Gitton! Qualcosa non quadrava in tutta la faccenda! Edward, pericolosamente attraente, sfacciatamente indifferente: a chi piaceva? Piaceva soltanto a Betty? Oppure piaceva a Betty e a Charlotte! Ecco, vista così, la faccenda diventava complicata, assumeva aspetti confusi, torbidi! Io non ho conosciuto Betty, si disse, scostandosi da Charlotte. Io penso Betty, romantica e sognatrice, attratta irrimediabilmente da Edward, bello e indifferente. E vedo Charlotte, donna della realtà e del pragmatismo, donna tutta d’un pezzo, alla Gloria Steinem o meglio ancora alla Bella Abzug. Sì, vedo Charlotte salire sui palchi della metropoli e perorare la causa per i diritti delle donne… Noi dobbiamo sentirci elevate al nostro autentico rango umano!... Sì, vedo Charlotte lottare contro tutti, per il raggiungimento del suo scopo, costi quel che costi! Lei dice che Edward era l’uomo giusto per Betty: qui sorge un dubbio! Davvero Edward era l’uomo che possedeva tutti gli attributi genitali per una donna sensuale? Sì, perché come dice Charlotte, Betty era una Circe – la Circe di Omero! – e come tale era sempre alla ricerca degli attributi genitali dell’uomo, e così l’uomo coi genitali giusti, per non essere trasformato in porco, è fuggito in Scozia. Scrollò la testa e mise gli occhi ancora una volta sulle quattro fotografie. No, decisamente no! Non credo sia finito così il grande amore fra Betty e Edward! No, non posso assolutamente credere che questo grande amore sia finito con il suicidio di Betty!

C’è da crederti, Charlotte? Cogli la rosa, Charlotte! Tu, Charlotte, hai riflessi di un cuore rapito da luci di lunghe emozioni, hai vaghi pensieri, sei brezza accennata di un sogno avvolto nel volo furtivo di un pettirosso all’alba, saltellante prima sul rampicante di casa tua, poi sulla ruota della carriola rovesciata, poi ancora nel triangolo di verde intorno al tronco del grande olmo, sul quale triangolo tu gli getti dalla finestra chicchi di riso mischiati a molliche di pane.

Caro Louis, tu ormai vaneggi! La malattia della retorica ti sta mangiando il fegato: tu corri di qua e di là come un demente. Però continua a vaneggiare, chissà che non arrivi a una qualche conclusione. Dunque, Charlotte, sei forse un personaggio della mia fantasia? Sei colei che coglie la rosa e vive col timore di essere scoperta; oppure sei colei che dona certezze d’amore; o colei che si allontana dall’amore perché vinta dalla paura. Dove sta il vero nella tua coscienza? Louis restò lì, paralizzato dall’incertezza e dalla confusione.

Charlotte gli disse improvvisamente: “Quel giorno ho sentito che Betty faceva il nome a Edward del Crystal Palace, di quel grande palazzo di vetro di lassù, in Gran Bretagna. Loro erano qui dove siamo noi e io stavo nel corridoio qui accanto. Betty diceva: – Perché tutto quel vetro, Edward; e perché tutti quegli infortuni, tutte quelle bestemmie, tutti quegli sfarzi. Perché! Perché tutto questo per una bizza qualsiasi di un principe e di una regina? Perché un’enorme valanga di persone stava davanti al palazzo ad acclamare la regina che apriva le danze negli sfarzi e nei cristalli, disprezzando la povertà altrui?

Quel giorno, Louis, ho sentito Betty gridare contro le lunghe sottane arricciate, modellate e colorate; l’ho sentita gridare contro i cappellini e le cuffiette dei visini smorfiosi delle signore e contro i cilindri e le marsine dei damerini; e gridava tutta la sua rabbia contro quel mondo di luci, di smeraldi e di bastoncini da passeggio, e inveiva contro i mercanti di tappeti preziosi per gli elefanti imbardati e infiocchettati al loro seguito. – Quei venduti della malora! – la sentii gridare. Betty, quel giorno, era scatenata contro tutti i sorrisi, le eleganze, le sfiziosità. Gridava: – bordelli di ori, incensi e mirra; profumi inebrianti, tessuti ricamati in filigrana, pietre preziose, pietre dure, brillii, tintinnii, carrozze e arazzi, vasi e candelabri –. Betty gridava e non finiva mai di gridare. – La grande fiera della ricchezza!, gridava, la boria della potenza! Il nulla! –. Tutto ciò che gridava contro, era il grande ventre del Crystal Palace! Era la vergogna! E la gente? Betty gridava: – Tutti ad acclamare, a battere le mani, a bestemmiare contro chi non la pensava come loro. Perché Edward! gridava. –Avevano già tutti dimenticato le grida di dolore dei lavoratori che avevano perduto chi un braccio chi una gamba chi un occhio chi un pezzo di stomaco? Dimmi qualcosa, Edward! Dimmelo tu, per favore, cosa pensava la regina! E la gente, cosa pensava in quel momento? –.

Betty gridava le assurdità, le caducità, le miserie e le intemperanze. Voleva da Edward l’impossibile: voleva che lui livellasse tutte le imperfezioni che la storia dell’umanità offre a noi tutti. E voleva anche di più: voleva che Edward le desse l’amore universale. – Cadaveri, gridava, tutti cadaveri!

Io non riconoscevo Betty, la mia cara, romantica, sognatrice sorella”.

“Mi avevi detto che Betty era passionale e sensuale. Adesso mi dici che era romantica e sognatrice” disse Louis.

Charlotte non si scompose. Disse: “Betty odiava l’ipocrisia e la finzione, amava l’amore e il futuro. Questi tipi di odio e di amore appartengono alla passionalità e alla sensualità. Mi diceva: – Charlotte, questo è un mondo di storpi e di illusi perché nessuno sa amare. Io amo… amo… amo…: non posso fare a meno di amare! L’amore non è mai zoppo!”.

“Sono confuso, Charlotte!” disse Louis. “Betty non avrei saputo comprenderla”.

Lui vide la soddisfazione negli occhi di Charlotte. Era la sua confusione, ciò che voleva Charlotte? Tirare una logica conclusione in quella casa, con Charlotte e Rose (prima, anche Betty!) era inconcepibile: assurdo! Là dentro, con le due donne, si respirava soltanto incertezza!

“Noi accettiamo la vita senza renderci conto di ciò che facciamo” gli stava dicendo Charlotte. “Siamo dei camminatori che non hanno raziocinio; noi ci entusiasmiamo per i turbini nel cuore; noi saliamo al cielo per raccogliere la luna e le stelle piene di luce e ritorniamo sulla terra con il sacco pieno di ombre”. Charlotte parlava con indifferenza e distacco.

Louis disse con calore: “La vita deve contenere un po’ di pazzia. Tutto il mondo deve essere un po’ pazzo”.

Chi aveva mai osato dire queste cose in quella casa?

Louis chiese a Charlotte: “Perché Betty si è uccisa?”.

Dall’ampia vetrata vennero raggi violetti di sole e Charlotte si riparò gli occhi con la palma della mano rivoltata. Charlotte disse: “Betty non ha retto alla fuga di Edward. Lei era fragile, Edward rappresentava per lei l’unico scopo di vita. Tutto il mondo le è crollato addosso, quando ha visto fuggire via da lei l’amore.

Sì, Betty era passionale oltre ogni limite e la sua passionalità la rendeva confusa. Lei non sopportava la finzione; lei ha scoperto la finzione ed è morta!”.

“Tutto il mondo ti crolla addosso, quando tu vedi intorno a te soltanto finzione” disse Louis. “La finzione! Non c’è via di sicurezza nella finzione, tutto crolla, tutto diventa cenere”.

“Ma far scenate con questo e con quello!” disse Charlotte. “Anche con Edmund! Con lui non finiva più d’insultarlo: – Tu sei qui, tu sei lì… servo della malora… cornuto! Cornuto, capisci? Povera Genny! Lei a tradire Edmund?

Louis” chiese Charlotte, “si perde l’anima se si conosce la finzione? Si perde la sua protezione?”.

In Louis, improvvisamente, ci fu una svolta. La svolta dentro di lui era nell’aria, qualcosa di inquietante lo stava portando sempre più giù, come se fosse sempre lì per scendere nell’inferno. Era una scheggia vagante che gli graffiava il sangue, era il cupo e il tragico che gli tramandava quella casa, quell’ambiente, quel perbenismo, quella finta umiltà. Adesso non c’era più tempo per inseguire la felicità… la felicità! Louis sorrise. Sospetti e inquietudini: quelli erano i doni di quella famiglia! La felicità! Sorrise ancora. La felicità era un abbraccio, un sorriso, una carezza, una qualsiasi verità! La felicità era nel cuore, semplice e forte. Adesso, si disse, scendo nella retorica! Occhio Louis! Non toccare il cuore, non toccare l’anima!

Disse a Charlotte: “Fuggire! Io fuggo! Io non conosco la mia vita, io non vedo il grande abisso, io non sento gli urli di là in fondo. Vuoi dunque che conosca l’anima? L’anima ci protegge? Da che cosa? Non siamo noi padroni di noi stessi? Vogliamo smetterla una buona volta con questo ingombro che ci dicono chiamarsi anima? L’anima è una brezza d’alba che svanisce col primo sole. Si può pedalare in salita nell’aria? L’utopia! Non c’è pace se non c’è anima: l’utopia! Vogliamo smetterla una buona volta con quest’anima? Vogliamo non morire prima del tempo? Vogliamo poter amare la notte con la pioggia e il giorno con il sole: così come ci pare e piace! Senza nessun affanno, senza voler possedere la grande villa vittoriana con gli abbaini a cupola e i grandi alberi che le danno maestosità. Senza affanno per la nostra anima! Senza il fastidio dalle mamme con le carrozzelle che c’intralciano la strada; senza il correrci fra le gambe di quei bambini che hanno le magliette bucate e giocano nei liquami puzzolenti delle pozzanghere”.

Charlotte guardava Louis preoccupata e Louis correva senza inciampi: neppure un carro armato con il bazooka agganciato e pronto a sparargli addosso l’avrebbe fermato. “Vogliamo amare una buona volta per tutte il pugile che prende le incornate dall’avversario,” continuò a dire senza un senso ben preciso – ma a lui cosa importava? “oppure battere le mani agli astronauti americani e sovietici che si danno un rendez-vous nello spazio? L’anima… la nostra anima! Non ha senso parlare di anima, se non mandiamo al diavolo tutte le sette settarie, tutti gli agenti spionistici, tutti gli invasori con i veicoli Bradley da combattimento e gli elicotteri Chimook pieni di bombe incendiarie. Vogliamo o non vogliamo fare qualcosa di veramente importante? Vogliamo farlo? Via, allora, tutte le manifestazioni pro guerra e pro pace!”.

“Allucinante, Louis!” lo interruppe Charlotte. “Perché parli così? Calmati, ti prego”.

“Charlotte,” disse subito Louis, “un tragico colpo di scena è avvenuto nella tua famiglia, e tu mi parli di anima! L’anima è una meteora: calore e luce perforano il corpo… l’anima ha preso fuoco dentro. Un attimo, e già è buio. Tu mi parli di anima, ma l’anima non risponde, resta in silenzio, non offre soluzioni.

Betty ha chiamato la sua anima, l’ha implorata, l’ha perfino minacciata. Ma la sua anima non ha mai risposto e si è nascosta tra le pieghe del cuore per non essere travolta dall’immobilismo della casa in cui viveva, dalle prevedibilità di chi ci viveva dentro, dall’odio sottile dei cuori dei suoi abitanti, che s’infiltrava anche su per la cappa del camino. Intorno a lei tutti i sorrisi erano finti…”.

“Fermati!” ordinò Charlotte. “Ma tu chi sei?”.

“Già, io chi sono? Chi sono io, qui? Forse mi conosco ancora? Qui, in questa casa, il buio avanza e i sorrisi uccidono. Forse anche l’invidia!”. Louis tremava.

“Che dici!”. Charlotte era furibonda.

“Che dico… Già, che dico? E’ giusto cosa dico? Non è giusto? Charlotte, non ha importanza ciò che dico o non dico, ciò che è giusto o non giusto. Ciò che non è giusto è ciò che è successo a Betty! Qualcosa si doveva fare, qualcosa di più si doveva fare! Dentro l’anima di Betty! Nessuno di voi ha saputo leggere dentro la sua anima, nessuno di voi ha salvato la sua anima, nessuno di voi ha voluto salvare la sua anima!

Ora tu mi chiedi chi sono io. Io ti dico: io non sono nessuno! Io non so leggere nel cuore della gente, io non conosco la gente, io non respiro con la gente; ma non pugnalo la gente, non inganno la gente, non abbandono a se stessa la gente. La gente è sacra: io la penso così!”.

Si alzò e incominciò a girare intorno al grande tavolo Impero. Faceva un passo e vi batteva le dita sopra, un altro passo e altro colpo con le dita, così per tanto tempo. Charlotte fremeva sul divano, le gambe strette, le ginocchia appuntite. Poi lui si fermò davanti a lei, allargò le braccia, avvicinò il suo viso agli occhi della donna, disse: “Me ne vado! Charlotte, abbandono tutto: getto la spugna!”.

Charlotte restò impassibile, gli occhi lontani, le mani inerti sulle ginocchia.

Louis continuò, restando davanti a lei a braccia aperte: “Io fuggo, e lo dico. Tuo padre ed Edward sono fuggiti, e non l’hanno detto. Ebbene, io dico: fuggo dal medioevo! Fuggo dalle camere a gas! E’ tutto inutile, Charlotte! Io fuggo via lontano, al di là dei soffocamenti del cuore. Al di là della tua casa, Charlotte! Di tua madre, dei tuoi amici, delle vostre partite a golf… delle vostre finte pietà!

E’ giusto restare? E’ giusto sforzarsi di voler far parte di un organismo che non puoi accettare? No, Charlotte, non è giusto restare! Non è giusto far parte!”.

Charlotte restò immobile in silenzio, gli occhi lontani.

Louis disse ancora: “Resteremo amici, Charlotte! Da tempo meditavo di lasciare lo studio legale e di riprendere il vecchio mestiere del giornalista, svolto artigianalmente ai tempi dell’università. Sono già in trattative con il giornale di Buffalo, adesso andrò lassù, definirò ogni cosa, poi partirò come corrispondente di guerra. Sì, Charlotte, farò il corrispondente di guerra per il giornale di Buffalo”.

Parte seconda

Capitolo VII

“Noche loca”, scariche luminose di colore arancio. “Noche loca”, scariche luminose di colore giallo. “Noche loca”, scariche luminose di colore pervinca. Poi “Noche loca”, “Noche loca”, “Noche loca”, con scariche di colori intermittenti in festa che si riflettevano sul manifesto – donna cielo in molle abbandono nelle braccia del cavaliere in frac – appiccicato alla porticina azzurra laccata in oro. A indicare il manifesto c’era una freccia luminosa rossa a gobba di cammello fissata sopra la porticina. La porticina era aperta a metà e chi arrivava non aveva nessun fastidio di tirar fuori documenti e altro. Chi arrivava, fosse single o in coppia, dava ancora un’occhiata al manifesto, sorrideva per quel thunderbox di gambe nude e seni appena accennati, si fermava – per un attimo soltanto – a osservare il barbuto inchinato a mani giunte, con mantella rossa e scarpe lucide di cuoio, leggeva di fretta il programma della notte, superava la mezza porta, scendeva i ripidi scalini foderati di arabeschi indiani ed entrava nella bolgia dei piaceri stregati di luci predatrici. Lì, sparivano le paure del single e della coppia; lì, le grandi illusioni dei nudi sfuggenti, toglievano, al single e alla coppia, le inibizioni; tutto un mondo di colori e di urla li avvolgeva con maschere himalayane sudate e nude; tutto saltava in aria, tutto era gambe all’aria, tutto era burattinesco, tutto era baldoria; e poi, pelli levigate, visi dannati, palloncini volanti, piedi provocanti, cerniere lampo guizzanti, parrucche arruffate, occhi sognanti, colpi di spada nel cielo, malleoli con catenine di brillantini. I sorrisi erano i tam tam africani, scalpitavano i folletti del Grande Nord europeo, le braccia fluttuanti in cuori cavalcati da amazzoni tenebrose, la testa come palline da flipper, i busti, i sederi, le tette come bambole invocanti manitù. Il sudore acido misto a profumi era il grande freddo dei ritmi e delle melodie, nessuna requie, nessun riposo, abbasso il qualunquismo delle vanità. Chi stava al gioco era nel suo elemento esaltante. Se non accettava il gioco, che ci andava a fare laggiù? Il letto riposa le stanche membra, calma i pensieri, stimola i sogni: buon riposo! Poi, l’indomani all’alba, una nuova puntata di insoddisfazioni e rinunce. Qui, arrivi e trovi un sax alto, un clarinetto basso, un flauto pastorale, un baritono e un soprano. Insomma, qui trovi un Saxophone Quartet o una Big Band di una qualche università o di un qualche gruppo musicale folk, e tutti ti servono un ensemble, un rift, un rhythm&blues, un live ghost, alcune experiences e qualche soul. Dai che vai bene! Adesso ci sei arrivato qui, ed eccoti servito un bel brivido di be bop e poi un caldo ansito della canzonettista, fremente e altezzosa. Ormai sei nel tuo elemento adatto per dare un taglio a quel che hai appena lasciato fuori. E, – orrore! –, quel che hai appena lasciato fuori ti pareva il non plus ultra della felicità. Adesso vai a gonfie vele: sei tra gli ottoni, le brillantine sfasate, le gote da piumino sfilacciato. Che vuoi ancora? Tutto ciò non ti basta? Oppure, tutto ciò ti basta, ma vuoi tenertelo tutto per te il più a lungo possibile.: okay! Stai pure comodo dentro questa cascata di fluide perline: lascia perdere quei rivoli di pelli catramose! Ma vedo che ne sei quasi stufo di tutta questa bagarre e vorresti un’atmosfera più leggera, forse un po’ più confidenziale, un po’ più magica di tenerezze; ho capito, adesso vorresti un languido allacciamento che ti incatena al brivido dell’estasi del non ritorno. Amico, qui tutto puoi avere! Aspetta e vedrai. Le senti già le chitarre dei rock – Lost Generation, Night Lights, Music Paradise. Tu sarai vulcano e brivido, estasi e convulsione, spirito e corpo… il tuo corpo implora! Capisci adesso? Tu qui sei tutto, puoi amare tutto, trionfare su tutto, e non ti perdi nel buio del fuori che incombe e attende beffardo il tuo ritorno. Qui sei tranquillo, puoi stare qui tutta la notte, poi fuggire nel buio e ritornare quando le stelle sono fredde e impossibili e tu non hai più voglia di gettare il pane agli uccelli che graffiano la neve col becco per catturare un qualsiasi pezzo di cibo. Il grande fiume pazzo scorre leggero e gonfio, la rugiada nei campi coglie il tuo cammino negli echi di lucide marionette.

° ° °

Louis correva sulla tangenziale con la sua chrysler PT cruiser sedan turbodiesel common-rail 2,2 litri metallizzata. Louis fantasticava con se stesso. – Ma il tempo passa! Il tempo passa e ingoia i ronzii delle rotative. Tu stai lassù con quei ronzii, tu non hai scampo: la tua vita arriva fino al quindicesimo piano di quel palazzo di Grover Street e lì viene triturata dalle rotative. Ronzio continuo, movimento continuo, ritmo sincopato del quindicesimo piano: il tempo passa e tu conti gli anni che passano e gli anni che passano ti ridono in faccia… – Battè le mani sul volante. – Dove staranno quelle scariche luminose? “Noche Loca”, la notte delle mie lucide marionette! Dove state, luci di colori in festa? – Scrollò le spalle. – Le troverò! – disse nel frastuono di aerei in movimento.

Si fermò in una piazzola davanti alle luci dell’aeroporto. Le luci formavano dei cerchi che prima erano grandi, poi diventavano medi, poi piccoli, poi sempre più piccoli, e alla fine tutto esplodeva in una grande luce e la grande luce faceva credere a chi la guardava che lui si trovava davanti alla luce del sole. Louis guardava le luci e le vedeva luci del sole, della luna e delle stelle. – Ma è una gran cazzata ciò che penso! – si disse. – Dove sta il sole? Dove sta la luna? Dove stanno le stelle? Noi vediamo tutte queste cose lassù, ma cosa c’è lassù? Cos’è lassù? Dov’è lassù? Spiegamelo, mio caro! .

Adesso, in quel cielo di luci, rombi di motori annunciavano piste di lancio e piste di atterraggio di aeroplani.

Louis guardò nelle luci i mostri lucidi che restavano quieti e non avevano né lingue di fuoco nelle code né squame rigide con artigli nei fianchi. Quei mostri restavano nelle luci avvolti nelle ombre metalliche. Poi uno incominciava a muoversi con precauzione verso la pista di decollo e si portava nella pancia piena di riflessi vite umane che andavano lontano. Nelle sue orecchie, Louis sentì un mormorio assordante di anime che fuggivano nel cielo. Restò in ascolto, ma non riuscì a capire il linguaggio di quelle anime. Allora guardò con attenzione il grosso aeroplano. L’aereo puntò deciso verso nord, poi all’improvviso fece una brusca impennata come se volesse fare dietrofront, ritornò infatti quasi al punto di partenza. – C’è una calamita gigante che l’attrae là dove è partito – pensò Louis. – Ma non gli è più possibile atterrare da dove è partito! Pensa al casino che procurerebbe ai quadri delle partenze e degli arrivi! Ecco, ecco che riprende la traiettoria di spinta in avanti! Vedi? Adesso rifà quell’ampia giravolta a 90 gradi. Vedi? Poi s’inclina verticalmente da un’ala, poi resta sospeso perpendicolarmente in alto. Ecco, ancora un po’ più in alto! Eccolo fare l’alzata in linea retta – ma dove va? Su, su, su… fine! – Adesso riparte con più slancio sull’altra rotta più alta e va più a nord-ovest –. Louis seguiva le evoluzioni di volo del grosso aeroplano e ben presto non vide che le luci intermittenti della coda. Restò ancora nell’isola di sosta a fantasticare: – Ironie di foglie/in immagini grottesche/di luci/che raccontano leggende di maschere/scolpite nelle nuvole./Voci di onde/fruscìo di ali/suoni lontani di cornamuse./Le piccole ombre del cielo/sono pensieri vaganti/ senza più storia –. Louis rise. – Tu, cielo buio,/trasporti/ esistenze anonime/piene di grida/erranti/ di sabbia –. Scrollò le spalle e disse ancora nell’aria: – Dove sta la grandezza dell’umanità se non nell’effimero della parola? Alba di graffi… cammino mutevole di ombre e di luci,/di serenate e di marionette…–.

Ripartì veloce, arrivò nel quartiere del “Noche Loca” e lo trovò subito. Posteggiò la macchina nel parcheggio privato del locale, entrò nel locale e si trovò nella bolgia dei sudori e delle brillantine sparate.

Capitolo VIII

Ti piangi addosso, ti piace piangerti addosso, non fai altro che piangerti addosso e tutto ciò che fai è piangerti addosso. Poi parli con la gente e giù altri sussurri e lamenti. Ma le cose che dovresti fare… Già, le cose che dovresti fare non le farai mai! E’ un gran daffare il tuo! Direi che è una sofferenza inaudibile! Sì, una sofferenza, perché non si passa il tempo guardandosi nello specchio e chiedendosi mille volte fino alla nausea: io piaccio soltanto a letto. Una gran boiata, non credi? Vuoi che ti dica il segreto delle tue pene? Lo vuoi? Lo vuoi sul serio? Ebbene: ma è poi un grande segreto ciò che adesso ti rivelerò? Va bene, te lo dico: . Il segreto è che tu non possiedi grinta. Tu non hai grinta! Già, la grinta! Sai cos’è la grinta?

Vedi, cara, tu non mi hai mai lasciato dire ciò che adesso ti scrivo. Mi hai sempre detto senza riflettere: io sono quel che sono. Ho studiato, ho lavorato, mi sono sposata, ho fatto un figlio, l’ho allevato, ho divorziato… Sì, sei un bell’esemplare di canna al vento! La grinta… già, la grinta che ti manca! Dunque: per prima cosa ti manca la grinta; in secondo luogo ti manca la coscienza! Non la coscienza umana, ma la coscienza dello spirito. A te manca la coscienza di voler far parte di un sistema! Tu non ascolti nessuno, tu credi che la vita si svolga tutta sull’energia dello spirito. Uh, l’energia dello spirito! Chi ne parla, non possiede mai forza ed equilibrio interiori, c’è sempre pronto un alibi per tutto, una scusa. Sai: avrei dovuto coinvolgere altre persone!... No, quelle persone proprio non avevano moralità!... Proprio non me la sono sentita di presentarmi con quelle persone!... La superbia! Chi dice di possedere energia di spirito, è irrimediabilmente… superbo! Forza ed equilibrio in tutti i sensi: tu non ne hai! Tu non sei né forte né equilibrata.

Dunque: la tua energia dello spirito! Qui c’è un’altra cosa importante da chiarire, e che preoccupa. Vedi, tu parli del tuo mondo di energia dello spirito, e vada per questo tuo mondo! Ma ciò che più preoccupa è che tu stessa non credi in questo tuo mondo, e ancor peggio, tu ne sei talmente consapevole di non crederci, che ti comporti all’opposto di ciò che lo spirito vorrebbe che tu fossi. Lo spirito vorrebbe che tu non ti nascondessi in quel tuo mondo ovattato e lontano dalla realtà. – Eh già! Mio caro spirito, a questo punto io non voglio conoscerti! – dici tu sempre a te stessa, – Troppo complicato sarebbe vivere con coerenza: a me, tutto sommato, conviene, sempre, costruire alibi appena capisco da che parte tira il vento! Io voglio rimanere fuori da ogni obbligo che il sistema impone, neppure l’amore di mio figlio può convincermi di dire sì al sistema. Io, in fondo, voglio potermi ammirare allo specchio e giustificarmi per tutte le cose che faccio contro il sistema.

Io non ho pietà per nessuno e non do nulla a nessuno. Ci penso e poi dico a me stessa: neppure a mio figlio do come dovrei dare! Ma poi, perché dare? E, per favore, quale tipo di dare dovrei dare? Io delego: ecco, io delego sempre! –.

Tu ti parli sempre così addosso. Mia cara: tu ti piangi addosso e ti giustifichi sempre. Non c’è nulla, per te, a cui vale la pena di credere. Per te valgono soltanto bellezza, amore carnale e disseminazione di cadaveri. Sì, disseminazione di cadaveri, hai capito bene! Hai capito talmente bene che, quest’ultima tua “virtù”, la esponi vanitosamente sul petto come il tuo fiore all’occhiello. Tu non hai fatto altro, nella vita, che creare cadaveri intorno a te. Macerie di cadaveri, ceneri di cadaveri, consapevolezze di cadaveri. Tu sai creare capolavori di vuoto, poi corri! Sì, tu sai creare e correre! Crei cadaveri, poi corri a piangere sulla spalla di qualcuno. Per te, così, tutto è a posto! Finché, poi, tutto ricomincia daccapo, e tutto ridiventa diabolicamente perfetto!

La saltimbanco del cristianesimo ti dovrei chiamare? Dio me ne scampi e liberi! Chi sono io per giudicarti? Chi sono io per dirti che, così facendo, tu bazzichi un finto cristianesimo e interpreti un labile cattolicesimo? Se continuassi su questa strada, non arriverei mai al traguardo della strada. Cristianesimo e cattolicesimo vanno nominati soltanto per definire i mondi delle idee e delle intenzioni filtrati dal cuore. Il cristianesimo e il cattolicesimo sono i pilastri antisismici del cuore e della coscienza umana, ma non è necessario nominarli trattando di comportamenti concreti e personali. Ogni individuo porta dentro di sé il proprio cristianesimo e il proprio cattolicesimo. D’altronde, chi è all’altezza di entrare in questi mondi assoluti?

Ciò che invece vorrei dire con assoluta conoscenza, è che tu non sei una sognatrice e tutto ciò che fai è all’insegna dell’irresponsabilità. Certo, lo riconosco! Io sono duro con te, estremamente duro, spietatamente duro, innocentemente duro. Già: innocentemente duro! Sai cosa voglio dire con questo? Che m’illudo! Io mi illudo che prima o poi l’altra tua metà – quella buona! Perché tutti abbiamo due metà: quella buona e quella inquieta e irresponsabile –. Bene, ti dicevo: io m’illudo che la tua metà buona, prima o poi abbia il sopravvento sulla tua metà attuale.

Adesso ti faccio questa preghiera (io che non vado mai a pregare davanti a nessun altare!). – Vuoi tentare di far prevalere in te la tua metà buona? –. So che hai tutte le carte in regola per riuscirci. Tu sei sana, hai vigore, hai forza fisica, hai sensibilità e non ti manca né l’intelligenza né l’acume. Puoi farcela comodamente! Puoi tranquillamente connetterti con la tua nuova metà e non fare più sotterfugi, non creare più facili alibi, non strombazzare più in giro lagnosi auto perdoni e strappalacrime autocommiserazioni. Io sento… sì, io lo sento! Tu puoi fare molto, tu puoi farcela senza tanti sforzi, la tua irrequietezza è positiva, tu possiedi quel tipo di irrequietezza che fa capire e fa sopportare. Hai soltanto bisogno di trovare l’uomo giusto. Ma tu lo troverai! Hai, dalla tua parte, la forza dell’irrequietezza che spinge ad arrivare. Non hai un animo molle, ecco cosa voglio dire! Tu troverai la persona giusta, ma non ti sarà facile: dipenderà tutto da te. Vedi tu! Vedi tu se continuare ad essere una foglia libera nel vento – ma questa foglia non ha luogo dove posarsi e prima o poi verrà calpestata e distrutta, – oppure essere una foglia attaccata al ramo giusto della pianta giusta – allora nessun vento potrà staccare questa foglia, e questa foglia vivrà finché vivrà l’albero. – Tu hai potenzialità umana da vendere, Helène! Ho iniziato questa lettera con parole di ghiaccio, termino con parole di speranza. Oso ancora dirti: tu sei bella, seducente e … pura!

La purezza non è l’innocenza, la purezza è essere consapevoli che noi lottiamo per la conquista della nostra carta d’identità di sentirci esseri umani. Esseri umani, Helène! L’altra tua metà… il frutto della tua irrequietezza… la tua voglia di esplodere… il tuo desiderio di conoscerti, insieme a qualcuno che forse è già lì vicino a te. Ascoltami, Helène! Ti prego. E se tu non mi volessi ascoltare, che Dio abbia misericordia di te. Io ti benedico, Helène. Adesso non ho più voce, ma so che la mia voce ti ha detto tutto ciò che doveva dirti. Io adesso ti vedo, e vedo la tua voglia di riscattare tutta te stessa. Questa tua voglia di riscatto io la vedo, la sento e le dico grazie. Helène, mia adorata, noi non ci vedremo più! Il mio cuore corre ormai troppo veloce. Helène, il mio cuore scende a precipizio nell’abisso. Il mio cuore ha rotto ormai tutti i freni. Helène, bambina mia: ricordi? Io ti tenevo sulle mie ginocchia e tu mettevi le tue braccine attorno al mio collo e mi stringevi e mi alitavi il tuo respiro sul viso e io sentivo di tenere tra le mie braccia tutto l’universo.

Ciao, Helène. Tuo padre ti benedice.

° ° °

La vide subito appena venne risucchiato dalla bolgia. Stava là, il busto rigido sul tavolo, fogli sparsi davanti e lei a tenerli inchiodati sul ripiano del tavolo con i polpastrelli della mano destra. Lui fu attratto dagli occhi, che avevano intorno brillii intermittenti. Era bellissima. Il suo fascino ricordava le acque verdi di Sulu. Era l’autentica bellezza del vento carezzevole del Pacifico. Louis vide che era sola e si diresse immediatamente verso di lei. Già le sorrideva. Dalla tasca interna della giacca estrasse dei fogli con su dei versi. Pensò: funzionerà! Non può che funzionare: sono il vate della sua terra! Era già lì davanti a lei, già le sorrideva, già s’inchinava, già declamava col foglio aperto davanti agli occhi, leggendo per non impappinarsi: “Poi all’improvviso/una visione come respiro azzurro/della notte…”. Pausa e ripresa: “L’amore lacera l’eco/ondulante dello spazio…”. Non andò oltre, e vide che gli occhi di lei, verdi come le acque del mare di Sulu, avevano pagliuzze d’oro di gioia. “Ancora, ancora” disse lei battendo le mani. Louis rifece l’inchino. “Ancora!” gridò lei battendo più forte le mani. “Ancora l’inchino?” disse Louis. “Sì, sì!” fece lei con leggerezza spontanea”. “Ma sul serio?” disse Louis. “Sul serio ti sono piaciuti i miei versi e il mio inchino?”. “Da matti!” disse lei. “I tuoi versi sono bellissimi e il tuo inchino è bello e buffo”. Rise di gusto. “Allora balliamo” disse Louis. “Sì, balliamo” disse la ragazza con gioia.

Ballarono…Poi ballarono ancora e ballarono sempre. Ballarono per tutta la notte walzer lenti e languidi echi sudamericani, allacciati con dolce affanno, respiro nel respiro. Alla fine Louis disse: “Siamo vivi… vivi!”. “Sì,” disse la ragazza, “noi abbiamo davanti tutte le luci della musica, tutte le luci dell’universo, tutta la luce delle nostre anime. Noi siamo noi! Noi non apparteniamo che a noi! Noi non apparteniamo a nessuno!”.

La folla intorno a loro trasformava le proprie ombre in globi multicolori di voluttà e di gioia. Giovinezza tu vai graffiando l’aria della notte e non sai mai bere dalla bottiglia giusta. Amore non fuggire nei blues, non lasciarti soffocare dalla nostalgia errabonda.

Ciocca bionda,/che sfiori il sudore,/fuggi nel respiro/ della grande luna./Ombre confuse di tempesta/avvolgono/richiami di sorrisi.

Capitolo IX

Erano alla fine della notte, erano rimasti loro due soli e bisognava andare. Per quel poco di buio che rimaneva, bisognava sfruttarlo col riposo. Louis disse alla ragazza: “Ce l’hai un posto dove andare?”.

La ragazza disse: “No, non ce l’ho. Tu ce l’hai?”.

“Ce l’ho, è in un residence vicino al Lyceum Theater”.

“Non so dov’è il Lyceum Theater”.

“Vieni. E’ un meublé come dicono in Francia. Lo dividerai con me, te lo do gratis”.

Tutto naturale, due compagni di scuola, due amici di sempre. Louis disse ancora: “Se poi vorrai rimanere, staremo insieme e io ti racconterò la storia della mia vita. No, non preoccuparti, non ti racconterò partendo dalla mia gioventù, dei miei studi, di quando sono stato avvocato, di quando sono stato sulla soglia di sposarmi con una ragazza dell’alta borghesia e me la sono scampata per un pelo. Sono tutte cose che interessano agli psicanalisti per tirarci su le loro tesi insignificanti. Non ti vedo la mia psicanalista! Ti racconterò, invece, tutto quello che mi è successo dopo. Vieni?”.

“E me lo chiedi anche?”.

Louis le fece una carezza e disse appena: “Andiamo”.

Arrivarono nell’isolato del mercato delle gemme, non lontano dal Lyceum Theater. Era il quartiere degli alti grattacieli e lì i polmoni soffrivano, s’inceppavano, non riuscivano a buttare via tutto il gas accumulato. Allora, in qualche modo, bisognava correre ai ripari. E tutti ci correvano ai ripari, e i ripari erano i Channel Gardens che offrivano in abbondanza fiori e fontane.

“Give my regards to Broadway, e pure con bastone e cappello. Che voi siate benedetti, miei cari”. Louis rise. “Ma non è vero proprio un bel nulla, è tutto un bluff e adesso, qui, fai attenzione agli scalini, perché non c’è luce e l’ultimo scalino è pure rotto e tu potresti inciamparci dentro e farti male”. Percorsero un corridoio mal illuminato, arrivarono a una porta laccata di bianco con appiccicata sopra una formella d’ottone e un numero. Louis fece strada.

“Eccoci arrivati nella reggia” disse Louis accendendo la luce. Restarono immobili tutt’e due guardando il monolocale. Poi Louis disse: “Una bella reggia, non trovi? Qui, il letto; qui, l’armadio; qui, due sedie; qui, una scrivania, che serve da tavolo da lavoro e da cucina. A fianco di quest’armadio c’è una porticina – vedi: di alluminio! – e dietro questa porticina ci sono un fornello elettrico e una piccola dispensa. Qui, in quest’angolo, c’è il frigo, e nell’entrata, sulla sinistra, il bagno, sulla destra il grande specchio a grandezza d’uomo. Tutta la mia biblioteca è racchiusa in questo scaffale. Ci sono Mahfuz, Jelloun, Oz, Coetzee, Yehoshua, P. Roth, Izzo, Rivas, Kristof…– Vedi? Qui c’è il fior fiore della letteratura mondiale… – Céchov… Duras… Kertész… Dostoevskij… Céline… Steinbeck…Dos Passos… Ozick… Amado… Mauriac…Schnitzler… Singer…Hrabal… McCarthy… Berberova… Caldwell…– Vedi… vedi… Poi qui… qui… qui… Tutti amici, tutti amici fidati, tutti grandi amici che non deludono mai. Loro sono sempre qui a consigliarmi e a raccontarmi la storia umana. In ogni momento del giorno e della notte.” Si fermò ad aspettare un nome, guardando negli occhi la ragazza.

“Sì,” disse la ragazza, “mi chiamo Helène”.

“Helène” disse Louis, «conosci la storia umana?».

«Poco» disse Helène.

“Meglio così, Helène! Meglio non essere mai stata a Pechino, nei suoi bassifondi; meglio vedere le gemme che si lavorano qui; meglio vivere in questa montagna di luce: le vedi tutte queste luci, dalla terra al cielo?”.

Louis aprì il frigo. “Poco,” disse senza entusiasmo, “sempre troppo poco!”. Sospirò. “Dovrai accontentarti di qualche scatoletta e di mezzo filone di pane raffermo di qualche giorno. Mah, – mise la testa dentro il frigo –. Sì che c’è! Là in fondo vedo una fetta di prosciutto. Vorrei dirti di mangiare tutto tu, perché a quest’ora il mio stomaco rifiuta qualsiasi cosa.

Poi doma mattina, ti prego, vai dal macellaio e compra un bel rognone. Ti piace il rognone?”. Risero insieme. “Ho capito: non ti piace il rognone”.

“Certo che mi piace il rognone” disse Helène. “Domani ti cucinerò un pasticcio di rognone e carne che è la fine del mondo. Vedrai!”.

Louis era felice, Helène era affamata e dunque fece fuori in un baleno le scatolette e il prosciutto. Louis la guardava mangiare ed era felice.

Ancora a bocca piena, Helène disse: “Al macellaio dirò di darmi una piantina aromatica per insaporire il pasticcio”. Mise le scatolette vuote nella pattumiera, tolse le briciole del pane dalla scrivania – tavola da pranzo e guardò il letto.

Louis disse: “Faremo così: tu ti metterai comoda e io starò qui, in fondo ai tuoi piedi, e mi tirerò addosso questa coperta. Adesso dormiamo e prima di mezzogiorno ti chiamo io, tanto al giornale vado nel pomeriggio. Ancora non te l’ho detto: faccio il giornalista. Comunque, da domani resto a casa per una settimana e ti racconterò tutto. Tu adesso mettiti sotto le lenzuola e io vado un attimo in bagno, poi potrai andarci anche tu. Buonanotte”.

° ° °

“Louis, – ti chiami così, me lo hai sussurrato stanotte, – sei tenero, sei un grande amante e sei buono. Sono certa che la tua vita è la storia del mondo e io voglio conoscere il mondo ascoltando la storia della tua vita”.

“Adesso vai dal macellaio, fatti dare il rognone e la carne – mi raccomando la piantina aromatica – e poi prepara il tuo pasticcio da fine del mondo. Dopo il tuo favoloso pasticcio, andrò al giornale, ma ti assicuro che già fin da questa sera incomincerò a raccontarti. Helène, sento che avremo un futuro insieme”. La strinse forte. “Sì, Helène, io mi vedo insieme a te. Tu vuoi?”.

Helène gli sorrise, gli accarezzò gli occhi e gli diede un bacio sulla bocca.

° ° °

Nel quartiere non si respirava aria di olio magro fritto e non c’era presenza di negri molleggiati, con gli occhialini neri a stangoni e il berretto calato sul naso. Non c’erano manifesti coi centauri alla Crow Music, non c’erano gli hoodoo di lady Memphis Minnie e Dionne Warwick, Dr. Alimantado, Wet Willie, Bruce Springsteen, T. Rex, Fats Domino…: chi erano costoro? Nel quartiere si respirava il freddo e al Yacht Club, sede delle regate storiche nazionali, le baldorie erano amene e delicate. Nel quartiere si respiravano le danze, i concerti, le massonerie, la musica classica e pop, la musica delle grandi orchestre, dei solisti famosi e c’era il Russian Tea Room della West 57th Street, dove tutto era in pelle di orsi rossi e in cristallo di Boemia. Nel quartiere si respirava il grande tradimento, o, se vuoi, la grande beffa scolpita nella storia umana. Vero Jack? Tu, Jack, per sopravvivere vendi CD riciclati, pupazzi di pezza, libri pornogafici, riviste illustrate: qui, ci sono tutte le porcherie e tutte le non porcherie! Tu, Jack, stai dietro la guardiola coi vetri antiproiettili e allunghi la mano con l’oggetto richiesto e poi la tiri subito indietro coi dollari: per favore, soldi giusti, non si dà resto! Hai capito? Niente resto, importo esatto dietro consegna di quanto richiesto, sportello aperto velocemente e chiuso ancora più velocemente. Hai capito? Certo che hai capito, Jack! Il mondo bisogna guardarlo da dietro i vetri antiproiettili; certo, va tutto bene, tutti sono onesti, nessuno tiene la pistola in tasca, però… dietro i vetri antiproiettili: non si sa mai! Quanti cattivi pensieri frullano per la testa del mondo! Vero Jack? Così va il mondo e tu lo sai. Non è mica colpa tua se pensi così del mondo! Vero Jack? Tu hai fatto il pugile e sei stato anche un campione dei welters del quartiere. Bei tempi, vero Jack? Che gancio sfoderavi! Che uppercut! Che tempi erano quelli! Adesso… beh, adesso c’è troppa polvere sui tuoi occhi, e: maledetta polvere! Ma guarda un po’ cosa mi combina questa polvere! Guarda un po’! Si ficca tra le palpebre e mi gonfia gli occhi sotto come fossero palloncini da fiera paesana. Hai capito? Certo che ho capito, Jack! Palloncini da fiera paesana! E il tuo braccio? Che c’è sul tuo braccio? Perché fai presto ad allungarlo e fai ancora più presto a ritirarlo? Per i cattivi pensieri del mondo: e va bene! Ma lì, su quel tuo braccio da pugile: sembra la coscia di un maiale! Ho capito, Jack! Tu non vuoi far vedere il grasso che si è posato su tutta la fascia dell’avambraccio, dal supinatore al palmare lungo.

Jack, come suonano le tue orecchie, come rintronano i suoni dei gong, come ti si è ingrugnata la faccia!

Adesso, Helène è dal macellaio per il pasticcio di rognone e carne e Louis da Jack, ex pugile e ora edicolante e venditore di giocattoli e chincaglierie all’angolo con l’Avenue. “Jack, oggi ho un ospite importante, vorrei che mi sorridessi”. “Che succede, Louis: tu, ospiti importanti? Cos’era quella balla che mi hai venduto quando mi hai assicurato che qui tu ci sei venuto per trovare pace con te stesso e con tutto il mondo”. “Ho detto ospite – non ospiti –. Hai capito Jack? Ospite! Una ospite, una ospite eccezionale! Vedi, Jack! Prima o poi una ospite eccezionale deve venirti in casa, altrimenti rischi di perdere il metro”.

“Il metrò vuoi dire, il treno sotterraneo”.

“No, Jack! Il metro, proprio il metro, lo strumento che misura. Vedo che non sei convinto di quel che ti dico: già, proprio non ne sei convinto! Sai che esiste anche il metro del cuore?”.

“Il metro del cuore! Eh sì, oggi tu devi proprio essere impazzito, Louis! Ma guarda un po’ cosa mi viene a dire oggi questo qui: il metro del cuore! Mi sa che non sono il solo ad essere suonato in questo quartiere”. Jack guarda Louis scrollando la testa. “Oggi la tua faccia sembra un peperone rosso arrostito. Che ti succede, Louis!”.

“Jack,” dice Louis, “oggi la più bella donna del Pacifico mi prepara un pasticcio di rognone e carne che è la fine del mondo”.

“Lo dicevo io: oggi sei più suonato di me”.

° ° °

Il giorno dopo Louis incominciò a raccontare a Helène.

“Sorvolo il tempo di quando facevo l’avvocato ed ero fidanzato con una ragazza dell’alta borghesia. Queste sono cose da sorvolare, cose che non fanno storia. La vita parte dai bassifondi, si sgrana di qua e di là, ovunque, e ovunque lascia qualcosa, ovunque lascia sogni, illusioni, gioie, dolori, amori e morte. Se fai l’avvocato e ti sposi con una ragazza che non ti dà e non ti crea problemi di nessun tipo, con la vita hai chiuso. Chiuso, Helène! Certo che i problemi esisteranno sempre: questa è la formula umana dell’universo!

Helène, io so che tu sei dentro queste mie parole”.

“Sì” disse Helène.

Adesso posso incominciare a raccontare, sapendo che ho un’anima.

Sfruttai vecchie conoscenze importanti nel giornalismo e mi trovai in un Paese neppur segnato sul mappamondo. In quel Paese c’era la guerra e io fotografavo la guerra, fotografavo la morte, le macerie, i prigionieri, i coraggi, i tradimenti, le lussurie delle retrovie e tutto il fango possibile. Fotografavo il coraggio e la retorica, le fughe e le bombe a mano, e poi ancora, e sempre, e all’infinito, le mine, le mitragliate, le bombe dirompenti, le bombe incendiarie, i bengala, gli schizzi negli occhi, i bombardieri nel cielo, i caccia in picchiata, i saluti militari, i soldati pieni di fango e di paura nelle trincee. Tutto era nel mio mirino, tutto era nella mia mente, tutto era nel mio cuore. Coraggio e retorica! Flash, e tutto è Queen Jazz, tutto è urlo, tutto pensa, giudica, sogna, resta nei colori e nelle immaginazioni.

Ma c’è la Morte!

Montagne di elmetti, montagne di baionette, fumo sulle corazzate che colavano a picco, mani ben curate che firmavano proclami di guerra, di fame, di odio, di vittorie fasulle, occhialini riflettenti su quelle mani ben curate e senza calli. Mare nero di petrolio bruciato, armi puntate sul cielo, armi scavate nella terra, nuvole di polvere da sparo sulle vegetazioni carbonizzate. Fotografavo e scrivevo di generali incazzati, di assalti di marines, di soldati insabbiati in grosse buche sulle spiagge e pronti per gli assalti. Scrivevo di donne e bambini che salutavano i soldati e stavano con loro a cantare gli inni di libertà accompagnati dalle fisarmoniche e dai clarinetti. Scrivevo delle autoblindo e dei carri armati, delle grosse tartarughe di ferro, che, coi cingoli impantanati di melma e di sabbia, strisciavano nelle vie imbandierate. Scrivevo di concerti improvvisati da compositori alla Jeff Beck, alla Commodores, alla Manfred Mann’s Earth Band, alla Harold Melvin, alla Chic: tanto per fare nomi! Scrivevo di sale da ballo con le cantanti avviluppate voluttuosamente ai microfoni.

Dunque fotografavo, dunque scrivevo, dunque bestemmiavo contro nessuno, perché il nemico io non lo vedevo mai, anche se, ovunque andassi, inciampavo in cadaveri affumicati, e sul mare vedevo olio che bruciava e sulla terra cumuli di macerie alte come altiforni mi si presentavano improvvisamente davanti agli occhi. Correvo di qua e di là e impazzivo, mi incazzavo, perché sapevo che tutto ciò che stava accadendo era inutile e cosa ancor più grave era che sapevo con certezza animalesca che tutto ciò che facevo era assolutamente inutile. Lo vedevo bene, che in quel Paese non c’era futuro! Lo vedevo ancor meglio, che qui dov’ero mancava ogni forma di competizione ed era assurdo credere che qualcosa avrebbe potuto operare il miracolo di un cambiamento, prima o poi. No, nessun cambiamento, assolutamente no! Qui non c’era futuro, qui non ci sarebbe stato mai futuro! Perché, dunque, avrei dovuto correre come un dannato là dove c’erano morte e macerie? Perché? Sempre me lo chiedevo e sempre dicevo a me stesso: adesso basta! Ma le mie parole dette a me stesso erano come quei cadaveri affumicati che incontravo in ogni momento delle mie scorribande e come se nulla fosse io correvo, sempre e ovunque, là dove regnava la morte.

Sì, correvo sempre là dove regnava la morte, perché volevo dimostrare a me stesso che l’uomo, nonostante tutto, esiste comunque e sempre. Questa verità era dentro di me, questa verità era la mia incrollabile fede nell’uomo, dunque era mio dovere, sacrosanto dovere!, essere sempre là dove c’era stato un massacro, là dove una bomba era appena scoppiata su una casa, dove una mina aveva fatto saltare in aria un gruppo di soldati. Tutto questo, dicevo a me stesso, è l’esatto bagaglio che si porta sempre dietro il corrispondente di guerra. Il corrispondente di guerra ha il dovere, verso se stesso, di far sapere. Far sapere! Che il mondo sappia cos’è il possesso, l’ingiustizia, l’ignoranza, la crudeltà. Sapere… far sapere… che il mondo sappia! L’iniquità della guerra: di chi la vuole, di chi la osanna, di chi la firma. L’iniquità della guerra: che il mondo sappia! Spesso però mi prendeva il tormento, arrivava la crisi, mi rimbalzavano dentro le domande – sì, quante volte mi sono rimbalzate dentro le domande! – Allora gridavo tra le macerie! Allora picchiavo i pugni sui cadaveri affumicati! – No, no, no, io ci sono! Io sono tutto d’un pezzo, il mio corpo e la mia anima sono un tutt’uno, io non posso giudicare nulla e nessuno, io non posso farci nulla, non voglio essere responsabile di nulla, chiudo i miei pensieri, abbatto la mia volontà, offro la mia indegnità… la mia indegnità! La mia indegnità: a chi? Dio, Dio mio! Io non voglio annullare la Tua volontà! Perché…Perché… Perché tutto ciò? – Erano parole senza senso, parole che mettevano a nudo la mia confusione, il sentirmi impotente a capire, a partecipare, a reagire… Reagire contro chi? Contro che cosa?

Era la crisi e la crisi diventava pazzia e la pazzia ammazzava la fede in Dio. Ma Dio c’entrava in tutto quel caos? Perché, Dio, permetti questi massacri? Perché queste carneficine? Perché queste macerie? Perché tutta questa puzza di morte dappertutto, anche sul mare, anche sulle montagne, anche nel giardino del re? Ma c’è un giardino del re, qui? Dunque… dunque Dio dov’è? Non vuoi, Dio, mettere un freno a questi bombardamenti, a queste schegge, a questi tradimenti? Sei forse sordo alle tregue, ai ripari, alla pace?

Io gridavo tra le macerie e picchiavo pugni sui cadaveri affumicati.

Poi un giorno seppi di un morto del tutto speciale. Vacci, mi disse il capitano, vedi un po’ cos’è successo. Un morto speciale! Ce lo vedi, tu, un morto speciale in guerra? Senz’altro non è stato ucciso né in combattimento né è stato soffocato da qualche maceria né è stato raggiunto da qualche diabolica pallottola vagante o di cecchino. Quando arrivai, guardai il morto e capii subito che quel morto era un morto ammazzato. Le sue braccia erano troppo aperte sul marciapiede, la macchia nera di sangue sotto la testa era troppo precisa, troppo circoscritta, troppo poco di guerra. Poi, gli occhi! Occhi ancora pieni di indifferenza, troppo statici, troppo aperti, troppo lontani dalla morte. Un morto che non aveva partecipato alla guerra: era troppo evidente! Era per quella cravatta annodata troppo bene sulla camicia stirata! E il cappello stava lì, allacciato alla testa, senza un filo di polvere. Un cappello di feltro a larghe tese senza un granello di polvere? E in piena guerra? Le gambe, poi! A sghimbescio, molli, quasi composte. Loro mettevano in risalto una caduta lenta che, se non fosse stato per la tragicità della morte, avrei osato dire fosse arrivata per caso, troppo improvvisa, troppo piena di sorpresa. Beh, sì, il morto non era un morto di guerra!

“Cos’è successo?” chiesi a uno della piccola folla che mi si era radunata intorno. Intanto fotografavo il morto: prima dall’alto, poi dai fianchi, poi dai piedi, un po’in campo lungo e un po’ in campo ravvicinato. Nessuno degli inquirenti era ancora apparso all’orizzonte.

“Sembra un regolamento di conti” disse quello.

“Di questi tempi?” dissi. Gli sorrisi e continuai a fotografare il morto.

“Per me è proprio adesso, adesso che qualsiasi occasione è buona per mettere in pratica la propria guerra privata” disse lo sconosciuto, guardandosi intorno e continuando sottovoce, come se avesse qualcosa da nascondere: “Non è una miserabile vigliaccheria approfittare della guerra che c’è in corso qui? Almeno i kamikaze!”. Si fermò, poi disse: “Almeno I kamikaze credono nell’utopia della morte e del paradiso!”.

“Già!” feci secco, sperando che quello la smettesse.

Ma hai voglia, a quello non sembrava neppure vero di poter dire la sua.”Questa sporca guerra!” disse. “Per che cosa, poi? Per la libertà? Ma chi ci crede più alla libertà!”.

Capito, dissi a me stesso, sono proprio caduto nell’uomo giusto! Questo, adesso, non la finisce più di recitare giaculatorie. Se non trovo una scusa qualsiasi! Adesso mi allontano da lui con la scusa di fotografare il morto in una qualsiasi posizione stramba… ma sì, in senso perpendicolare rispetto alla posizione delle gambe e delle braccia. Un po’ complicato, sì! Ma almeno questi mi lascerà stare. Quello, però, come non detto! Io mi misi con le braccia in alto e la macchina fotografica stretta nelle mani e lui mi restò appiccicato al didietro e continuò a parlarmi. “Una bella leccornia per lei” disse, e lo sentii ridere. “Proprio una bella fortuna, per lei, trovare un morto così tra tutti questi morti inutili che s’incontrano in ogni angolo. Lei è arrivato per primo e non mi dica che per lei non è una bella fortuna! Adesso se lo cucina con le fotografie, poi ci ricamerà su un bell’articolo. Non è così, forse?”.

Misi giù le braccia, mi voltai e lo fulminai con gli occhi. Fortunatamente in quel momento arrivarono gli inquirenti in gruppo, magistrato in testa, e tutto lo scenario ebbe una scossa, tutto si mosse con un altro movimento, tutto cambiò. Il mio persecutore si tolse dai piedi.

Uno degli inquirenti in borghese incominciò a interrogare la folla. Così, a caso. “Lei, questo – indicò il morto – l’ha visto con qualcuno, prima? Ha sentito qualcosa: qualcuno che gli parlava e poi gli sparava, oppure che lui – indicò ancora il morto – stava correndo e qualcuno lo inseguiva? Lei – sì, dico proprio a lei! – l’ha mai visto questo morto? Lei – rivolto a un altro della folla – lo conosceva! Lei sa cosa facesse?”. Tutti allargavano le braccia e dicevano: “Noi non abbiamo visto nulla, non abbiamo sentito nulla, non abbiamo visto correre nessuno, non conosciamo il morto, non sappiamo cosa facesse, non abbiamo sentito nessun sparo”.

Tutto lo staff degli inquirenti prendeva impronte, fotografava, rimuginava, prendeva misure, contornava col gesso la posizione del morto, si osservava intorno, faceva considerazioni, brancolava nelle supposizioni… “Beh, vedremo,” dicevano gli una agli altri, “ci informeremo sul morto, indagheremo nel suo ambiente, sapremo chi è, troveremo chi gli ha sparato”.

Intanto, quello in borghese diceva a ognuno della folla di tenersi a disposizione e dava ordine a un poliziotto in divisa di prendere, di ognuno, nome e cognome, indirizzo e tutto il resto. “Che nessuno lasci la città” tuonò.

Che grande idea! Che nessuno lasci la città, che nessuno vada in villeggiatura al mare e ai monti! C’era da riderci su, a fiumi di lacrime!

Poi arrivarono alcuni miei colleghi, con le macchine fotografiche e i block notes. Allora incominciò la baraonda dei flash e dei taccuini. Tutti incominciavano dagli occhi: occhi ancora larghi; poi fotografavano i piedi: piedi ormai rigidi e ben allineati; poi le braccia: braccia allargate come nella crocefissione. Fotografavano tutto il morto con rigida ufficialità, cercando l’appiglio: il significato della faccenda, lo scopo della colpevolezza. Andavano forte, la soluzione stava lì, dietro l’angolo: ma l’angolo dov’era? Bisognava andare forte, la giustizia umana non aveva tempo da perdere, la soluzione doveva arrivare presto e senza elucubrazioni. Alla fine: scopriamo la professione del morto e la soluzione è servita. Senz’altro, un fatto criminale di cronaca, il racket, la prostituzione, il gioco d’azzardo… non la rapina!

Per me era differente. Io andavo oltre ciò che fotografavo e che sarebbe andato sulle pagine del giornale. Io fotografavo quegli occhi aperti, quei piedi rigidi, quelle braccia in croce e cercavo un mistero. Voglio cogliere il segreto di quel mistero che si nasconde dietro questi occhi che non vedranno mai più la luce. Voglio cogliere il mistero di questi piedi, rigidi e ben allineati, che non potranno più calpestare nessun suolo. E queste braccia? Queste braccia, lunghe e muscolose che un giorno abbracciarono corpi giovani e vecchi, perché adesso restano inchiodate per terra, senza più forza per abbracciare nessuno? Ecco: questo morto va oltre la morte! Io ho davanti l’inestricabilità, la complessità della vita, la totalità vita-morte, corpo-anima. Adesso tenterò di cogliere con l’obiettivo il soffio della sua anima: la sua anima la sento ancora qui, fresca e presente. Così pensavo, ma più trafficavo con l’obiettivo, più vedevo la sua impossibilità di poter cogliere quel soffio. Io tentavo; facevo tentativi con i misuratori e i calibri; allungavo, allargavo, rimpicciolivo, muovevo lo zoom avanti e indietro: nulla da fare! L’obiettivo non catturava nessuna anima, neppure un minimo respiro di anima, neppure un residuo di coscienza – che sempre faceva parte dell’anima – e neppure riusciva a catturare la minima traccia della gioia e del dolore. Nulla di nulla! Così, alla fine, mi stufai di fare fotocopie di ciò che il morto era stato e ritornai in albergo per preparare il “pezzo” e inviarlo al giornale. Inventai tutto di sana pianta e sorvolai su tutti gli azzardi, le ipotesi e le tesi. Per me, la verità era – e sarebbe sempre stata – nascosta nelle pieghe del mistero di quegli occhi, di quei piedi, di quelle braccia.

Capitolo X

In albergo scrissi il pezzo, lo trasmisi al giornale via e-mail allegando le foto del morto più adatte per essere pubblicate e scesi nella hall. Nella hallo c’erano i suoni dei Sings di Lloyd Price e proprio in quel momento Lloyd Price cantava He will break your heart. Pensai al cuore del morto, pensai a tutti i cuori spezzati in quel preciso momento. Mi avviai al bar, ordinai un doppio whisky e mi diressi, con il bicchiere in mano, verso la poltrona dove stava seduto il mio collega teutone del Sun. Era altissimo, magrissimo, e portava lenti spesse. Quattro peli biondicci appiccicati sulla fronte, il resto della testa era calvo, e all’orecchio destro l’eterno cellulare. Stranamente, in quel momento non teneva nessun cellulare all’orecchio e stava centellinando un cognac tra le dita lunghissime. Mi sedetti sulla poltrona di fronte a lui. Dissi: “Fritz, è tutto inutile”.

Lui mi guardò con la paura dietro le lenti spesse. Pensai che a parlargli fosse stato uno scarabeo ercole gigante, anche perché, oltre a guardarmi con paura, lui si ritrasse tutto sullo schienale, in posizione di difesa e con le lenti appannate.

Lo guardai proprio come guarda la sua preda uno scarabeo gigante. “Sì” proseguii serio, “è inutile che noi, qui, ci diamo grandi arie di eroi. Noi, qui, non sappiamo fare altro che copiare, plagiare, spiare”. Vidi la faccia di raganella di Fritz diventare più verde del solito e pensai ai tronchi dei pioppi della sua Sassonia, sopra i quali si arrampicavano le raganelle. Andai avanti senza pietà: “E anche mentire!”. Lo lasciai arrampicare un po’ sullo schienale della poltrona e poi dissi: “Ti porto un esempio. Noi stiamo qui al caldo, poi usciamo con la nostra Rollei, pagata dal giornale e accessoriata di tutto, e incominciamo a fare clic su morti, macerie, fumi, oli bruciati, bombe incendiarie, bombardieri, elmetti, baionette, sorrisi, smorfie, visi insanguinati, storpiature di bocche di firmatari di proclami finti e bugiardi. Insomma, noi, qui, ci atteggiamo a conquistatori del mondo per il semplice fatto che sappiamo fotografare tutte le cose della guerra . Noi, poi, mandiamo le nostre fotografie al giornale, e il giornale pubblica le nostre fotografie – tragiche! –, e il mondo crede alle nostre fotografie tragiche e non crede a ciò che noi scriviamo”. Cambiai rotta. Dissi: “Ma noi crediamo a ciò che scriviamo?”. Vidi il suo verde liquame del viso schizzare sulle lenti. Mi allarmai un po’, ma non mi fermai. “Bene, Fritz!”, dissi, “continuiamo a occuparci del nostro fotografare. Bene, Fritz! Ciò che noi fotografiamo, non corrisponde a nessun fatto originale, a nessun fatto di fantasia, a nessun fatto di creatività. Con il nostro fotografare, noi non sappiamo cogliere nessun mistero di morte, nessun silenzio di morte, nessuna grandezza di morte, nessuna emozione di morte. Noi siamo dei devastatori della morte! Noi, della morte, fotografiamo il sentimento tragico e devastante, l’iniquo scenario del suo cammino orrido, il suo grido di fango, la sua mancanza di bellezza estetica. Capito, Fritz?”. Aspettai. Aspettai la sua reazione, magari il bell’ambrato suo cognac in faccia. Lo pensai anche: dai che ce la fai a gettarmi in faccia il tuo cognac!

Ma Fritz sapeva stare nel mondo, lui mi sorrise dicendomi: “Louis, tu non manchi di senso ironico. Ti ammiro. Tu stai cercando di dare un volto alla morte, oserei dire: tu vuoi dare alla morte un corpo e un’anima! Sei forte, Louis! Ma, vedi Louis, noi, qui, svolgiamo una missione… siamo i missionari della guerra, cerchiamo di fotografare l’anima – come vedi, anch’io ti parlo di anima! – della guerra, e l’anima della guerra noi la troviamo, purtroppo, soltanto nelle morti e nelle devastazioni. Louis, la nostra professione ci impone di eliminare in noi qualsiasi tipo di emozione.

Mistero della morte, silenzio della morte, grandezza della morte, sentimento della morte… via, Louis, ragioniamo! Che vuol dire: grido di fango della morte? Che vuol dire: bellezza estetica della morte? Louis, questa è roba buona soltanto per la poesia! La gente vuol vedere tutto il sangue e tutto l’orrore della guerra; alla gente interessano gli atti di violenza e di eroismo”.

Il verde del viso di Fritz aveva preso un tenue tono ramato. Adesso questo mi scoppia, pensavo. Questo granchio stufato mi scoppia davanti e mi si trasforma in una bomba distruttiva. Mi spaventai un po’. Ma il cellulare squillò, il verde ramato ridivenne verde raganella, la bomba distruttiva si sgonfiò. Fritz si rannicchiò tutto dentro la poltrona col cellulare all’orecchio e si dimenticò completamente di me.

° ° °

Ma la guerra improvvisamente finì.

Oh le unghie laccate violetto e rosso! Oh le salse nei tubetti che ti sprizzano tutte, gialle blu arancio e rosso piombato, sulle tovaglie immacolate! E gli chèques? Le dita nelle orecchie? Il caldo torrido e il freddo polare? Dov’è il glamour del Park Avenue South e l’aria violetta e gialla che folleggia sulle terrazze padronali dei grattacieli? Farfalle, aquiloni, castelli nel vento, emisferi, case sugli atolli e sulle rocce. Proseguire nella pazzia all’infinito? Meglio puntare, adesso, l’attenzione sugli attenti dei ministri, dei generali e dei capi di stato, lì, davanti al registro magico dell’armistizio: aver visto i loro lucidissimi stivali, senza una mosca azzurra né una misera navoncella a svolazzare intorno ai loro lucidi cimeli!

Tutti lì, quei lucidissimi stivali, sotto le gambe – lucidissime! – del grande tavolo circolare imbandierato: quante scartoffie! Quanti microfoni! Quante palpebre arricciate! Beh, che c’è di così strano? E’ la cerimonia della firma dell’armistizio! Ragazzi, non scherziamo! Acta est fabula, tutti i drammi, alla fine, finiscono! E, davanti a un tale evento, giù la testa, pregare! Tutti i generali e i capi di stato stavano, rigidi e allineati, visi gravi, a piccoli ranghi compatti, intorno ai due ministri della difesa impugnanti stilografiche, trasformate in “storia” appena dopo la firma dell’armistizio. Insomma, impugnavano cimeli storici di inestimabile valore. Il fatto storico decisivo avveniva sul ponte di comando di una potente corazzata con i cannoni pronti a sparare a salve contro l’azzurro del cielo e contro lo spazio riservato alla stampa. Fritz ed io eravamo vicini e Fritz continuava a gridare nel cellulare. – Sììì, – gridava, – scrivete! pubblicate subito! prelazione assoluta! Armistizio! Sì, Armistizio!, avete capito bene. Ogni notizia viene retrocessa! Armistizio, scrivete! Armistizio!

Dunque scrivete: – La guerra che ha dato morti e devastazioni, la guerra che ha arrossato di sangue terre, città e mare di questo triste Stato, è finita. In questo preciso istante i due generali in capo delle forze armate contendenti stanno patriottescamente sull’attenti e sorreggono il registro su cui è stata appena apposta la firma dell’armistizio dai due ministri della difesa dei due stati avversari.

In altro spazio diremo delle condizioni di pace, ma fin d’ora possiamo affermare con certezza che la pace ha portato il sole nell’aria azzurra della primavera. Ecco, signore e signori, il momento magico della pace è finalmente giunto al termine; i cappucci delle storiche stilografiche sono stati rimessi sui pennini d’oro macchiati d’inchiostro blu e i tappi degli champagne sono pronti per il grande botto. Le firme sono ruotate veloci sui registri, i generali mostrano al mondo intero il grande registro e noi possiamo gridare a pieni polmoni: viva la libertà! –.

Fritz, grande Fritz! Tu ami in modo viscerale e schietto la pace e continui a descrivere, puntualizzare, definire su quanto c’è da dire sul fatto eccezionale della firma. Tu sei avvolto, tutto, dal vento impetuoso della pace.

Io, appena il protocollo me lo concesse, fuggii in albergo e inviai, in modo succinto e chiaro, la mia relazione via e-mail. In modo chiaro e succinto e nel tempo giusto per essere pubblicata nell’edizione speciale della sera. Dopo la mia relazione al giornale, scesi nel viale che portava alla grande piazza e a metà viale raccolsi da una buca del selciato disastrato un pezzo di maceria, lo soppesai con gravità, presi la mira con lentezza e feci partire la maceria. Fu un lancio perfetto: il pezzo di maceria centrò in pieno l’occhio sinistro del faccione stampato in quadricromia sul manifesto a pochi passi da me. Un occhio di triglia fritta in meno, ma quell’occhio birbone incominciò a farmi l’occhiolino: occhio del c. che non sei altro! dissi piano a me stesso. Poi fuggii nel viale senza più guardare il manifesto, perché quell’occhio di triglia non era il solo a farmi l’occhiolino! Insieme a quell’occhio, tutti gli occhi di tutti i soldati, che arrancavano dietro al faccione con le baionette puntate sulle ogive nucleari e le bocche dei cannoni, mi facevano l’occhiolino.

Sull’immensa piazza della capitale liberata non potevo trovarvi altro che il grande vento della libertà. Il giorno del miracolo era arrivato dopo anni e anni di bombardamenti, fucilate, mitragliate, pallottole sfreccianti e perforanti. Tutto sulla piazza era vita, l’odore dei morti era già scomparso e la grande gioia scoppiava in coriandoli, stelle filanti, bandiere svolazzanti, coccarde e nastrini colorati. S’udivano inni, schioccavano baci, s’intrecciavano abbracci. Tutto era straordinario! Lì, in piazza e altrove, andavano a spasso liberamente con donne, vecchi e bambini, perfino tutti gli animali da allevamento e da cortile. Figuriamoci che orchestra! Grugniti di maiali, belati di capre, muggiti di tori, zoccolate di cavalli, cinguettii di ciuffolotti saltellanti di qua e di là. I ragazzi. I ragazzi avevano tutti la bandiera dello Stato sovrano liberato addosso e, a grappoli, stavano raggruppati sulle torrette dei carri armati, tenendo in bocca grossi avana accesi. Il vescovo della diocesi passava tra la folla, benedicendo e salmodiando, seguito dal suo piccolo corteo di preti tutti in nero. Una piccola bandiera bianco-azzurra copriva l’impugnatura del suo pastorale.

Era veramente una gran bella festa, con tutti quei giovani soldati che saltavano giù dai camions e volavano nelle braccia delle ragazze inghirlandate e infiocchettate. Era una grande gioia di libertà che rapiva anche il mio cuore e io abbracciavo e baciavo tutti quelli che mi venivano a tiro senza distinzione di sesso e di età.

Viva la libertà! Viva la pace! Viva il vescovo!

Poi la vidi, e la vidi proprio nel momento in cui baciavo l’anello del vescovo. Era una piccola donna, e stava laggiù in mezzo ai soldati appena tornati dalle trincee. Aveva il viso piccolo, due braccia piccole, una testa piccola, due occhi grandi e una fotografia gigante in mano che, continuamente e insistentemente, la metteva sotto il naso dei soldati. Gridava come un’ossessa: “L’avete visto? E’ mio figlio! E’ uno di voi! L’avete visto?”. Gridava a squarciagola con una voce piccola e agitava la foto in alto e in basso, asciugandosi le lacrime con il lembo dello scialle di vari colori. “L’avete visto? E’ mio figlio! Mio figlio!”. Quel grido di piccola donna sovrastava il tripudio dei canti e degli abbracci.

“Tornerà, mamma!”. Si era levata la voce di tutti i soldati. “Tornerà! Dietro c’è ancora un esercito come noi. Tornerà!”. Quella voce corale e giovane era il canto di vittoria che vinceva su tutti i baci, su tutte le benedizioni, su tutti i grugniti, e su tutta la grande festa dei mortaretti e dei coriandoli. Quella voce unica era il grande inno della vittoria e della libertà, ma la piccola donna non si dava pace e continuava a mettere sotto il naso dei soldati la foto gigante di suo figlio, correndo poi incontro ai nuovi soldati che arrivavano dal fronte e gridandogli in faccia a squarciagola: “L’avete visto? E’ mio figlio! Mio figlio!” ”.

Capitolo XI

Louis raccontava e le ore passavano e tutto era una lunga passeggiata sulla sabbia del mare. Non c’erano tempeste in mare, non c’erano pelli raggrinzite al sole.

Il racconto di Louis era la grande voce del vento.

“Lasciai quel Paese coi canti di tripudio della libertà nelle orecchie. Devo dire che certi tuoni fastidiosi non riuscivo proprio a togliermeli dalle orecchie. Dunque tornai qui e qui incominciai a fotografare e a scrivere di tutto. Scrissi di terremoti, di anarchici e di presidenti con le finte disperazioni, scrissi di vignettisti e di attrici, di commedie e di tragedie, di danzatori e di inventori. Scrissi di poltiglie di sorrisi e di lacrime, di genialità scenografiche, di immigrazioni e di big band jazzistiche. Le ballerine danzavano sempre con più slancio, le lottatrici del Women’s Suffrage Movement ce la mettevano tutta, ma proprio tutta, per scalzare qualcosa di diabolico gettato nel mondo dal buio medioevo. Scrissi anche di riserve tribali, di grattacieli fantasma, di cattedrali dalle lunghe ombre e di macchine sportive che spezzavano i nastri dei traguardi volanti. Correvo nel buio e nella luce, ero insaziabile di novità, di rischi, di finzioni e di celebrazioni. I morti venivano sotterrati velocemente, gli astronauti si davano una stretta di mano nello spazio, gli olimpionici polverizzavano i vecchi records. Tutto non finiva, tutto respirava, i miei cromosomi si separavano dal loro nucleo cellulare per diventare aerei a reazione. L’avventura continuava all’infinito.

Poi ci fu un arresto improvviso della frenesia: mi si ingrippò dentro il carrello pneumatico, che mi serviva per entrare velocemente nei meandri della vita e mi serviva, ancor più velocemente, per uscirne fuori. Succede sempre all’essere umano, prima o poi!

Quando mi successe quell’arresto, trasferii la mia casa al Boston’s bar per programmare i tempi di ritrovamento del mio magico carrello pneumatico. Lì, dividevo la bottiglia di whisky con l’amico idraulico, anche lui in grave crisi d’identità per via di qualcosa che non andava in famiglia, credo. Ogni sera ci mettevamo l’uno di fronte all’altro, la bottiglia piena nel mezzo, e ci si guardava negli occhi senza parlarci. Facevamo gli junghiani di noi stessi, l’uno di fronte all’altro, in silenzio: dunque, qual è il significato della nostra individuale esistenza? Perché adesso siamo qui, o meglio, cos’è che ci ha spinto ad essere qui? Io vorrei gridarti in faccia i mostri che mi tengono qui con te, tu vorresti fare lo stesso. Ma noi riusciamo a intenderci meglio se stiamo zitti: qualcosa dei nostri urli ce lo tramandiamo, proprio perché stiamo in silenzio. Noi siamo una via di mezzo tra l’inconscio personale e l’inconscio collettivo. Mah, era così che ci dicevamo stando zitti? Non una sola parola tra noi, e per tutta la sera e gran parte della notte, fino a quando il barista non tirava giù la saracinesca. Il whisky calava e i nostri occhi sorridevano sempre più: lo spirito del whisky entrava con voluttà dentro di noi, minuto per minuto, ora per ora. Poi la bottiglia finiva e intanto si era fatta una bella ora. Il barista prendeva scopa e stracci e incominciava a pulire e a scopare, senza dimenticarsi, ogni tanto, di lanciarci un’occhiata d’intesa. Ma noi, come i frati in convento: silenzio! Però, insomma, bisognava deciderci prima o poi ad alzare i tacchi!

A questo punto avveniva il nostro grande colloquio serale. – Pago io; no pago io, questa sera tocca a me. Scherzi, è una settimana che paghi tu, adesso tocca a me e non discutere. – Ecco, questo era tutto il grande, elucubrante, profondo, conturbante discorso che intercorreva tra noi, e questo avveniva, giornalmente e sempre, alla fine della nostra lunga serata. Eppure, a pensarci bene, tutto quel silenzio era stato uno spasso!

Beh, a domani. A domani!

° ° °

Poi ci fu il delitto dei pendolari.

La strada che percorrevo per arrivare al Boston’s bar penetrava, a un certo punto, il quartiere delle fabbriche, un quartiere buio come una grotta senza uscita. In quel punto, fatto un centinaio di passi, la strada s’impennava. Allora salivo tre rampe di scale e arrivavo a una piazzetta con una fontana al centro. Io camminavo così tutte le sere, e tutte le sere, arrivato sulla piazzetta, mi fermavo per riprendere fiato, poi mi avvicinavo alla fontana, mettevo le mani nell’acqua, mi gettavo l’acqua in faccia e ridiscendevo altre tre rampe di scale dalla parte opposta in cui ero arrivato. Ed eccomi arrivato al Boston’s bar.

Da lassù si dominava il piazzale dei tir. Questo piazzale era raggiungibile scendendo una scaletta molto ripida che partiva dal lato nord della fontana. Arrivati al piazzale, sulla sinistra a non più di cinquanta metri, si apriva la grande U azzurra della metropolitana. Nell’epoca in cui avvenne il delitto, l’autunno era già in atto, ma le sere erano ancora relativamente calde ed io, quella sera, stavo facendo scorrere sul viso l’acqua dello zampillo della fontana. Mi gettavo l’acqua sul viso con le mani aperte e, nello stesso tempo, guardavo giù sul piazzale dei tir: i grossi automezzi mi fissavano nel buio con i loro occhi spenti e le antenne ramificate sopra gli occhi si riflettevano nell’azzurro della U. Durante una delle mie abluzioni, vidi qualcosa che mi procurò un brivido di paura. Scrollai le spalle. Ma che ti prende, mi dissi, adesso vedi anche i fantasmi? Regolati i nervi, bello mio, tu hai bisogno di un calmante – o di un doppio whisky! – Risi. Contegno, ragazzo!, laggiù tutto procede come deve procedere, il silenzio della città regna e i tir dormono. Non li senti i treni arrivare nella subway? Non la vedi la solita gente che esce da sotto la grande U... Mi fermai e restai annichilito con la mano a mezz’aria colma di acqua. No, quella sera, in quel momento, da sotto la grande U non stava passando la solita gente! Quando sentii arrivare un treno, dedussi che sotto la grande U sarebbe passata la solita gente di quell’ora. Invece no! Guardai meglio e, laggiù, sotto la grande U, non vidi le ombre quiete della notte, ma vidi una turba confusa di ombre e le ombre correvano verso i tir con suoni gutturali nelle gole. Non capii. Guardai ancora meglio e ancora meno capii. Cos’erano quei suoni gutturali? Chi erano quelle ombre confuse? Guardavo e vedevo ombre muoversi nel buio e sentivo grugniti, tramestii, voci soffocate, colpi rapidi, colpi secchi, grida smorzate di aiuto, grida smorzate di dolore. In tutto ciò che vedevo e sentivo non c’era senso, e io non feci altro che gettarmi acqua sul viso e poi guardare ancora. E tutto era sempre uguale, tutto era sempre senza senso, eppure tutto lo scenario mi tramandava un senso d’inquietudine, un senso di tristezza. Tutto ciò che vidi e sentii durò una manciata di minuti, poi rividi le ombre riguadagnare la grande U e sparirvi dentro. Ritornò il silenzio di sempre. Finalmente mi scrollai di dosso l’attimo di sbigottimento e mi precipitai giù dalla scaletta ripida raggiungendo in pochi secondi il primo tir.

Lo vidi subito, lui era là, il capo molle riverso sulla ruota anteriore sinistra, le braccia penzolanti come giunchi ammollati nello stagno, il cranio fracassato con il sangue che gli colava addosso. Ricordai immediatamente quel morto ammazzato che avevo fotografato in quella guerra di terra lontana e provai un moto di ribrezzo. Qui però era tutto diverso. C’è stato un linciaggio in piena regola, dissi a me stesso, qualcuno si è sostituito alla legge, una turba di assatanati ha rincorso quest’uomo e gli ha fracassato il cranio.

° ° °

Un assassinio, un vero assassinio, e proprio davanti ai miei occhi. Avessi almeno avuto dietro la Rollei, pensai subito. Avessi almeno potuto documentare il fatto. Quegli assassini! Quelli sono assassini vigliacchi che hanno approfittato del buio! Vigliacchi!

Mi guardai intorno, ma non c’era che buio e silenzio; girai intorno al cadavere per capire la dinamica del delitto, ma arrivai alla sola conclusione che lì c’era un uomo con il cranio fracassato: quale il motivo? Buio pesto! Azzardai una supposizione: forse un assassinio a sfondo razzista! Guardai bene in faccia il morto: almeno per quel che potevo vedere della faccia! Un negro lo è, mi dissi, dunque! Restai un po’ lì a pensare con la mano sulla bocca: tutt’intorno non esisteva anima viva. Una situazione ingarbugliata, non c’è di che, conclusi. Nessun testimone, e qui un testimone ci vorrebbe come l’acqua per il pesce. Ma che c’è lì sotto? Eppure lo sento! Ma certo che c’è! Eccolo là il fruscio! Viene da là sotto, sotto il secondo tir! E’ un piccolo ansimare, è come se fosse uno starnuto mal trattenuto, come se fosse uno stridio di denti. Era un essere vivo.

“Vieni fuori!” gridai avvicinandomi al tir. Guardai sotto e vidi un vecchio impermeabile militare muoversi sotto la coppa dell’olio.“Va bene,” dissi con calma, “fai come vuoi, intanto per il tuo amico non ci sono più farfalle che svolazzano nell’aria”. Poi persi un po’ la pazienza. Dissi sostenuto: “Allora, vuoi toglierti di lì sotto, sì o no! Vieni fuori da lì sotto, cribbio! Ma non lo vedi? Hai tutto da guadagnarci, se vieni fuori, e nulla da perderci. Non lo vedi che sono un amico? Un giornalista! Uno che vorrebbe dirti qualche cosa prima che arrivi tutta la troupe degli investigatori e dei miei colleghi. Comunque fai tu, oh poi!”.

Decise di venire fuori. Era un bianco, capelli e viso rossi, trentenne, secco e messo tutto in un fagotto. “Lo vedi?” dissi, indicandogli il morto. “Lo vedi com’è il tuo amico? Adesso ha anche la testa dentro quella grossa buca! E’ un tuo amico, vero?”.

Il giovane guardò il morto e fece una faccia da Second Edition – la faccia sopra mangia a poco a poco occhi, naso, bocca e tutto il resto della faccia sotto. – Orrore! Paura! Sorpresa! Lui incominciò a tremare e mi guardò come se davanti a lui fosse apparso un alieno. Senz’altro si stava chiedendo come fossi arrivato lì e perché ero lì. “Non preoccuparti” lo tranquillizzai, mettendogli una mano sulla spalla. “Vedi, adesso tu sei sotto shock e tutto in te è ingrippato. Vieni, andiamo al Boston’s bar che è qui a due passi. Berrai qualcosa e, se vuoi, mi dirai tutto.

Purtroppo è buio, qui, e anche se ho visto qualcosa da lassù – indicai la piazzetta –, qui era troppo buio per capirci qualcosa. Vedi, io stavo lassù dove c’è una fontana, mi stavo rinfrescando la faccia, ho sentito dei rumori venire dalla metropolitana e ho visto uscire dalla metropolitana delle ombre. Poi ho sentito altri rumori, ho visto le ombre diventare scalmanate e poi, quelle, ritornare di corsa dentro la metropolitana. Quando sono arrivato qui ho capito tutto! Il tuo amico, anche se morto, mi ha detto tutto. Però non mi ha detto né chi è stato ad ammazzarlo né perché l’hanno ammazzato. Adesso andiamo al Boston’s Bar e, insieme, vediamo se possiamo arrivare a qualcosa”. Gli stavo dicendo così, ma intanto camminavamo già verso il bar. Lui non finiva mai di voltarsi indietro a guardare il morto e non la finiva neppure di picchiarsi la fronte con il pugno.

“Si chiamava Sammy” ripeteva noiosamente come una slot machine incantata. “Sammy si chiamava”.

Bene, era già qualcosa: in quella sua filastrocca aveva fatto una variazione. Bene, così andavamo già meglio! Lui camminava un po’ a sghimbescio e io gli tenevo una mano sotto il braccio. Prima di arrivare al bar, visto che ormai aveva ripreso un po’ di ragione, disse con chiarezza: “Glielo dicevo sempre, guarda che una volta o l’altra vai a finire male, fai troppo il furbo e qui nessuno sopporta le tue bravate. Tu credi di essere furbo, ma a questi di qui i furbi non piacciono per niente e se continui così prima o poi ci rimetti le penne. Fai come vuoi, Sammy, la vita è la tua, io ti ho avvisato. Ma lui, nulla! Come risposta lui mi rideva in faccia. – A questi rognosi mangia stecchi io piscio addosso – mi diceva, e rideva.

Dopo aver detto tutto ciò con calma, riprese a scalmanarsi un po’, dando dei calci in aria: alzava il piede e la gamba e dava calci all’aria, chissà perché!

“Calmati” gli dissi, stringendogli di più il braccio. “A proposito come ti chiami?”.

“McNamara,” mi rispose subito, “sono irlandese dell’Ulster”.

“Bene, McNamara, adesso calmati ed entriamo qui”. Eravamo arrivati al Boston’s. “Entriamo, MacNamara” e spinsi la porta.

Al tavolo, dove passavo tutta la sera, c’era già l’idraulico e la nostra bottiglia di whisky piangeva già un po’. “McNamara,” dissi all’idraulico, indicandogli il giovane. “E’ appena scampato a un linciaggio” gli spiegai, “il suo amico, invece, ci ha lasciato le penne”. L’idraulico lo guardò senza muovere un solo nervo della faccia. Sarebbe stato inaudito se avesse detto qualcosa! Per difesa o per offesa, lui non parlava mai. Era fatto così! Dunque, dopo la presentazione di McNamara, lui, per tutta la serata non avrebbe aperto bocca, era nel suo stile.

Riempii un bicchiere, lo porsi a McNamara e lui lo bevve d’un fiato. Gliene riempii un altro. “Visto che adesso muovi la bocca come un mantice di fisarmonica, parla pure McNamara” gli dissi con molta spontaneità perché si sentisse a suo agio. “Tu parli e io ti ascolto fino in fondo. Capisci? Fino in fondo, dall’inizio alla fine”.

McNamara spiegò subito: “Stavamo sul treno della metropolitana ed eravamo un po’ su di giri; meglio, Sammy era su di giri più del solito. Nel vagone sonnecchiavano almeno quindici pendolari e là in fondo, tutta sola, stava una ragazzotta seduta che, come se niente fosse, mostrava tutto, proprio tutto! Ha capito giusto: proprio tutto!

Sammy mi dice: – Quella ci sta – e parte in sesta. Io cerco di trattenerlo, ma lui mi dà uno strattone e va. Fin qui niente di speciale: Sammy è uno dei tanti balordi da metropolitana! Sammy è un balordo nato e dunque si comporta come un balordo. Solo che quella, appena lo vede arrivare a testa bassa, non ci pensa su due volte e incomincia a gridare.

I quindici pendolari alzano tutti la testa in contemporanea, allargano gli occhi come se avessero davanti agli occhi, ognuno, uno scorpione – sì, uno scorpione! –, adesso sono completamente svegli, adesso guardano Sammy come se avesse stuprato la ragazza. Intanto il treno entra in stazione e appena fermo noi filiamo via. Maledetti, quelli!” gridò McNamara con odio. “Maledetti!”.

“Calma, McNamara,” dissi appena.

Lui si calmò subito e riprese con le lacrime agli occhi: “Quelli si alzano tutti insieme e ci inseguono. In gruppo compatto. Noi corriamo come razzi e li distacchiamo, ma quelli non mollano. Se arriviamo sul piazzale dei tir siamo salvi, penso. Prendiamo la scalinata e li distacchiamo definitivamente. Sammy, però, inciampa in una grossa buca del piazzale – il piazzale ne è pieno –, cade e si sloga una caviglia. Tenta di alzarsi ma è tutto inutile: fa un passo e cade ancora. Urla di dolore. Tutto inutile! Io gli grido in faccia che se quelli ci prendono ci linciano, ma lui mi guarda disperato e può solo trascinarsi con fatica vicino al primo tir. Lì, non ce la fa proprio più! Sono cannibali! gli grido nelle orecchie, devi farcela. Ma lui sta fermo, non ce la fa, e loro arrivano”.

McNamara adesso piangeva forte. “Assassini!” gridò.

“Senti, McNamara,” dissi, versandogli ancora da bere,“adesso fai il bravo e parti da prima della metropolitana. Hai detto che Sammy era già su di giri quando siete saliti sul treno: un’anteprima ci deve dunque essere. Mi vuoi spiegare questa anteprima? Vogliamo partire dal fondo? Su, McNamara!”.

McNamara scrollò le spalle, si riempì il bicchiere, ne bevve metà e disse un po’ infastidito: “E va bene! Tanto Sammy è morto! Adesso dico cosa è successo prima della metropolitana”. Finì il bicchiere, lo riempì di nuovo ma non bevve nulla. Disse: “Prima del treno noi eravamo stati da un’altra parte a caricarci di drink e di roba. Ho detto caricarci, ma non è esatto. Io ho bevuto soltanto qualche drink, lui, Sammy, ha esagerato sia nei drink che nella roba. Purtroppo è così! Sammy ha esagerato, ha voluto fare il bullo, voleva conquistare il mondo con la spada di cartastraccia!

Adesso le dico come è andata. Charly, il contabile dei Grandi Magazzini dove lavoriamo io e Sammy, dice a Sammy: – Tu che abiti nella 120th Street: è lì che abiti, no? – Sammy fa cenno di sì col capo. – Bene – fa il contabile. – Proprio lì, nella tua via, c’è la nostra filiale. Adesso io ti consegno questa busta, che è molto urgente, e tu la porti alla guardia. Guarda che la sta aspettando! –.

–Bene – fa Sammy, e Charly, il contabile, fa a tutt’e due, a me e a Sammy: – Qui c’è la vostra busta paga della settimana. Buona serata, divertitevi –.

Tutto qui. Sammy prende la busta, noi andiamo nella 120th Street, Sammy consegna la busta alla guardia, poi noi ci guardiamo un po’ intorno. “Che io sappia,” fa Sammy, “qui, di pub e di night non ce ne sono. Nulla di interessante, qui! Mai visto nulla di interessante!” fa ancora. Poi gli viene un lampo. “Ma sì!” fa, tutto contento. “Perché non negli scantinati? Ma sì!” ripete, “la vita è laggiù”. Così incominciamo a setacciare i sottoscala, a guardare tutte le porte di ferro e le finestre coi vetri lerci. Finalmente ci sembra di aver trovato. Giù, in fondo a uno scivolo di garage da sottosuolo, vediamo una luce pervinca che promette bene. Sammy scende giù veloce e picchia sul vetro della luce. Più di una volta. Alla fine, da uno spioncino, mette fuori la testa una faccia smorta. La faccia da morto chiede a Sammy cosa vuole e Sammy gli fa vedere la mazzetta della busta paga. Allora la faccia da morto gli dice: – aspetta! – e subito dopo appare sulla porta. Intanto sono sceso anch’io e sono vicino a Sammy; così, quando l’altro appare sulla porta, ne vede due che lo aspettano con la mazzetta in mano. Quello fa: “cento a testa” e allunga la mano. Noi gli diamo, ognuno, i cento dollari e lui si fa da parte e noi entriamo. Ci troviamo subito in un salone grande come una piazza d’armi e lì sono tutti praticamente nudi, tutti praticamente ubriachi, e tutti sono ormai in viaggio, tutti sono calati, come si dice in gergo quando LSD, Ecstasy, Cannabis e tutta questa roba viaggia nel corpo insieme all’alcool. Dunque, tutti hanno una bomba distruttiva dentro! – Eccoci dove ci troviamo! – fa Sammy. – Ci troviamo in paradiso! –

– Già, – faccio io, – nel paradiso delle bombe al plutonio pronte a scoppiare –.

Ma a Sammy, quelle bombe mettono le ali.

Comunque, prendiamo posto sul pavimento e ci sediamo proprio sopra una scritta paradossale. La scritta dice: – Here, no mix alcool with any drug –. Altro che paradossale: paradossalmente paranoica! assurdamente demenziale! diabolicamente contraddittoria! Dunque noi ci sediamo al centro della scritta circolare: è una scritta venti per venti di diametro, e il salone ha un diametro almeno settanta per settanta! Dunque, noi ci sediamo e Sammy incomincia a mescolare alcool con droga: alla faccia della scritta!”.

McNamara bevve e riempì. Continuò: “Restammo lì per un paio d’ore, poi, una volta usciti, fu dura per me tenere a bada Sammy: sembrava Shoot Out At The Fantasy Factory, tutto nel blu, tutto nelle stelle, tutto nel volo fantastico delle scarpe, dei foulard variopinti, dei cappelli gialli e delle dita macchiate di cielo. Quando entrammo nella metropolitana, Sammy era praticamente ingovernabile e io ho fatto tutto ciò che ho potuto. Poi è salita la ragazza ed è successo quel che è successo.

E’ andata così” finì McNamara, e bevve d’un fiato tutto il whisky nel bicchiere.

° ° °

“Occhi di buio,/di silenzio,/di campo d’attesa./… Occhi d’infinito:/un lungo silenzio di ossa,/di mani di croce./La morte ha grandi ali/di deserto;/la morte ha/un cammino bianco/di sabbia,/un cielo vuoto/di suoni,/un soffio sordo/di cammelli…”.

° ° °

Poi ci fu l’inchiesta su quell’assassinio e McNamara disse alla polizia le stesse cose che disse a me al Boston’s bar. Gli investigatori vollero sapere tante cose e il più delle cose non entravano per nulla nel nucleo del problema, che era l’assassinio di Sammy. Era la prassi, era l’approfondimento del caso nei meandri bui delle cause e degli scopi – cosa c’entravano poi gli scopi: mah! Noi, dissero gli inquirenti, per arrivare alla conclusione del caso – insomma, per fare chiarezza totale sull’assassinio –, dobbiamo indagare, analizzare, fare domande indiscrete anche sul morto, anche su McNamara, e, perché no, anche su di lei. Già, anche su di lei! Oh questa poi! Sì, caro signore, è nostro dovere fare luce completa sul caso; seguire ogni pista, perché ogni pista è buona per arrivare alla scoperta dell’assassino o degli assassini. Già, dissero gli inquirenti, sembra ci sia stato un linciaggio da parte di persone che si trovavano su un treno, ad un’ora precisa, e per questo linciaggio ci sono testimoni, ma… Eh, ma quel morto puzza un po’, è d’accordo? Sì, ma i pendolari del treno? I veri responsabili, la loro incontrovertibile colpevolezza, la loro mostruosità mascherata? Mah, dissero loro, noi dubitiamo! Non ci sono prove chiare contro questi pendolari, c’è molta confusione. Sì, ma c’è un morto: quello è ben una prova certa! Quello è un morto vero! Sì, ma… Per esempio, lei! Lei, dice, ho visto. Visto che cosa? Ombre, solo ombre! Ma quelle ombre hanno ammazzato! Ammazzato? E da quando in qua le ombre ammazzano? Ma c’è o non c’è il morto? Io l’ho visto con questi miei occhi. Era là, vicino alla ruota anteriore sinistra di un tir, aveva la testa fracassata, aveva il sangue dappertutto: se non era morto, quello! Ma non ci sono dubbi: il morto c’era, c’è stato, c’è, di questo non si discute: ci mancherebbe! Nessuno mette in dubbio! Però…ecco, vede, il fatto è questo: da una parte c’è la parola di questo giovane, di McNamara che, proprio quella sera, insieme al morto, si è riempito di alcool e di droga… Di droga, no! Lo dice lui, no: lei ne è certo? A me non sembrava sballato! A lei non sembrava sballato, però deve ammettere che questo giovane, questo McNamara, in un covo di droga c’è stato! Bene. Dunque, riprendiamo. Da una parte, dicevamo, c’è la testimonianza di McNamara, dall’altra c’è la sua. Lei afferma che ha visto soltanto ombre, e queste ombre erano confuse e strascicavano i piedi nel buio. Noi adesso le diciamo: davvero, quelle ombre, erano quindici pendolari che ammazzavano? Le ombre che lei ha visto erano volti anonimi, sconosciuti… fantomatici!

Poi c’è una ragazzina che mostra tutto! Eh già: una ragazzina con la gonna lunga come un fazzoletto! Una ragazzina come ce ne sono a migliaia al giorno d’oggi! Ma questa ragazzina, dov’è? Lei l’ha vista? Noi l’abbiamo cercata dappertutto, ma… di lei, nulla! Un fantasma! Forse il sogno di un alieno? Sì, sì, non si preoccupi: indagheremo ancora, approfondiremo ancora ogni cosa, vaglieremo, analizzeremo, concluderemo. Ci mancherebbe altro! Però, lei deve ammettere, noi al giudice dobbiamo mettere davanti prove concrete, prove tangibili, prove che il giudice stesso possa toccare con mano… Non ombre, non fantasmi, non sogni! La giustizia, per essere vera, deve avere prove che si toccano, non crede?

° ° °

Sammy lo onorai a modo mio nel giorno del Memorial Day, quando lo Stato e la Giustizia onorano i grandi eroi della patria. Quel giorno arrivai sull’immenso piazzale del cimitero e già un picchetto d’onore di soldati era schierato sull’attenti. Divisa delle grandi occasioni, bottoni d’oro che luccicavano, elmetti lucidati a piombo, fucili che brillavano nei raggi del sole, guanti bianchi immacolati. Sui loro visi leggevo la fierezza dell’orgoglio per essere stati prescelti per quel sacro servizio di umanità.

Entrai nel cimitero con un vasetto di mughetti in mano. Sulla destra, migliaia di nomi stampati sulle pareti; sulla sinistra, altre migliaia di nomi; davanti, laggiù nel campo sterminato, migliaia di piccole croci, migliaia di campanule violacee e di margherite giganti. Dappertutto, a destra, a sinistra, nel campo, gente in cammino e in silenzio. Restai immobile a decidere: a destra, a sinistra, davanti? Ci pensai su un po’ e decisi: a sinistra. Camminai lungo il corridoio di sinistra, contai cento passi e mi fermai. Chiusi gli occhi, feci scorrere l’indice sui nomi della parete, fermai il dito, aprii gli occhi e lessi il nome dove si era fermato il dito: John C. Smith. Bene, John C. Smith, dissi piano, per oggi, soltanto per oggi, tu devi fare un po’ di spazio vicino a te. Sai, oggi ti metto vicino un certo Sammy che non conosco. La sua storia sarebbe troppo lunga per raccontartela, tu, però, che sei un eroe, capisci già tutto, lo so. Dunque, soltanto per oggi, ti prego di accettarlo vicino a te con amicizia e discrezione. Ti faccio questa preghiera, perché so che lì, dove sei, queste cose hanno ancora il valore che meritano Stagli vicino, a questo Sammy, John C. Smith! Fa che trascorra una giornata come si deve, una giornata di gloria, di gioia, di amicizia. Come un fratello trattalo, John C. Smith! Mi raccomando! Adesso ti lascio qui, ai tuoi piedi, questo vasetto di mughetti: sono per te e per Sammy. Ciao, e buona giornata!

Uscii. I visi del picchetto d’onore stavano fieri nel sole.

Capitolo XII

Sì, uscii nel sole a cuore leggero, ma il sole era rigato di lacrime. Adesso, però, punto e a capo: “Andrai nel sole e ci saranno lacrime al tuo seguito”. E’ così, che ci puoi fare, Louis?, mi dicevo, e andavo avanti. Adesso stai attento bene: lo senti il treno che arriva? Bene! Eccolo che arriva, arriva e ti soffia alle spalle e tu hai paura che ti venga addosso, ma non è così. Lui ti si affianca, sta al tuo fianco, ma al tuo fianco ci resta per un attimo, per un solo centesimo di secondo. Vedi, è arrivato, ti è rimasto al fianco per un attimo e già ti è fuggito davanti. Guardalo bene adesso, perché ti fugge via sempre più… sempre più! Lo vedi adesso cosa fa? Adesso sta imboccando la galleria! La vedi quella bocca nera che sta ingoiando il tuo treno? Ecco, il tuo treno è entrato, la galleria l’ha ingoiato e lui scompare nel buio. Lo senti ancora il suo rombo sferragliante? Adesso è diventato soltanto un ronzio, adesso un flebile sospiro, adesso ancora un ultimo rantolo di vuoto. E’ così, Louis! La vita è uguale! La vita è questo treno, ma tu non piangerci su. Tu non puoi farci nulla, credimi! A te conviene, se non vuoi essere travolto dal treno, scansarti dai binari. Vedi, quando lui arriva, togliti dai binari! Se non ti togli dai binari, non è colpa sua se ti travolge ma colpa tua. Sei d’accordo? Vedi, se tu sei d’accordo, alla fine sul treno puoi anche farci un bel viaggio. Comodo e salutare.

Erano questi, più o meno, i miei pensieri, e io camminavo nel quartiere del grande cimitero, lungo il viale percorso dal metrò sbalzato fuori in superficie all’improvviso. Il metrò appariva all’improvviso, percorreva tutto il viale e scompariva di nuovo nella galleria, appena dopo il ponte di ferro sul fiume. Camminavo nel quartiere del grande cimitero, e in questo quartiere abitava anche Lisa.

Lisa, il mio primo amore, l’amore del molo del porto di Buffalo, l’amore dietro il grande muro sferzato dal vento delle acque fredde del lago. Ma cos’era quel vento? Quel vento non era altro che l’alito immortale dell’amore! “… Ancora una traccia soffice/ sulla sabbia arsa/ della battigia,/ ancora un guizzo/ accennato/ di un’immagine,/ ancora l’invisibile tormento/di un sogno…”.

Camminavo, pensavo, andavo a trovare Lisa, il mio primo amore. Ineguagliabile amore! Da lei non ero mai andato. Perché andare a trovarla? Perché soffrire inutilmente? Comunque io portavo con me, sempre, l’indirizzo che lei mi aveva dato a quel congresso: tema “Test embrionali”, di cui lei era l’autorevole relatrice. Vienimi a trovare, mi aveva detto. Se mai venissi in città! Se mai ti fermassi in città per un po’! So che non ti fermi mai troppo in un posto! Invece, io ero venuto in città e già ci abitavo da tre anni. Ma in Menstreet, dove lei abitava, io non ero mai andato. Abito in un grattacielo che tocca il cielo, mi aveva detto.

Adesso Sammy, John C. Smith, il Memorial Day, il grande quartiere, la grande emozione mi avevano messo dentro tutta la gioia e tutto il dolore necessari per andare a trovare Lisa.

Arrivai sotto il grattacielo e guardai lassù, al quarantesimo piano dove lei viveva. Prima ancora di entrare, sentii una voce chiamarmi: era la voce di Lisa? Erano il sogno, la fantasia, il desiderio? Entrai nel vasto atrio, mi diressi all’ascensore indicatomi dal portiere, schiacciai Lisa Lafayette, quarantesimo piano. Lisa era di origine francese.

Quarantesimo piano: Lisa mi fu davanti. Lisa era lì, Lisa era il grido dei gabbiani dell’Erie. L’abbracciai e le sfiorai gli occhi con le dita: lei mi stava offrendo il viola Montana dei suoi occhi! La prima cosa che fece fu di tirarsi indietro con la mano una ciocca di capelli grano maturo, poi mi baciò appassionatamente. Dietro di lei ronzavano i computer. “Louis!” disse soltanto. “Louis!”.

Entrai in uno salotto spazioso e restammo a guardarci in silenzio, seduti sulla stessa poltrona di raso color pesca. Poi lei disse, alzandosi: “Arrivano!”.

“Chi arriva?” dissi divertito.

“Quelli dello scimmione che sta di là. Loro vengono per i tabulati dei test che preparo. Sono in quattro e sono sempre puntuali”. Guardò l’orologio da polso, corse veloce alla finestra e guardò giù. “Eccoli,” disse, “sono già sull’ultimo scalino dell’atrio”.

“Perché non lo liberi?” mi venne da dire istintivamente. Feci un cenno col capo alla stanza del computer.

“Non cambi mai, Louis!” disse sorridendomi. “No che non cambi, no che non puoi cambiare. Non potevi cambiare allora, non potrai cambiare ora”. Le tremavano le labbra e contava i piani con le dita. “Trentesimo” disse. “Che faccio, Louis?”.

“Mandali al diavolo” dissi. “Voglio stare solo con te”.

Lei fece cenno di sì col capo, corse alla scrivania, tirò un cassetto, raccolse un fascio di tabulati e si diresse con passo deciso verso la porta. Uscì senza dirmi nulla e proprio in quel momento sentii il ronzio d’arresto dell’ascensore. Là fuori ci fu un borbottio di parole, qualche affermazione decisa, qualche tono più alto del solito, poi Lisa ritornò. “Supermen imbecilli!” disse. Andò al mobile bar e mi versò uno scotch. “Poche parole, qualche richiesta per il futuro e la decisione di andare a studiarsi i tabulati nel loro studio. Supermen imbecilli!”.

Mi sorrise. Restammo in silenzio, i riflessi dei cristalli delle finestre ci regalavano fasci di fantasia: mano nella mano, cuore contro cuore, respiro contro respiro. Le luci dei cristalli catturavano i nostri pensieri, io ricordavo una ragazza, gli occhi viola del Montana, i capelli oro del grano del Kentucky, la passione incandescente dei vent’anni. Io ricordavo una ragazza, che mi offriva la sua anima e restava appiccicata al grande muro sbrecciato del porto, che ci riparava dal vento freddo del lago.

“Ricordi” disse lei alla fine. “Il grande muro, il nostro grande muro, il nostro grande muro dei baci. Ricordi i nostri abbracci che ci tenevano stretti per tutta la sera, per tutte le sere, col vento che ululava sopra le nostre lacrime d’amore. Ricordi? Il grande muro noi lo chiamavamo il nostro muro bianco. Ricordi? Il nostro muro bianco era bianco, perché l’umido del lago aveva trasformato il gesso della sua calce in fiore di farina”. Lisa mi abbracciò con impeto. “Louis,” disse, “come correvi allora! Quanta fretta avevi di arrivare! quanto volevi arrivare!

Perché, Louis? Perché si corre sempre così in fretta? Perché si vuole sempre arrivare così in fretta? Perché si ha sempre paura di non arrivare in tempo?”. Mi torceva le dita, mi baciava, si aggrappava al mio collo, mi offriva le lacrime più calde e più atroci. “Quanto abbiamo corso, Louis! Perché, adesso, non c’è più tempo per tornare indietro?”. Mi guardò implorante. “Che ne è stato del nostro grande muro bianco dei baci? Perché… perché!”. Sentii il profumo delle sue labbra penetrarmi le carni, sentii le sue lacrime bagnarmi gli occhi, sentii una lama affilata di coltello tagliarmi il cuore a pezzetti. Anch’io piangevo. “Si muore, Louis! Si muore sempre un po’ di più, e ancora sempre di più”.

Il profumo delle sue labbra era l’intenso richiamo dei gabbiani della nostra gioventù.

Capitolo XIII

Avevo bisogno di cambiare aria. Il Boston’s mi andava stretto e così anche l’idraulico. L’idraulico mi andava stretto, perché quel modo di misurare il nostro umore, tutte le sere, attraverso una bottiglia di whisky alla fine mi aveva stomacato. Così decisi di ritornare al mio vecchio bar in Times Square, all’Hasting’s, quello della gente che conta, quello della gente importante della Borsa, quello con i grattacieli di cristallo davanti e l’atmosfera da Red Sails In the Sunset, con variazioni di Psonic Psunspot: oh, rosso di sabbia che allarga il cuore! Oh, angelo vezzeggiante su mare rosato viola, in volo verso fiamme ardenti d’ignoto! Goodbye Blue Sky! Don’t Take My Coconuts! Parade! Safety Dance/Security! Tutto si fa per The Out For Blood! Sparate di qua e di là, bolle nell’acqua, bolle nello spirito, bolle nel richiamo prepotente dell’amore. Pazzia ovunque!

Non era il posto adatto per trovarci la quiete, non era il posto ideale per berci su una bottiglia di whisky con un avvita tubi: tutta la sera senza una parola, per trovarvi uno sguardo che ti faccia vivere per un solo istante. No, non era tutto questo! Ma l’Hasting’s, adesso, era per me il top per passarci le serate e anche le giornate intere. Lì, almeno, non c’erano pericoli di portarci i McNamara irlandesi, che ti parlavano di alcool, di droga e di amici che importunavano ragazzine che mostravano culo e tette in metropolitana. E non parliamo, poi, di quegli irlandesi che ti sbattevano in faccia pendolari omicidi, assolti senza mai essere stati importunati né da poliziotti né da tribunali. Lì, all’Hasting’s, potevi trovarci il broker con la valigetta piena di titoli misteriosi e di intermediazioni finanziarie del colore del cielo in tempesta; lì, potevi trovarci il croupier buttato fuori dalla sala dei giochi d’azzardo o per eccessiva sbadataggine o per eccessiva onestà. Lì, poi, potevi anche farci lo spuntino o la cena flash, servito con roba del tutto adatta a mantenere la linea perfetta del corpo. Fitness and Company. Dunque, mi trasferii all’Hasting’s.

Quel giorno stavo lì, tutto solo, e avevo davanti la mia solita bottiglia di vino rosso e le mie solite uova strapazzate al bourbon. Era il tramonto e io pensavo ai laghi della Lower Peninsula, a quei laghi con gli orsi che venivano sulle rive a mettersi in posa davanti alle cineprese giapponesi, dopo essere scesi dalle foreste di betulle profumate di rododendri rosa di monte.

Intanto Lionel aveva sostituito Santoro al banco di mescita e, visto che a quell’ora non c’era mai gente, lui si stava concedendo bevute extra di whisky e di scotch. Dopo essersi concesso il suo ultimo scotch extra, venne al mio tavolo a discorrere un po’ con me. Lo faceva sempre, a quell’ora. Ma quel giorno io non ero in forma, qualcosa dentro non andava per il verso giusto. Comunque lui venne – puzzava già un po’ troppo di alcool – e si sedette davanti a me.

“Se non si sta un po’ con noi stessi adesso!” disse con aria da intellettuale. “Fare un piccolo break al momento giusto, fa bene alla salute e ritempra lo spirito. E a quest’ora il break è d’obbligo, visto che di clienti non se ne vede; poi, fra poco, tutti dentro! Chi li capisce questi clienti di qui?”.

Guardò fuori, il sole batteva ancora sull’insegna della grande ruota poco distante: una ventina di metri al massimo! Improvvisamente lo vidi trasalire e sventolare il dorso della mano in segno di stizza.

“Le vede?” disse seccato.

Guardai in quella direzione che mi indicava, ma non vidi che turiste georgiane che ammiravano incantate il grande getto d’acqua riproducente l’EmpireBuilding, proprio sotto l’insegna della ruota.

“Per la verità” dissi con indifferenza, “non vedo che turiste piene di meraviglia”.

“Già, proprio quelle!” fece lui.

“Che c’è di strano in quelle turiste?” feci io.

“I loro sederi” fece lui. “Grossi sederi sudisti fatti a mela!”.

Mi venne voglia di mollargli un ceffone, ma aspettai con pazienza il seguito.

Lui disse: “Quando ci vuole ci vuole”.

“Quando ci vuole ci vuole?” dissi sorpreso.

Lui non si scompose e spiegò: “Dico io, quando lo stile ci vuole, ci vuole! Ma li guardi un po’ quei sederi! Secondo lei, quei sederi sono forse rinascimentali? Sono forse rococò? Hanno forse le fattezze delle donne di Modigliani o di Klimt? Ma via, siamo seri! Tutt’al più io li accosterei all’arte aborigena della Nuova Guinea o forse ancora meglio all’arte delle tribù del Sepik, all’arte etnografica, all’arte mitologica, all’arte antropomorfa delle Isole Caroline. Sederi bassi, sederi obbrobriosi, sederi, oserei dire, osceni”.

Cavolo che mente! E che cultura! Lo guardai ammirato. Per essere un imbecille, aveva del talento. Gli dissi: “Visto che ancora puoi, ti consiglierei di fare un salto in Fulton Street, che è qui a due passi”.

Lui mi guardò di traverso. “Che ci vado a fare in Fulton Street?” disse.

“Vacci!” gli dissi con fare pungolante, “portati sul lato del mercato del pesce, mettiti di spalla al cancello d’entrata e guarda davanti a te: vedrai un grande negozio di moda. Allora avvicinati alla vetrina, osserva bene la sposa tutta vestita per volare all’altare, entra nel negozio, vai dalla commessa, chiedile di farti vedere il manichino della sposa e vedrai: il manichino t’incanterà! Quel manichino è un amore di manichino, e la donna che rappresenta è leggera come le piume del gallo cedrone del Tonchino. Vedrai: è una regina! Bella più di una delle Grazie, leggera più di Frine quando si posa davanti all’Aeropago per farsi ammirare dai vecchioni”.

Lo guardai e capii che non aveva capito troppo.

Ma io insistetti: “Però devi fare presto!”. Diedi un’occhiata all’orologio che tenevo al polso. “Guarda che se non vai subito, rischi di trovare il negozio chiuso. Oppure, peggio ancora, rischi di non trovarla più, la sposa, o perché l’anno comprata o perché l’hanno nascosta per sempre nel ripostiglio. Vai presto, te lo consiglio!”.

Lui stava immobile e imbambolato.

Gli ricordai ancora: “In Fulton Street, di fronte al cancello del mercato del pesce, negozio di gran moda moderna, manichino…”. Mi fermai per un attimo. “Il manichino della sposa più bella del mondo. Leggera e senza sedere sudista fatto a mela!”.

Capitolo XIV

Sì che ci vado dagli orsi, mi dissi un giorno di quelli bui. Certo che non vado a fotografarli come fanno i giapponesi. Proprio no! Io, quando vivevo a Buffalo, ci mangiavo le noccioline con loro, e vuoi che adesso vado a fotografarli? Loro scendevano dalle foreste di Jamestown, da Lorain, da Ann Arbor… ecco, Ann Arbor! Andrò ad Ann Arbor, là non ci sono mai stato. Farò così: arrivo a Cleveland col treno, prendo la coincidenza per Detroit e mi fermo ad Ann Arbor. Sì, vado ad Ann Arbor!

Dunque partii. Filadelfia, Pittsburg, Cleveland: campi di grano arati di fresco, altiforni, tavole rotary di pozzi di petrolio, nessun viaggio che m’ispirava qualcosa. A Cleveland torno indietro, mi dicevo ad ogni fermata del treno. Mi sto annoiando terribilmente. E sì che avrei dovuto ricordarmi di questi posti!

Il treno correva veloce, in bilico sull’orlo dell’universo, e catturava gli odori delle patate, dei carboni e dei petroli mescolati insieme. Sonnecchiavo e mi perdevo nei sogni delle praterie di Charlotte, di Greenville, di Knoxville… Ecco, là c’era ancora il grande caldo e i semi delle valve dei frutti del cotone si ricoprivano di bambagia. I fiocchi volavano nelle ceste e i raccoglitori cantavano tra le piantine mature: “Vengo questa notte a cantare e a pregare,/oh, sì, oh, sì./Vengo questa notte a scacciare il vecchio Satanasso,/oh,sì, oh,sì…”. Fantasticavo, oppure cantavo in sogno con loro.

A Youngstown salì sul treno una turba di giovani e quei giovani occuparono perfino le reticelle dei portabagagli e incominciarono a cantare. Fin qui, nulla di strano: i giovani cantano sempre, in ogni luogo e in ogni tempo. Ma, ascoltandoli attentamente – stavo nello scompartimento attiguo – sentii che li accompagnava nei canti una fisarmonica. Tesi l’orecchio: beh, non è certo uno di loro a suonarla, pensai, qui c’è una maturità di sentimenti che va al di là del tempo. Vado a vedere! Mi alzai e andai nel loro scompartimento.

Lo vidi subito, vidi subito chi li accompagnava con la fisarmonica, ed era un vecchio con profondi crateri di rughe sul viso e con calli di solitudine sulle mani. Le dita erano rami secchi ingobbiti dal gelo, ma sui tasti d’avorio della fisarmonica cromatica nera, i polpastrelli volavano ancora leggeri come farfalle e le note erano lunghe, laceranti, piene di pathos. Tutti cantavano, schiamazzando, finché il vecchio, a un certo punto, alzò imperiosamente la mano e i giovani ammutolirono, desiderosi di ascoltare un suo spiritual, accompagnandolo col coro. Il vecchio incominciò a cantare e i ragazzi a fare il coro. Lui, il vecchio: “Maria ebbe un bambino/Sì, Signore!…”.

Loro, i ragazzi in coro: “Sì, Signore!”.

Lui: “Maria ebbe un bambino,…”.

Loro: “Sì, mio Signore!”.

Lui: “Maria ebbe un bambino…”.

Loro: “Sì, Signore!”.

Lui: “La gente continua a venire e il treno se n’è andato”.

E ancora lui: “Come lo chiamò?”.

Loro: “Sì, Signore!”.

Lui: “Come lo chiamò?”.

Loro: “Sì, mio Signore”.

Lui: “Come lo chiamò?”.

Loro: “Sì, Signore!”.

Lui: “La gente continua a venire e il treno se n’è andato”.

E ancora lui: “Lo chiamò Signore Gesù”.

Loro: “Sì, Signore!”.

Lui: “Lo chiamò Signore Gesù”.

Loro: “Sì, mio Signore!”.

A questo punto il vecchio fece alcune note lunghe e strazianti con lo strumento e la sua voce triste cantò: “La gente continua a venire e il treno se n’è andato”, poi fece seguire, ancora, altre note malinconiche e altri laceranti cromatismi musicali. Poi ancora lui: “Oh, dove nacque?”.

Loro: “Sì, Signore!”.

“Dove nacque?” chiese implorante il vecchio, e il coro: “Oh, nacque in una mangiatoia”, e stavolta fu lui a dire con un urlo: “Sì, mio Signore!”.

A questo punto mi misi anch’io a cantare insieme a tutti, insieme al vecchio e insieme ai giovani: “La gente continua a venire e il treno se n’è andato”.

C’era dignità umana in tutto ciò che avveniva nello scompartimento di quel treno, e alla fine ci fu anche un piccolo pubblico di ascoltatori venuti da altri scompartimenti.

Rincuorato da tanto successo, il vecchio cantò la sua storia di raccoglitore di cotone e la sua voce raccontò la grande storia di un volto scavato dal sudore e di una bocca bruciata dal grande sole della Virginia.

Arrivammo a Cleveland, il vecchio cantando gli spirituals e noi a fargli il coro. Un viaggio fantastico!

Proseguimmo tutti insieme, passammo Lorain, ci specchiammo l’anima nelle acque gelate dell’Erie, arrivammo ad Ann Arbor. Qui, il vecchio e io scendemmo, i ragazzi proseguirono per Bay City dove li attendevano altri ragazzi per il raduno annuale del pre scuola. Tutti i ragazzi, uno alla volta, diedero la mano al vecchio dicendo “grazie”.

Il vecchio e io percorremmo insieme la lunga pensilina fino alla sala d’aspetto. Il vecchio portava a tracolla la pesante fisarmonica – aveva rifiutato categoricamente che gliela portassi io – e sotto il braccio teneva uno sgabello pieghevole di tela verde. Ci lasciammo sulla porta della sala d’aspetto, lui non mi disse dov’era diretto.

Gli dissi anch’io “grazie”.

Lui entrò e io mi fermai fuori a guardarlo. Lo vidi aprire lo sgabello, sederci sopra, tenere la fisarmonica sulle ginocchia, restare per qualche tempo senza far nulla, posare poi la fisarmonica per terra davanti a lui, tirare fuori dalla tasca cucita sotto lo sgabello un grosso libro con la copertina azzurra, incominciare a leggere.

Io mi avviai verso l’uscita.

Capitolo XV

Presi per il vialone degli ippocastani, il tramonto era di ghiaccio, l’aria era fine, i grattacieli altissimi: non c’era angoscia intorno. A metà viale mi fermai a guardarli, erano in tre l’uno dietro l’altro come in cordata sulla montagna, ma non avevano corde grosse, non avevano doppie corde, non avevano ramponi, non avevano piccozze, non avevano scarponi coi chiodi, non avevano calzettoni di lana. Era una piccola famiglia del Texas: il capofamiglia in testa con camicia viola aperta sul petto villoso e chitarra con tracolla di seta azzurra, maestoso, grosso, silenzioso davanti a un leggio di rame con bibbia aperta; dietro, la moglie, metà di lui, alta e secca, il lungo naso ficcato nella schiena pesante del suo uomo, in solenne estasi di fede, le lunghe dita pronte a scattare sulla pelle del tamburo tenuto a tracolla; dietro di lei il figlio, quattordici, quindici anni, tracagnotto e adiposo, espressione di sorpresa sul viso piatto e chitarra elettrica adagiata molle sul petto corto. Vederli lì, come pugno nel ventre della civiltà industriale, sbattuti da un vento irrazionale di passione… ecco, vederli lì così, mi fecero ricordare il vento di passione che spingeva irlandesi, tedeschi, italiani, francesi a New Orleans. New Orleans, il grande sorriso che muore, la grande boccata d’aria degli sputi e della speranza. Laggiù il cielo era livido di vendetta e sui selciati correvano cavalli dai grandi occhi assenti.

A pochi metri dai tre, un pulmino Ford ammaccato di colore incerto sostava dietro un tronco di ippocastano, sulla fiancata sinistra la grande scritta rossa “oremus”.

Il capofamiglia, che stava silenzioso davanti al leggio di rame con la bibbia aperta, improvvisamente lesse. Era qualcosa sui Maccabei, poi passò a commentare lettere ai Corinzi, ai Romani, ai Tessalonicesi, appellandosi agli Atti degli Apostoli. Leggeva veloce, parlava con voce atona, a brandelli, saltava di qua e di là nel grande libro senza curarsi minimamente del gruppetto di vecchi che aveva davanti. Alla fine tuonò: “God bless America!”. Subito la moglie schiacciò il naso sulla schiena del predicatore e con gli esili polpastrelli fece risuonare di rintocchi striduli la pelle del tamburo. Intervenne immediatamente il figlio e diede di piglio alle corde della chitarra elettrica, addolcendo e ammorbidendo ogni cosa.

Infine venne il tempo del silenzio e della riflessione.

E da questo tempo di silenzio e di riflessione, si levò una voce stentorea di vecchio: “Predicatore, può il tuo dio trasformare un minatore della Pennsylvania in un attore di Hollywood?”. Ci fu un breve silenzio, poi un’altra voce ancora più stentorea fece eco alla prima: “Oppure in un molleggiato di Harlem?”. Seguì una risata collettiva del gruppo, ma i tre rimasero impassibili al loro posto, anzi il predicatore, come se nulla fosse stato detto, rifece l’invocazione: “God bless America!”. Tutto restò in silenzio. Il gruppo dei vecchi non si mosse, il predicatore sfogliò il grande libro e lesse, velocemente, il passo di San Matteo “Gesù deriso”. E nell’aria del tramonto risuonarono i suoni cupi del tamburo e le note morbide della chitarra elettrica.

Ma tutto non finì lì.

Ancora la prima voce del gruppo ritornò alla carica, e questa volta il tono era di tenore basso. “Dimmi, predicatore, tu l’hai mai visto il tuo God? Io mi auguro che tu l’abbia già visto, ma se così non fosse, io ti dico che Lui sta qui, in questa città, nel quartiere Gallup, nel mio quartiere. Non mi credi, predicatore? Se tu vuoi, ti ci porto insieme alla tua famiglia. Lì, vedrai! Lì, vedrete! Lì, conoscerete le magliette di Joe del quartiere Gallup; lì, conoscerete i jeans di Joe, e poi ancora le parole di Joe, i gesti di Joe, le grida di Joe, le spacconate di Joe, gli slanci poetici di umanità di Joe. Se voi venite con me, conoscerete anche ciò che la gente dice di Joe. La gente dice: Joe, sei il più grande! Joe, sei il più bello! Joe, sei il più scaltro… e sei anche un baro… un adulatore… un angelo… e il più elegante… il più leale… il più lesto… il più aperto… Alla fine, la gente dice: Joe, tu sei un dio! Ecco cosa dice la gente di Joe! Tu sei un dio! La gente crede di vedere dio nella persona di Joe.

La gente del mio quartiere vede dio nella persona di Joe: sai perché? Perché Joe sa leggere dentro il cuore della gente. Lui sa! Joe sa che dentro ogni cuore ci sono ombre e ci sono luci, proprio come ci sono ombre e luci nel cuore di un dio”.

Tutto era silenzio. La voce del predicatore era muta, il tamburo della moglie era muto, la chitarra elettrica del figlio era muta. Tutt’e tre guardavano il cielo e il cielo ormai era diventato buio.

La voce del gruppo riprese in tono tenorile: “Io ti dico questo, predicatore! Nel cuore di un dio non ci sono soltanto luci, perché se ci fossero soltanto luci, il cuore del dio creerebbe in ogni cuore soltanto ombre, e soltanto ombre creerebbero nei cuori caos e buio”.

La voce del gruppo era tendenziosa, ma il predicatore era un navigatore esperto di flutti e di tranelli, così aprì a caso la bibbia e lesse: “Io sono la vera vite… Restate in me, ed io resterò in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se medesimo, se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me. Io sono la vite, e voi i tralci…”. Guardò poi con occhi tondi e pii il gruppo, allungando verso il gruppo i muscoli delle sue braccia: che volesse abbracciare tutti? Spiegò in tono soave: “Il Vangelo di San Giovanni è la parola più stupefacente per penetrare il mistero di Dio. Leggete dunque il Vangelo… leggete il Vangelo di San Giovanni… leggete tutti i Vangeli!”. Lui parlava alla folla dei vecchi con voce soave e dietro di lui risuonavano i suoni cupi del tamburo e le note morbide della chitarra elettrica.

Ma ancora la voce del gruppo si fece sentire in tono tenore basso squillante: “Tu, predicatore, non mastichi tabacco nella notte! Tu non sai cos’è la notte per noi da queste parti! La vite e i tralci: altroché! Noi vecchi, qui, siamo obbligati a produrre pochi frutti: con o senza Dio! Allora sai cosa facciamo? Mastichiamo tabacco! Lo mastichiamo soprattutto di notte, quando le ore sono terribilmente più lunghe che le ore del giorno, e lo mastichiamo perché il nostro cervello resti ancora a galla. Noi vecchi, la cura del tabacco ce la siamo inventata da noi stessi, e pensiamo che anche senza essere tralci che portano frutti, il buon Dio ci aiuti a stare a galla con una buona masticata di tabacco forte, di quello trinciato e puro, di quello che dà energia al nostro bulbo, ai nostri quadrigemini, alle nostre circonvoluzioni”.

La voce sembrò che pensasse, poi riprese con molto slancio: “Predicatore,” disse, “se hai sete e sei stanco, noi ti offriamo un bicchierino per tirarti su, e così lo offriamo a tua moglie e a tuo figlio. Sì, Dio è grande e misericordioso; Dio è umano; Dio sta con tutti, di giorno e di notte, nel caldo e nel freddo, nella povertà e nella ricchezza. Ebbene, qui, ogni vecchio, su Dio la pensa così: Lui dice al vecchio: – Tu, vecchio, ama tutti come se ognuno dei tutti fosse un tuo amico. Così, adesso, io ti dico: amico, vuoi bere con noi?”.

La voce del vecchio era chiarissima; era talmente chiarissima che trapassava perfino i grandi tronchi degli ippocastani e le lunghe foglie seghettate. Era forse la vera voce della fede?

Io feci questo pensiero per un attimo, poi non volli continuare a pensarci su troppo, anche perché, ormai, era venuta l’ora di andare alla ricerca di un hotel. Così mi mossi. Camminai in direzione del lago, ma, fatti sì e no cento passi, udii nell’aria il grido del predicatore: “God bless America!”, seguito dai tonfi del tamburo e dalle modulazioni morbide della chitarra elettrica.

Poi, tutto morì nel buio.

Capitolo XVI

“Fuggi quell’attimo della notte./Ancora un poco, /un solo attimo di fiato/dentro questo lago di sale…”. Poetavo camminando, fantasticavo, dicevo a me stesso: domani mattina andrò sulla riva del lago e starò tutto il giorno con gli orsi. Certamente non li fotograferò. Insomma, certamente non li importunerò con i lampi al magnesio! Sarò gentile con loro, starò con loro come un amico sta con un altro amico e loro con me non si comporteranno come orsi. Loro capiranno che hanno a che fare con un amico e dunque con me loro si comporteranno da amici. Anche gli orsi sanno ragionare, sanno capire e sanno amare.

Sì, domani starò tutto il giorno con loro! Starò tutto il giorno con loro, perché sono io che voglio sorridere a loro. Adesso… beh, adesso, però, ho bisogno di un letto e di qualche cosa da mettere sotto i denti. Se non trovo subito un letto e qualcosa da mangiare, domani rischio di non distinguere un orso da una balena.

Feci ancora cento passi e dentro una viuzza tranquilla vidi un’insegna gialla. Mi avviai senz’altro verso l’insegna e spinsi senza titubanze la porta verde finto inglese che stava sotto l’insegna. Una bella donna in carne era là ad attendermi al banco della reception. Le chiesi se era rimasto qualcosa per la cena. Roastbeef e pane per toast, tutto quello ch’è rimasto, mi disse, oggi c’è stata una comitiva per gli orsi e, per quel che ne so, la comitiva, tutta, era molto affamata. C’è rimasto ben poco! Se vuole, le tosto il pane e ci aggiungo tè, caffè e birra bionda. Dissi che andava bene tutto e che avrei portato tutto in camera.

All’alba, quando scesi, la donna era là alla reception e le sue labbra luccicavano di burro di cacao.

“Va dagli orsi?” mi chiese.

“Sì, vado dagli orsi. Sono venuto per questo”.

La donna aveva voglia di parlare e io ero ben disposto ad ascoltarla. Lei capì e continuò a parlarmi: “Qui è tutto a posto” disse, “e gli orsi sono un bel richiamo per il turismo”. Sospirò. “Io ne ho un gran bisogno, visti i tempi che corrono. Coi lavoratori in trasferta non ho fortuna: loro vanno tutti alla taverna sul lago. Io lavoro coi turisti degli orsi, qualcuno si ferma anche più di un giorno”.

Andò subito alla macchina del caffè e io mi trasferii nella saletta della colazione dove un tavolo preparato per una sola persona mi aspettava. Non attesi molto, il tempo di aprire una confezione di marmellata. Lei arrivò con pane fresco e un piatto pieno di affettati e uova sode.

La guardai bene: era una bella signora, gentile, curata, attenta, gradevolmente presente.

Ritornò presto, ritirò ogni cosa e volle ancora parlarmi. Io ne fui contento. “Sono qui da troppo tempo, ormai” disse, le tremavano le mani. “E’ brutto stare qui, adesso. Prima mi era tutto indifferente. Passava qualcuno che mi era simpatico e io scrollavo le spalle. Non ci pensare, mi dicevo, e scrollavo le spalle. Qui la gente viene e va, e quando ti è simpatica ti lascia il vuoto, e il vuoto crea altro vuoto, ed è sempre così. Hai un bel dirti: – Resisti, prima o poi… già, prima o poi puoi soltanto spararti un colpo in bocca! La gente viene, la gente va, e ti lascia il vuoto”.

Pulì il tavolo, scopò il pavimento. “Sa cosa vuol dire avere un cuore che trabocca di sentimento e tu devi sempre nasconderlo dietro quel bancone?” disse, posando la scopa in un angolo. “Ti metti una mano sulla bocca, vuoi tenerla chiusa, non vuoi urlare, vuoi uscire un po’, andare al lago, mettere i piedi nell’acqua, sorridere agli orsi, portargli del pane e salame e mangiare con loro, farti fotografare con loro dai giapponesi, farti abbracciare da loro, farti fare le carezze… Ecco, caro signore, questo è sognare, questo è vivere, ma il tempo passa, la gente viene, la gente va, viene e va, si ferma, va via e tu resti qui. E sei sola, ed è una tristezza unica, e tutte quelle cose che ho detto non le fai mai!

Qui, la gente viene per vedere ridere gli orsi, e il più delle volte resta con loro a ridere e a scherzare tutto il giorno. Poi ritorna, mangia, ride ancora per gli orsi che l’hanno fatta ridere, e tutto finisce lì. Qualcuno lo senti che ti mette dentro del sentimento e tu quasi ci credi a questo sentimento, quasi ci speri e quasi ti si apre un piccolo rubinetto di gioia. Poi… è il suono di un violino senza corde! Qui resti, qui continui, qui continui a servire colazioni, pranzi e cene: fuochi d’artificio nella notte!”.

Una ciocca rosa cadde sulla fronte, lei la rimise a posto con le unghie affilate e continuò a cuore leggero: “Non si viene qui per starci tutto il giorno. No di certo! Faccio un esempio, prendo lei come esempio. Già di lei io ne approfitto! Manco di educazione nei suoi riguardi, la trattengo qui con le mie miserie, quando lei è venuto fin quassù per passare una giornata in tutto relax con gli orsi. Con le mie miserie la trattengo, signor Louis – mi scusi se la chiamo per nome, ma io ricordo bene il suo nome, e ho visto anche che è giornalista –.

Lei, signor Louis, ha tutta l’aria di essere una persona sensibile – a volte non è neppure bello essere sensibili! – Ma lei lo è, signor Louis, e sa anche ascoltare. Ed ecco che io, inconsciamente, approfitto di lei!”. Adesso si era seduta al mio tavolo. “La prego, signor Louis, faccia uno sforzo, mi ascolti e non mi mandi al diavolo se le rubo un po’ di tempo. Non mi lasci proprio adesso! Vedo che ha una grande carica umana: la prego, signor Louis, ascolti la mia storia!”.

Il suo viso era rigato da lacrime blu, tutto il rimmel degli occhi si fermava, inesorabilmente, sulle grosse labbra. Progettai di restare un giorno in più e di telefonare al giornale. Non ci sarebbero stati problemi! Così mi preparai ad ascoltare fino in fondo la storia della bella proprietaria dell’ “Airone bianco”, che si chiamava Kathleen.

Kathleen prese coraggio e cercò subito un appiglio psicologico. “Dare la carica a un cuore: è importante! A volte è decisivo per continuare”. Mi sorrise: aveva un sorriso umano. Le restituii il sorriso. Lei disse: “Allora lei sta qui ad ascoltarmi?”.

“Sì,” dissi, “mi lasci solo fare una telefonata e sono subito da lei”. Io ero leggero, Kathleen era leggera, l’aria era leggera, le acque del lago erano leggere, i sorrisi degli orsi erano leggeri, tutte le donne di lassù erano leggere, tutti i cuori erano leggeri, ed erano leggeri tutti i vecchi di lassù e perfino tutti i predicatori del Texas sparsi per il mondo. Quando spensi il cellulare, lei mi guardò come guarda il figlio una madre premurosa. Che pensiero mi era passato per la testa! La guardai bene negli occhi e, chissà perché, la vidi una madre che ha perduto un figlio e ha tanto bisogno di affetto.

Nella vita, a volte, il bisogno d’affetto arriva così, all’improvviso!

Aspettai, non le chiesi nulla e lei rimase in silenzio. Poi andò al bancone, trasse una grossa busta da un cassetto, ne estrasse alcuni fogli tutti spiegazzati e ritornò vicino a me. Mi disse un po’ misteriosamente: “Mi dica se portarsi dietro la vita non stanca, a me stanca insopportabilmente, eppure bisogna tirare avanti e vedere la gente che va e viene e far finta di nulla”.

Dopo queste parole disarmanti, dispiegò i fogli, cercò di stirarli un po’ con il palmo della mano e prima di leggere ciò che c’era scritto su quei fogli, disse ancora: “ Oggi, per me, è un grande giorno! Lei mi è capitato qui come un angelo! Non sono pazza, signor Louis! Io, qui, appassirò e mi trasformerò in una foglia secca, ma pazza non sono e non sarò mai!”.

Diede un’occhiata ai fogli, poi disse: “E’ una lettera di mio marito; mio marito è fuggito da me e io non so dove lui sia. Dunque lui mi scrive: – Ti odierò per sempre, anche se odiarti ormai non ha più alcun senso. Ma ti amerò, anche, per sempre, perché tu sei la mia maledizione. Non hai voluto avere fiducia in me, non hai voluto che custodissi il tuo cuore, non hai creduto al mio tormento: eppure sarebbe stato semplice! Il mio cuore è umile e io volevo la donna che è in te, nient’altro che il tormento di sentirti donna, di sentirti la mia donna nell’anima e nel corpo. Io volevo il tuo fiato, volevo la tua passione, volevo l’orgia dei tuoi sensi… volevo la tua amicizia!, ma tu mi offrivi soltanto pietà: quanta rabbia ho ingoiato per questa tua irresponsabile pietà!

Tu credevi che io volessi altri corpi, che volessi gestire altre anime nel mio cuore: ebbene, cara Kathleen, non è così! Se tu capissi realmente il tuo cuore, tu capiresti che sei sempre stata una incallita indifferente, una lontana e assente amante dei miei desideri. Io sono stato senz’altro un pusillanime, lo riconosco! Mi sono comportato, purtroppo troppo spesso!, come un servo senza nessuna volontà, senza nessuna dignità. Mi sono comportato come un uomo senza un attimo di respiro e di pace: odio, tormento, passione mi hanno sempre ossessionato! Adesso, lo so, tu cadi dalle nuvole! Tu, adesso, non credi ai veleni che mi hai offerto nei lunghi anni del nostro vivere insieme e ti è ignoto, non ne dubito affatto, il disfacimento totale del mio essere. Con te non c’è stato riposo, non c’è stata fantasia; con te io mi sono completamente dissolto nella rabbia e nell’odio per il troppo amore che ho portato per te nel cuore. Adesso sei lontana – ed è una benedizione! –, ma l’ombra della tua presenza mi inquieta sempre e non mi dà pace. Non c’è nulla da fare: io non riuscirò mai a cancellarti dalla mia anima, non smetterò mai di amarti, non potrò mai dissolvere la droga del tuo essermi dentro. Io non vincerò mai! Vorrei, adesso, dirti questo: vorrei che tu non fossi mai esistita per incontrati di nuovo e vivere lo stesso tormento, la stessa passione, lo stesso amore con te e per te, e poi di nuovo vivere la stessa rabbia e lo stesso odio per non essere capace di raggiungerti e di averti solo per me per sempre. So che ti sarà difficile capire le parole che ti dirò adesso: io vorrei essere ai tuoi piedi! Io vorrei ricominciare ad amarti e ad odiarti! Io vorrei essere ai tuoi piedi per ricominciare ad annullarmi totalmente nel corpo e nell’anima; ma appena annullato, poter essere pronto a ricominciare ad amarti e ad annullarmi, e ogni volta con sempre un po’ più d’amore per te nel mio cuore, con sempre un po’ più di passione per te nel mio corpo, con sempre un po’ più di gioia e di dolore, di sofferenza e di odio, per te, in tutto il mio essere. Perché…perché…perché! Tu mi hai insegnato tutti i perché e tutti me li hai poi dissolti… e poi, ancora, ricominciare coi perché e poi ripiombare nel buio, nell’inferno, nel disfacimento di tutto me stesso. Tu: la soluzione e la dissoluzione! Tu: la distruzione e l’angoscia! Tu: la passione e il freddo che muore all’alba! –”.

Guardai Kathleen e Kathleen piangeva e il rimmel rigava di blu i canali del naso, poi scendeva, con il suo blu un po’ più denso, fino alle labbra e al mento, poi tingeva di blu anche il colletto della camicetta bianca immacolata, e tutto ciò che ci circondava era triste, tutto era fuori posto, tutto lasciava presagire che nulla sarebbe stato mai più a posto.

Kathleen si asciugò il rimmel con il fazzoletto rosa, sporcandolo di blu, poi mi offrì il suo sorriso di riconoscenza per averla ascoltata senza infastidirmi, poi tutto fu come prima, tutto fu come se non fosse successo mai nulla, perché in fondo non era successo nulla, se non che c’era stata una rivelazione del tutto personale, del tutto intima, di una donna verso chi lei riteneva degno della sua fiducia.

“Non c’è nulla di male averle letto questa lettera, vero signor Louis? Lei, di rivelazioni della gente, ne sentirà migliaia al giorno. La gente non ce la fa sempre a tenere dentro le proprie bombe di amarezza: no, non ce la fa proprio! E lei ne ha di pazienza! Lei deve averne di pazienza dentro!”. Mi strinse le mani proprio come la madre fa con il proprio figlio.

Continuò: “Lei è qui per gli orsi che ridono alle cineprese giapponesi, ma qui non ci sono soltanto gli orsi che ridono, qui ci sono almeno due cose che lei deve sapere”. Mi strinse più forte le mani. “Adesso io gliele dico, così lei non si dimenticherà più dell’Airone bianco e neppure di me”. Arrossì un poco e ricominciò con la tiritera della gente che viene e va e quando va magari ritorna ma quella che si vorrebbe che ritorni non ritorna mai. “Chi ti lascia qualcosa non ritorna! Lui, o lei, passano e vanno e non ritornano: dunque bisogna lasciargli o lasciarle qualcosa di cui, lui o lei, non si dimenticano”. Mi prese le mani e le portò alle labbra. “Louis, la prego, non si dimentichi di me. La prego, Louis!”. Le presi le mani e le misi sul mio cuore. “Te lo prometto” le dissi. “Parlami delle due cose insolite di qui”.

Vidi che lei era felice della mia confidenza, ed era anche piena di luce, come se fosse uscita, finalmente, da un lungo tunnel buio senza uscita. Incominciò a parlare con la gioia negli occhi. “Ti dico la prima” disse. “Dunque, il turista di solito arriva qui per scacciare gli spettri che l’assillano, ma quando arriva sulla piazza dell’eucalipto, pavimentata di porfido rosa, resta stupefatto e quasi non crede ai suoi occhi. Lui, su questa piazza, vede sotto il grande albero proprio gli spettri in carne e ossa. Sono spettri coi capelli grigi e stanno tutti raccolti in circolo intorno al grande tronco, e stanno seduti con compostezza sulle panchine colorate di viola. Tutti gli spettri stanno seduti, ma uno di loro sta in piedi appoggiato al tronco e tiene in mano il giornale. Lo sta leggendo ad alta voce, e legge tutti gli articoli, perfino gli annunci mortuari e la pubblicità, e tutti gli spettri seduti stanno attenti ad ascoltare ciò che lui legge, e in testa hanno tutti il cappello grigio nero calato sugli occhi sbarrati e sognanti. Chi legge, ogni tanto si ferma e fa delle considerazioni personali. Dice, per esempio: – Capite? Ci vogliono prendere tutti per il sedere. Proprio così: per il sedere! Questi qui del giornale ci spiattellano queste notizie che vi sto leggendo, e pretendono che noi ci crediamo. Bene, cari amici, facciamo così: questi ci forniscono le notizie illudendosi che noi le prendiamo per vere e noi illudiamoli. Fingiamo anche noi, amici: facciamo finta di crederli! Loro credono di essere furbi, ma noi siamo più furbi di loro. Fingiamo, dunque! Il manico del coltello ce l’abbiamo noi! La soluzione ce l’abbiamo noi! Noi siamo gli spettri del mondo e il mondo non ci conosce –.

Il turista, a questo punto, non deve seguire alla lettera ciò che il lettore dice su ciò che legge – o ha letto –. Perché, se lo segue alla lettera, rischia di non capirci nulla e, addio curiosità per gli spettri! Comunque, quello – il lettore – continua le sue considerazioni personali. Dice: – I lupi hanno divorato tutte le coscienze del mondo, ma noi vinceremo tutte le ipotesi del mondo. Noi solo sappiamo! Noi siamo qui, adesso, per simulare un bluff e le illusioni del mondo non ci toccano, non scalfiscono la scorza del nostro cuore di minatori, di raccoglitori di cotone, di conciatori di tabacco. I nostri vecchi ci portarono in terre lontane, ci diedero come materassi un fascio di stelle, ci ruppero le ossa facendoci grattare con le unghie i fosfati delle rocce del Tennessee, facendoci spingere i vagoni di carbone del Kentucky, facendoci marcire i piedi nei liquami dei verri e delle scrofe dell’Illinois. Ecco perché le illusioni non ci scalfiscono per nulla, e qui è tutto a posto, e adesso noi ci permettiamo di leggere il giornale, e fingere di credere che tutto ciò che ci dicono le voci dei padroni è vero. Noi abbiamo una coscienza umana da difendere, dunque fingiamo, recitiamo, improvvisiamo. Non ci sarà difficile fingere, recitare, improvvisare! Noi siamo spettri prosciugati dal tempo e abbiamo occhi grandi e lontani.

Via, amici, noi non abbiamo vissuto per nulla! Abbiamo attraversato le acque disperate del Mississippi e cantato il St. Louis Blues: – Detesto vedere il sole che tramonta la sera,/mi fa pensare che è anche il mio ultimo giro… –.

Quel giorno, il lettore di turno dice così. Poi, un altro giorno, un altro lettore leggerà tutte le notizie del giornale, ma, alla fine, dirà le stesse cose del lettore del giorno precedente. Non è vero che farà altre considerazioni personali! Dirà, più o meno, le stesse cose, perché, nel mondo, tutto cambia ogni giorno, e di conseguenza cambiano anche le notizie; ma il cuore degli spettri non cambia mai. Il cuore degli spettri resta immobile: muore ogni giorno e risorge ogni giorno. Ed è, e sarà, sempre così, fino all’infinito”.

Kathleen mi spiegò questa attrattiva della piazza dell’eucalipto con vivacità, come fosse stata chiamata, all’improvviso, a una nuova vita. Era bastato poco aver ritrovato la propria vivacità, era bastato aver ritrovato il senso della fiducia in se stessa, e aver ritrovato una traccia della propria identità spirituale, che aveva creduto di aver perso per sempre.

“Adesso ti voglio dire l’altra cosa insolita. E’ molto speciale, ed è del tutto sconosciuta ai più, anche di qui!”. La sua vivacità era commovente. Disse con leggerezza: “Prendiamo sempre come riferimento il nostro turista che ha appena lasciato gli spettri dell’eucalipto. Lui, adesso, va verso ovest, direzione Detroit. Ha superato tutti i grattacieli che schiacciano il centro città e improvvisamente, a una svolta dell’ampio corso, ecco davanti a lui apparirgli una lunga cancellata in ferro, lustrata e verniciata sempre di fresco. Guarda in alto e legge sull’arco trilobato dell’ingresso un’austera scritta in gotico antico: – Jesus is coming soon –. Che vuol dire questa scritta?, si domanda, guardando oltre la cancellata e vedendo soltanto alberi sopra una collina. Sembrerebbe un cimitero, dalla scritta e dall’atmosfera che si respira intorno, ma non vedo nessuna lapide, nessuna cappella mortuaria. Entro a vedere, vediamo un po’ cosa c’è dentro. Entra.

Sul piccolo spiazzo che si trova subito davanti, c’è un vecchio con un cavallo e un carro funebre senza assi. Il vecchio, il cavallo e il carro funebre ci sono sempre. Ma lui, il nostro turista, non fa caso né al vecchio né al cavallo né al carro funebre. Lui sta lì impalato a guardare cosa succede lassù sulla collina. Infatti lassù sta succedendo un fatto stranissimo: il turista si guarda intorno, si apre perfino la camicia e la giacca, ascolta se c’è un qualche fischio da qualche parte, se c’è un qualche soffio di vento… ecco, se c’è un soffio di vento! Sì, ma perché si apre i vestiti che indossa e ascolta? Perché, lì dove si trova, di vento lui non ne sente neppure un fruscio, neppure un alito, neppure un piccolo piccolissimo sospiro. Eppure, lassù sulla collina! Lassù, lui vede che gli alberi – e sono un bel bosco – si stanno piegando fino a terra per il vento impetuoso che c’è. Insomma, qualcosa proprio non quadra! Quiete assoluta qui, vento impetuoso lassù: no, proprio non ci siamo, non ci siamo affatto! Lassù, sembra proprio ci sia la tempesta! Il turista si guarda meglio intorno per capirci qualcosa, ma non vede altro che fughe di archi trasversali, decorati di capitelli e appoggiati su semicolonne addossate. Nient’altro! Ma è proprio un mistero!, e gli viene un po’ di paura. Ma c’è lì vicino il vecchio! E’ un vecchio altissimo, fatto a piramide, e adesso sta tirando i bulloni di una bara con una chiave inglese. Il turista si sente chiamare: – Venga, non abbia paura, dei morti non bisogna mai avere paura! –. Vede che il vecchio ha tirato l’ultimo bullone e il cavallo arabo bianco fa sì con la testa. Ma sì, il cavallo fa proprio sì con la testa, scrollandola su e giù. Ora bisogna vedere: starà dicendo sì per quel che ha detto il vecchio, oppure saranno i paraocchi che gli sono troppo stretti sugli occhi? Il vecchio continua a parlargli, visto che ormai il turista gli è vicino. – Io ci gioco a carte coi morti, – dice, – e vinco anche, vinco sempre –. Il vecchio ride di cuore. – Loro stanno lì, davanti alle carte, e non parlano. Sembra, anzi, che il gioco non gli interessi, tanto sono assenti! Così, io faccio tranquillamente tutte le mani –. Adesso il vecchio fa un giro d’ispezione intorno alla bara adagiata sul carro e poi dice soddisfatto: – Tutto a posto! – A questo punto – il vecchio è proprio un originale! – dice dei versetti: – Oh, cristiani, fareste bene a pregare,/il mio Signore scrive tutto il tempo… All De Time!… Come down, come down, my Lord –. Guarda distrattamente gli alberi sulla collina, che si stanno piegando sempre più fino a toccare la terra. Ma lui, il vecchio, sembra che guardi distrattamente! In verità, sta guardando di sottecchi il visitatore, per studiarne reazione e stupore per quanto succede lassù. Poi spiega: – Trent’anni fa, lassù era tutta una sterpaglia. Adesso: vede? –. Finge disinteresse, accarezzando con leggerezza il muso del cavallo: e il cavallo continua a dire sì con la testa; su e già, su e giù! Il vecchio continua a spiegare: – Quegli alberi di lassù vengono dall’Alabama, dal Tennessee, dal Mississippi. Vengono da Eldorado, Jackson, Chattanooga… –. Declama altri versi: – Baby, da quanto… da quanto/è partito il treno della sera?… Baby, how long, how long, baby, how long? – Il cavallo, adesso, dice sì e sembra anche che pianga: grosse lacrime scendono fino ai labbroni! Il vecchio continua a spiegare: – Quegli alberi di lassù sono tutte anime che hanno risalito fin qui il grande fiume, cantando: – Quando comincia a tuonare e soffia il vento,/migliaia di persone non sanno dove andare… Io me ne sono andato/e mi sono fermato sopra un’alta collina solitaria –. Ha capito?, dice il vecchio al turista, … sopra un’alta collina solitaria! Ha capito? Loro cantavano, erranti e trasmigranti, e sapevano già con precisione che il loro traguardo altro non poteva essere che l’alta collina solitaria. Lì era la loro casa eterna! –. Smette di parlare e guarda la collina, guarda gli alberi piegati dal vento, accarezza il muso del cavallo che assente e fa un altro giro d’ispezione alla bara. Si stringe poi il nodo di una stringa, si stringe un po’ la cintura dei pantaloni, si dà un tocco distratto alla giacca: lui è tutto in nero e indossa una camicia azzurro buio e una cravatta viola Montana. E’ un grande attore che affabula e affascina. Il turista aspetta una spiegazione sugli alberi di lassù piegati dal vento, guarda la collina, resta incantato a fissare il vecchio, che si dà un’ultima toccatina al nodo della cravatta, e sente il vecchio che riprende a parlargli con brio: – Le anime che arrivano qui hanno vinto tutti i poteri della terra, perfino il potere del segno della croce! –. Si ferma e sembra avere il viso divertito. – Sì, caro signore – dice sorridendo, – ha sentito bene: il potere del segno della croce! Vede, caro signore, io sono negro e lo conosco bene questo potere… Le voglio raccontare un fatto che mi è capitato a Tuscaloosa. Bene, caro signore, allora ero giovane e andavo a fare le pulizie in una chiesa della città. Quando finivo di pulire, mi inginocchiavo davanti all’altare e pregavo. Un giorno entra il prete e mi vede inginocchiato. Va su tutte le furie e mi grida: – Vada che tu preghi, ma se ti pesco a fare il segno della croce! Bastonate, ecco cosa ti do. Ti faccio scappare io la voglia di fare il segno della croce davanti al crocifisso! –. Capisce, caro signore?… Bastonate! Ti faccio scappare io la voglia di fare il segno della croce! Ecco cos’è il potere del segno della croce, caro signore! –.

Il vecchio guarda lassù e il turista è coinvolto ormai fino al collo dal racconto del vecchio. Il vecchio affonda il bisturi nel racconto. Dice: – Se indossi il doppio petto non capirai mai la collina: la collina non appartiene a coloro che indossano il doppio petto! La collina appartiene di diritto a coloro che hanno risalito il grande Mississippi fin quassù –. Il cavallo batte e ribatte lo zoccolo sulla ghiaia come per avvertire il suo padrone, altissimo e fatto a piramide, che è giunto il momento di raccontare la storia dello Zio Sam. Insomma, vuole dirgli: – Allora, gliela racconti, sì o no, la storia degli alberi di lassù? Raccontagli la storia dello Zio Sam: tu sai che questa storia vale per ogni albero di lassù! Il vecchio finalmente capisce, fa un giro plateale del braccio verso la collina e incomincia a dire al turista: – Li sente? – Tende le orecchie. – La storia che adesso le racconterò, se la raccontano tra loro, giorno e notte, gli alberi di lassù. Li sente? –. Scrolla le spalle e dice. – Adesso le racconto la storia dello Zio Sam. Dunque: ‘Stazione di Pine Bluff, Arkansas. Dal Kansas, dal Missouri, dall’Oklaoma arrivano vagoni pieni di negri per la raccolta del cotone. Sono negri affamati, smagriti, stanchi, sporchi, sbrindellati, assonnati. Loro scendono dal treno pieni di speranza e si avviano verso l’uscita. Sembra tutto facile. – Adesso usciamo, andiamo dai grandi proprietari delle piantagioni che ci attendono a braccia aperte, e alla fine del raccolto noi diventiamo ricchi, – così pensano tutti e tutti camminano baldanzosamente verso l’uscita. Adesso sono davanti alla porta d’uscita e proprio davanti a questa porta, sta, a gambe larghe, un uomo bianco. L’uomo è grasso, bassotto, baffuto e unto di sudore. Tiene la pistola nella fondina di cuoio e il frustino gli striscia sul palmo della mano.

“Dove credete di andare?” gli dice subito; e gli soffia in faccia il fumo del grosso sigaro. I negri restano lì come salacche in scatola e uno guarda l’altro senza capirci nulla. Ma non siamo qui per il raccolto del cotone? Mica siamo qui per turismo! Che vuole questo qui!

Il grassone, però, glielo spiega subito. Alza il frustino verso un grosso cartello appeso al gancio dell’asta della pensilina e legge con furia: – Ai raccoglitori di cotone è vietato scendere in questa stazione –. “Avete capito?” gli grida addosso. “E’ vietato scendere in questa stazione! E’ vietato uscire da questa uscita! E’ vietato andare in città!”. Grida, e giù frustate di qua e di là, a casaccio. Aggiunge, sempre più arrabbiato: “Il primo che osa passare, gli buco il cervello con questo piombo”. Tira fuori la pistola e fa una scarica di colpi in aria. Brutto lardoso che non sei altro!, pensano tutti, e se ne vanno a capo chino nella sala d’aspetto ad aspettare l’altro treno. Andranno più giù; e laggiù, qualcuno li ospiterà e li farà lavorare.

Bene” dice il vecchio, dando una pacca sul muso del cavallo, “fin qui tutto normale, ordinaria amministrazione. Ma adesso viene il bello!”. Fa un piccolo respiro – sembra che voglia togliersi di dentro un granchio – e poi attacca: “Lì, a Pine Bluff, arriva anche Zio Sam: dieci figli da sfamare, ancora i vecchi genitori a carico e la moglie a casa in attesa dell’undicesimo figlio. Dunque, Zio Sam arriva, scende con la valigia di cartone pressato – dentro la valigia c’è tutta la sua casa! – e guarda i binari che fuggono verso Greenville, Meridian, Mobile, New Orleans. Guarda e pensa che laggiù potrebbe anche essere meglio: là, infatti, c’è anche il petrolio, ci sono anche le fabbriche metallurgiche e tessili. Lui, però, scrolla le spalle e dice a se stesso che anche qui si può guadagnare bene con il raccolto del cotone. Così, anche lui, va pieno di speranza verso l’uscita e non fa caso al cartello appeso al gancio dell’asta della pensilina. Sulla porta d’uscita, però, trova il grassone con la frusta in mano. “Non sai leggere?” lo redarguisce subito il grassone, e gli getta in faccia il fumo del sigaro. Sam sa leggere, alza dunque gli occhi sul cartello e chiede scusa: ripartirà col prossimo treno. Ma l’adiposo digrigna i denti, non ci sta, crede che Sam lo voglia prendere in giro. “Te la do io la voglia di prendermi in giro!” dice. “Meriteresti che ti frustassi su due piedi, ma lo farò non prima che tu avrai saltato quella siepe di bosso che sta laggiù in fondo al giardinetto. Cinquecento salti, poi vedremo!”.

La siepe è alta, ma Zio Sam è ancora agile, e quando l’uomo bianco gli ordina di partire, Zio Sam spicca un salto che fa strabiliare il lardoso. “Visto che sei così agile,” dice il lardoso, “ti ordino di saltare la siepe avanti e indietro senza fermarti, fino a quando ti dico io “alt!””. Zio Sam, dunque, salta avanti e indietro, avanti e indietro… per cinque volte… dieci volte… cento volte… cinquecento volte!... A questo punto pensa: – Senz’altro se ne è dimenticato, ma cosa importa? Io continuo a saltare, tanto non me ne accorgo neppure –. Zio Sam continua a saltare con scioltezza, ed è sempre più sciolto, sempre più leggero, sempre più uccello. Mille volte!... – Sì, se n’è dimenticato – conclude. Ma proprio in quel momento sente ‘alt!’.

L’alt è arrivato, ma è arrivato proprio nel momento in cui Sam stava volando al centro della siepe. Lui si arresta immediatamente, fa una rapida riflessione se scendere o no, e decide di rimanere per sempre lassù. Anche perché se lui scende, l’uomo bianco lo frusta”.

Il vecchio ha finito di raccontare la storia di Zio Sam, e adesso può spiegare il vento della collina. Dice al turista: “Gli alberi di lassù conoscono tutti questa storia e se la raccontano sempre e in ogni momento. In ogni momento, quindi sempre, ininterrottamente! E ininterrottamente loro ridono di questa storia e quando ridono, dai loro rami e dalle loro foglie vien fuori un vento, che dapprima è un venticello, poi un libeccio, poi un maestrale, poi un greco, poi un ponente, poi un tramontana, poi di tempesta, a seconda di come vogliono interpretare la storia! Lei, adesso, è arrivato proprio nel momento più tempestoso della loro anima.

Ho finito” dice il vecchio, e guarda il turista.

Il turista guarda il vecchio che ride, e non sa cosa fare. Poi decide: si avvicina di più al vecchio e ride insieme a lui.

Ma ci sono ancora cose da spiegare, il vecchio lo sa, il turista lo sa. Infatti il vecchio dice, mostrando al turista gli alberi sulla collina: “Tutti quelli che partono da laggiù non ce la fanno ad arrivare qui. Quelli che ce la fanno, alla fine vanno tutti lassù, e lassù sono aboliti tutti gli ordini dell’uomo bianco!”.

Il turista ha ascoltato, ha apprezzato ciò che ha detto il vecchio e adesso si fa aria con un depliant, perché l’afa che c’è intorno è insopportabile. Resta per un attimo raccolto nei suoi pensieri e sente dire dall’uomo fatto a piramide: “Alberi, restate lassù sulla collina! Qui si muore d’asfissia”.

La rappresentazione del vecchio è terminata. Il vecchio custode parla nell’orecchio del cavallo in una lingua sconosciuta al turista e il cavallo si muove lentamente con il carico della bara, imboccando la strada a spirale che porta alla sommità della collina. Vecchio e cavallo camminano lenti e solenni, sanno di svolgere un servizio di estrema importanza, sanno che stanno portando lassù un carico prezioso di anima negra”.

° ° °

Kathleen aveva parlato con molta scioltezza e io avevo appreso cose

che nella metropoli non venivano mai dette.

Kathleen disse: “C’è da chiarire un punto nella storia del vecchio custode del cimitero: perché quel vento sulla collina? Sì, il vecchio afferma che sono le risa degli alberi: gli alberi si raccontano la storia dello Zio Sam ininterrottamente, e ininterrottamente ridono, producendo vento. Ecco dunque quel vento ininterrotto sulla collina! Ma c’è chi dice che ciò che il vecchio afferma è tutta una bufala! Qualcuno è convinto che quel vento di lassù non sia altro che l’aria prodotta da un compressore ad aria manovrato dal vecchio. E c’è di più. Questo qualcuno dice – ed è più che convinto – che, visto che nessuno è mai andato lassù a verificare, gli alberi di lassù non sono veri ma di plastica, e, dice ancora, che anche le foglie sono di plastica e sono attaccate con un tipo di colla inattaccabile a ogni cambiamento di clima. Questo qualcuno afferma sicuro: avete mai visto staccarsene una?”.

° ° °

L’indomani mattina andai sulla riva del lago e parlai con gli orsi, e gli orsi mi raccontarono altre cose insolite che succedevano in quella città.

Capitolo XVII

Le storie degli spettri e del custode del cimitero raccontate da Kathleen mi avevano messo dentro la voglia di conoscere un po’ meglio le grandi terre del Mississippi: là, la canzone di Dio era ancora presente. La canzone della vita, la canzone della morte, la canzone della notte, la canzone del silenzio, la canzone dei grandi tramonti, la canzone dei salti mortali nel cielo, la canzone che cantava la trasformazione, la metamorfosi, il pensiero, la cecità, i sentieri piccolissimi delle montagne, gli urli, il buio, i campi di grano e la messa in scena del corpo. Là ascoltavi Etta James Rocks The House, e poi Tyrone Davis, Clarence Henry, The Steve Miller Band. Là tu c’eri, là tu coglievi il respiro della notte, e morivi nel 461 Ocean Boulevard. Come conducevo la vita, lì nella metropoli, non andava. La vera vita è al di là di tutti i rumori, di tutti i sorrisi, di tutte le grida, di tutte le promesse , di tutte le luci, di tutte le ubriacature, di tutti gli abbracci, di tutti gli interessi e di tutte le strategie ineffabili dei dollari della Borsa e degli ori delle gioiellerie. Io vivevo di tutte queste cose, e queste cose erano ormai sacchi di ferro ammassati sul cuore. Dovevo decidere, era necessario decidere, era decisivo decidere. Via dalla metropoli! Nel modo più assoluto! Ci voleva la sterzata, la svolta rivoluzionaria, lo strappo spietato dalle anonime beffe.

Sì, d’accordo, tutto ciò non era in linea con l’attività di giornalista che svolgevo: calpestare il cuore e vivere di sorrisi e di inganni.

No! Così non andava! Così era un’accozzaglia di Cheap Thrills.

Parlai con la direzione del giornale. Venimmo a un accordo: la direzione mi accordava un lungo periodo di aspettativa, ma non mi versava nessun stipendio. Accettai, avrei tentato l’avventura degli antichi pionieri, avrei penetrato la scorza invisibile della vita.

Sarei partito.

° ° °

Noleggiai una Panard bianco-avorio e comprai un cilindro nero da portare come un lord nell’immensa macchina fraseggio di gabbiano. Via dai grattacieli a ridosso della grande statua della libertà! A Chattanooga! Chattanooga, Choo Choo! Andavo forte, già stavo scalando gli Appalachi, già mi estasiavo del fantasma del generale Grant: respiro delle genti del Grande Sud. Avanti tutta, barra a destra, barra a sinistra, barra al centro, cilindro piantato con eleganza in testa. Volavo insieme a Lisa, che mi offriva i suoi occhi viola Montana e mi baciava tenendomi stretto al lungo muro bianco del porto; volavo insieme a Kathleen, che mi gridava il suo tormento di donna fatale e sola. L’azzurro del cielo, il profumo pallido del tabacco conciato per i palati più forti. Lisa e Kathleen fuggivano lontano dal quartiere cubano: lezzi di tabacco di scarto della grande isola madre; fuggivano lontano dalle buie coscienze di Harlem, lontano dalle feste melense dei papà del Mid West. La Panard si dileguava sull’asfalto liquefatto, cercando di sfuggire al cielo sfilacciato di un tramonto di sangue. Avrei voluto toccare la sabbia del Golfo del Messico, ma per quel giorno meglio deviare. Così, dopo il ponte sul Savannah, svoltai per Chattanooga. Chattanooga, Cho Cho, mi misi a cantare a squarciagola con Lisa e Kathleen al fianco, finché trovai un motel, nascosto fra gli alberi di un laghetto artificiale e messo lì apposta per far la guardia alle vaste piantagioni di cotone. Parcheggiai la macchina davanti al motel ed entrai nel locale.

Mi accolse una grande matrona negra con gli occhi che ridevano. Davanti a lei restai immobile e incantato: un malinconico canto di giovani donne veniva da dietro una porticina. Lei prese il documento d’identità e mi spiegò: “Domani partono, hanno finito il loro turno, e cantano. Fanno sempre così quando partono; quando partono sono sempre tristi e allora cantano i loro canti tristi, cantano la loro liberazione che non dà a loro gioia. Ascoltai incantato le ultime due strofe del loro canto: – Ah ain’ goin fix up Yo’ black plantation. Ah ain’ goin be Yo’ dohggon’ fool – (No, no, fuori dalla tua nera piantagione. No, no, mai sarò il tuo dannato zimbello). La matrona disse: “Se vuoi, una delle ragazze potrà cantare per te stanotte”. Ma si accorse subito di aver fatto un passo falso. Si morse le labbra e disse a se stessa: “No, non devo dire così!”. Fece tintinnare i pesanti bracciali d’oro che portava ai polsi gonfi.

Io dissi soltanto: “Dammi una bottiglia d’acqua minerale naturale e la chiave. Non voglio altro”. Lei mi diede la bottiglia e la chiave, i suoi occhi ridevano di riconoscenza. Iniziai a salire l’ampia scala illuminata da potenti lampade alogene e nel salone le ragazze cantavano: – C’eri tu là, quando crocifissero il mio Signore?/Oh, oh, oh/ A volte questo mi fa tremare, tremare, tremare./C’eri tu là, quando crocifissero il mio Signore? (Were you there, when they crucified my Lord?…).

° ° °

Quella notte non riuscivo a prendere sonno, le acque del lago mi chiamavano. Scesi dunque l’ampia scala sempre illuminata. Sotto, tutto era deserto. La luna piena sul lago mi voleva con sé: voleva donarmi un po’ di luce nel silenzio. Dunque, arrivato alla piccola hall, provai il chiavistello della porta d’entrata e lo sentii bloccato. Ritornai indietro deluso e già ero col piede sul primo scalino di ritorno, quando una voce profonda venne da qualche parte. “Cerchi la luna?”. Era la voce della matrona. La donna era avvolta in un’ampia vestaglia turchina, il suo corpo era superbamente massiccio.

Mi mise le mani sulle spalle, disse: “Hai fatto bene, anche se la carne giovane vuole la carne giovane. Tu hai capito! La tristezza di chi sta cantando l’addio va rispettata”. Mi prese per mano e mi guidò verso una stanzetta dietro la reception: lì, lei dormiva su un lettino quasi da bambino. Accese un abat-jour di tela azzurra, mi fece sedere accanto a lei sul lettino e disse senza tentennamenti: “A te manca la terra da sotto i piedi. L’ho capito quando volevi uscire per andare a parlare con la luna in riva al lago. Non si va a parlare alla luna se non si ha dentro qualcosa che spinge a correre via da dove si è. Tu sei uno che ha voluto correre via da dove eri”. Parlava con fatica, ansimava. “Non farci caso” disse, leggendo la mia preoccupazione, “è soltanto la vena bronchiale che sta un po’ di traverso. Non è nulla, non preoccuparti. Andiamo avanti! Tu sei arrivato qui alla ricerca della pace interiore… non dirmi perché lo so! Lo so e basta.

Ebbene, sappi che qui, e ancora di più a Pensacola, a Boton Rouge e fino a New Orleans, la pace che cerchi non la trovi: sta solo lì, nei tuoi sogni! Da qui in giù, il posto ideale che cerchi per la tua pace non lo trovi, questo è certo! Da qui, e da tutte le nostre terre del sud, Dio se n’è andato via, e tu cerchi Dio per avere la pace dentro di te. Lui esiste soltanto nelle nostre canzoni, nei nostri spirituals che le ragazze cantano durante il raccolto del cotone e del tabacco. Dio non conosce più le Sue terre del cotone e del tabacco, un tempo da Lui tanto amate. Lui, da tempo, ha tolto le tende dalle nostre piantagioni. Rag, mama,rag… Cat man blues… Black and tan… My baby don’t want me no moreMy strange man… Perché, perché? Perché, Dio, hai lasciato le nostre terre? Perché non ci fai più cantare le canzoni della speranza dei nostri Padri?”. Ansimò un poco, bevve un sorso d’acqua da un bicchiere che teneva sul comodino vicino al letto e continuò, ritornando a me: “Che vai cercando qui? Cosa credi di trovare qui, nella terra dei canti tristi e senza più speranza?”.

Tentai di ribattere in qualche modo. Dissi: “Lassù, da dove vengo, la speranza abbonda; eppure io sono qui, dove, secondo te, non c’è speranza”.

“Lo dicevo io” disse subito. “La terra ti scotta da sotto i piedi, non c’è terra per te. Lo so, lo so, lo so… Lo so! Non ho altro da dire che lo so!”. Ebbe un attimo di esitazione, poi disse: “Sai cosa ti ci vuole? Ti ci vuole il salto dell’Oceano, ecco cosa ti ci vuole! Cosa fai nella vita?”.

“Scrivo per un giornale, ma mi sono dato un po’ di tempo per me… un tempo abbastanza lungo” precisai.

“Vedi? E’ il tuo momento di fare quel salto! Gli altri vogliono venire qui, tu fai all’inverso… D’altronde, tu hai sempre fatto tutto all’inverso degli altri, non è così?”.

Incominciò ad ansimare talmente forte, che credei rimanesse soffocata. Invece non era nulla. Restò un po’ a pensare, poi disse: “Karl! Karl ti aiuterà, lui ti porterà al di là dell’Oceano. Conosci qualche lingua?” chiese.

“Francese e spagnolo” dissi.

“Il francese va bene, lui conosce il direttore del King’s College di Ramsgate, che è a pochi chilometri da Dover, dove Karl farà scalo. Sì, Karl è l’uomo adatto per te!”.

“E la macchina lì fuori?” dissi. “Devo riconsegnarla all’agenzia, mica è la mia”.

“Dammi l’indirizzo dell’agenzia, Felix gliela riporterà. Dammi soltanto l’equivalente del noleggio dei giorni che l’hai tenuta e del viaggio di ritorno in treno per Felix: qui, purtroppo, è finita tutta la bambagia, tu lo sai, vero?”. Rise con i grandi occhi della luna. Disse: “Vorrei dirti tante cose ma non c’è più tempo. Ti aggiungo soltanto questo: – Non fermarti mai a guardarti nello specchio e vai avanti per la tua strada senza mai voltarti –”. Mi abbracciò e concluse: “Domani parlo con Karl e dopodomani parti con lui”.

Capitolo XVIII

Su tutti i containers del mercantile Hercules c’era la scritta in rosso “dangerous”. Dangerous, la parola magica del futuro, dunque il mercantile di Karl trasportava futuro. Quando ebbi davanti il capitano Karl, ebbi davanti un viluppo di muscoli, pelle di sale e di tempesta, mille aghi intorno agli occhi azzurri. Avevo sentito dire da donna Cesira, la mia matrona del motel, che Karl parlava con gli uccelli del mare e subito lo capii dal suo sorriso, che sapeva di silenzio. Karl portava scarpe di tela grezza e io lo paragonai a un gatto notturno che parla con l’immensità della notte. Quando gli feci il nome di donna Cesira, lui ripetè: “Donna Cesira!”, e tirò fuori dalla tasca del giubbotto a vento una pipa sottile col fornello bruciato, la picchiettò sull’asta del parapetto del ponte dove eravamo e la mise tra i denti biascicandola. Ripetè ancora: “Donna Cesira!”, e rimpicciolì i mille aghi del viso e proseguì con calore: “Donna Cesira, l’amica che mi ha fatto poeta. Sì, proprio così: mi ha fatto poeta!”. Mi sorrise.

Continuò: “La prima volta che la incontrai, lei mi disse: – Ogni marinaio riesce a sopportare il buio del mare se è poeta –.

Io le dissi: – Il buio del mare ti fa scoppiare il cervello. Come si può diventare poeta? –.

– Appunto, – disse lei, – per l’appunto! Tu vinci il buio del mare, e diventi poeta –.

– Credi che sia facile vincere il buio del mare? – dissi io.

– Sì, capitano! – disse lei, – sì, Karl, così è più confidenziale! C’è buio e buio, e non tutto il buio si vince con la poesia. Il buio di qui, per esempio, non è il buio del mare. Se ci riferiamo al buio di qui, la poesia non può farci nulla. Sai perché? Perché qui non c’è notte. La notte di qui non può essere considerata notte; qui, di notte, nessuno riposa, e addosso ha soltanto l’odore della muffa. Può essere considerata notte una notte di muffa? La notte sul mare è tutta un’altra cosa! Vedi, ogni navigante, ogni marinaio, di notte può vedersi dentro, guardando l’acqua del mare –.

Non mi lasciò dire nulla. Mi mise in mano un bicchiere pieno di tequila e proseguì spedita: – Vedi, Karl, da voi la notte bussa alle vostre cabine, entra senza attendere l’avanti e si mette a letto con voi senza tanti veli addosso. Vedi, Karl, da voi la notte non ha nessun timore di stare sola con voi. Da voi, la notte vi ama tutti, è fragrante con tutti, affascinante con tutti, provocante con tutti, viva con tutti. Quale ebbrezza vi dà! Qui da noi, invece, la notte ci porta soltanto paura e disperazione: quale fascino, quale ebbrezza, quale provocazione, può offrirci la notte?

Ecco perché la notte, da voi, può insegnarvi ad essere poeti! Poeta si diventa, quando si ha vicino un’amante come la notte del mare! Quando si possono vedere tutti i tramonti, parlare coi gabbiani, vivere l’ebbrezza del silenzio del buio.

Ecco perché ti dico, Karl, tu puoi essere poeta, tu sarai poeta, tu vivrai la grande avventura di sentirti poeta!–.

Così mi disse donna Cesira, la prima volta che la incontrai, e adesso, ogni volta che la incontro, lei mi dice: – Sì, tu vivi nel pericolo, e la tua pelle diventa sempre più salata e dura – questo lo vedo –, ma la tua notte è una grande notte amica, e la notte amica è piena di umori e di sogni. Karl, tu ormai sei un poeta! –”.

° ° °

Quando arrivammo a mezzo miglio dall’isola di Sao Miguel, il fondo della baia non ci permise di andare oltre. Ci fermammo dunque sotto il viola del tramonto e io andai sul castello di prora ad ascoltare i canti della notte dei pescatori dell’isola. Tenevo le mani sull’albero di trinchetto e guardavo le piccole imbarcazioni di giunchi radunarsi in silenzio nello specchio verde della spiaggia. Guardavo col cannocchiale le palme da datteri trasformare il verde ceruleo delle loro foglie nel colore del mais maturo, dentro un sole che penetrava, vertiginosamente, la massa accogliente del mare. Le grida, che si elevavano dalle imbarcazioni, prendevano la forma di boati di imprecazioni, per scemare, all’improvviso, in nenie noiose e petulanti. Grida, imprecazioni, boati, nenie: il grande lamento delle Azzorre nel groviglio di sartie, bome e vele di lino manovrate da stroppi e carrucole. Guardavo affascinato il triangolo musicale dei giunchi e restavo incantato dal continuo flusso di imbarcazioni che passavano attraverso le fessure del triangolo musicale, per andare ad allargare i vertici del triangolo e i suoni delle grida.

Silenziosamente sentii la mano di Karl posarsi sulla mia spalla. Lui disse: “Quando il viola dell’ultimo raggio di sole morirà sulle acque della baia, le barche lasceranno la riva e il mare si trasformerà in un grande prato di luci. Allora, dalle luci si leveranno i canti propiziatori della pesca. Adesso è soltanto un chiamarsi e un insultarsi, ed è il loro sfogo represso di tutta la giornata”. Mi tenne la mano sulla spalla. “Vedi Louis” disse, “là non ci sono fughe, non ci sono avventure, non ci sono trasgressioni”. Sentii la sua mano premere la mia spalla come una pressa d’acciaio. Continuò: “No, Louis, dentro quelle luci non c’è nessuna fantasia, in quelle luci ci sono soltanto nenie lunghe e fastidiose, cantilene nere come grossi avvoltoi che si staccano dai palmeti per involarsi nel freddo buio del mare”.

Passeggiammo un po’ sul ponte, riparandoci dal freddo con mani e braccia strette sui fianchi. Poi Karl disse: “Quando vado da donna Cesira mi fermo un mese. Si sta bene da donna Cesira e le sue ragazze cantano le canzoni della lealtà. Io ho conosciuto Luisita. Quattro anni con Luisita, un mese ogni anno, poi lei non è più venuta e io l’ho aspettata tutta un’estate, e un’estate ancora e un’altra ancora. Adesso ho perso la speranza di rivederla, donna Cesira dice che Luisita non può più cantare e non sa dirmi di più. Luisita era la mia cantante preferita”.

“L’amava?” chiesi.

“Luisita era la mia donna, era la luce del mio cuore, era il silenzio del mio mare, era la poesia di tutto il mio essere”. Vidi nel buio il chiaro luminoso dei suoi occhi. “Io sono stato sempre fedele a Luisita, come sono sempre fedele al mio mare”. Tirò fuori la pipa, la riempì, l’accese, lanciò il lungo fiammifero dal parapetto, tirò brevi boccate senza respirarle. Disse ancora: “E’ vivendo sull’acqua che si diventa fedeli, ed è il silenzio del mare che insegna ad essere fedeli”. Restammo ad ascoltare le lunghe nenie sul prato di luci, finché Karl chiese: “Louis, quando saremo a Dover sai già cosa fare?”.

“No” dissi.

“Potrei aiutarti. Conosco il direttore di un College di Ramsgate che potrebbe assumerti come insegnante. Donna Cesira mi ha detto che conosci il francese”.

“Sì” dissi, “sarebbe una bella fortuna”.

“Fai conto di far già parte del College. E’ il King’s College, ti darò l’indirizzo e scriverò due righe a Ronald il direttore. Sappi soltanto questo: Ronald ha fatto il minatore a Birmingham”. Karl guardò torvo il cerchio di luci. “Quelle fastidiose nenie!” esclamò con il braccio teso. “Quelli stanno sul mare ma non conoscono il mare, quelli stanno nel buio ma non conoscono il buio, quelli stanno nella notte ma non conoscono la notte”.

Io dissi: “L’essere umano ha mille fisionomie, mille risposte da dare”.

“Quelli non hanno fisionomie, e non danno risposte” fece eco Karl. “Le loro preghiere non hanno nessun sapore di amicizia. Buonanotte Louis!”.

° ° °

Fino a Dover non parlai più con Karl. Lo vedevo andare avanti e indietro sul ponte di coperta e nel luccichio della luna vedevo il suo viso alzarsi verso il cielo. Lo sentivo mormorare parole (versi, forse?) che non capivo. Lo vedevo muovere qualche passo di danza. Lo sentivo cantare e fraseggiare. Una notte catturai un brano del suo fraseggio: – Cielo, mare, buio, silenzio… anima. L’anima s’acquieta nel grido soffice dei gabbiani. Cielo, mare, buio, silenzio. Ascolto. E’ la mia anima che urla la gioia, i gabbiani vegliano i miei sogni…–.

Sbarcammo a Dover e nell’abbracciarmi Karl mi consegnò la lettera per il direttore del King’s College di Ramsgate.

Capitolo XIX

Nell’immenso studio troneggiava soltanto una massiccia scrivania di noce, mappe topografiche della zona erano appese alle pareti che si alternavano con le finestre a battenti dotate di architravi, corni, lunette a ventaglio e barre di ferro. Quest’ultime tenevano fissi vetri violacei. L’uomo alla scrivania al mio apparire si alzò di scatto e mi tese la mano, guidandomi subito a una finestra da cui si poteva vedere il mare in lontananza. Mi indicò le onde del mare, che in quel momento erano alte. Disse: “Le lingue straniere hanno lo stesso movimento di quelle onde”. Allungò il collo verso i vetri per vedere meglio ogni gobba, ogni riccio, ogni mossa allungata delle onde. Continuò a parlarmi, accentuando le parole alla Black Country: “Quelle onde vengono da lontano, non hanno respiro, s’infrangono sugli scogli e riprendono il loro cammino all’indietro restando imprendibili. Quelle onde hanno un potere da conquiste, ma l’uomo è presuntuoso e pretende di venire qui, in questo college, a conoscere una lingua straniera in un mese. That is the question: la presunzione! Catturare la magia conquistatrice delle onde è presunzione assurda, catturare la magia di una lingua è presunzione a dir poco ridicola”. Gli guardai il viso allungato assolutamente senza rughe e vidi gli occhi grigi farsi canzonatori. Lui si era concessa una pausa. Riprese: “Prendiamo la lingua francese. Lei è qui per insegnarla e dunque ne conosce l’importanza e la storia. Ma prendiamo i suoi allievi, nessuno conosce nulla di Racine, di Pascal, di Baudelaire, di Rabelais. Eppure tutti hanno la presunzione di poter carpire in un mese il tormento religioso di Pascal o la satira graffiante di Racine o la tensione mistica di Baudelaire o la voce interiore di Rabelais. Pura follia! Io dico: follia, sacrosanta follia, non trova Monsieur?”. Allungò la mano, fece l’atto di tenere fermo un raggio di sole venuto a posarsi all’improvviso sul davanzale della finestra, disse: “Mi dice, Monsieur, come potrei trattenere questa luce con la mia mano? Come potrei tenerla stretta tra le mie mani? Qui sta l’assurda presunzione dell’essere umano!”. Gli venne un pallido sorriso sulle belle labbra “Fortuna che i migliori capiscono” disse, guidandomi di nuovo verso la scrivania.

Ci sedemmo l’uno di fronte all’altro. Ci guardammo negli occhi, poi lui tirò fuori da un cassetto la lettera che avevo consegnato la sera precedente alla sua segretaria. Il direttore non è in sede, se vuole può darla a me e domani si presenti pure che sarà senz’altro ricevuto, così mi aveva detto, gentilmente, la segretaria.

“Dunque la manda Karl”, disse. Estrasse il foglietto dalla busta e propose: “Posso darti del tu?”. Non mi lasciò neppure dire una parola e continuò: “ Ebbene, qui Karl dice che conosci l’avventura della vita e se lo dice lui io ci credo. Dice anche che conosci il profondo significato della ‘poesia’. Benissimo! La poesia non è vuota fantasia come si suole credere, Karl ne è la prova più nobile e sincera. Può, uno che comanda una nave, essere poeta? Io dico sì! Dunque: io dico sì, Karl dice sì, tu dici sì. Direi che tutto quadra e il cerchio si chiude perfettamente. Karl scrive anche che tu hai conosciuto donna Cesira. Donna Cesira è una grande donna: lo dice Karl e a Karl io credo”. Ripose la lettera nel cassetto e guardò fuori dalla finestra. Parlò come se parlasse a se stesso: “E’ come un volo di gabbiani. Si levano liberi dall’acqua, gridano, volano radenti le onde, s’impuntano, prendono il cielo, fanno tonneau in verticale, aliano, restano fermi nel sole, si inerpicano di nuovo, si esibiscono in ruote doppie e triple, si rivoltano in volo cambiando d’ala, facendo rovesciate con le ali curvate, puntando il becco contro il sole, frenando, ritornando come razzi sull’acqua da dove sono partiti. La vita è questa, Louis, la vita è un volo di gabbiano che si leva dall’acqua, spazia nell’aria, fantastica, raggiunge traguardi, si specchia nelle tempeste, non ha paura di fuggire. La vita è poesia, la morte non esiste”. Io stetti lì a guardarlo e non dissi nulla.

Dallo stesso cassetto tirò fuori un foglio stampato e me lo mise davanti. “E’ il contratto degli insegnanti,” disse, “leggilo, se vuoi, firmalo e puoi incominciare fin da domani. Il contratto dura sei mesi ed è rinnovabile sine die”.

Parole senza sbavature, essenzialità, chiarezza. Firmai il foglio senza leggere una sola parola: sapevo che lui si aspettava da me così. Riponendo il foglio firmato nel cassetto, disse: “Qui, l’uomo viene prima dell’insegnante. La lingua non penetra l’allievo, se chi insegna non ha carattere. Il suono di una lingua, il grido di una lingua, il lamento di una lingua, la sua gioia, il suo dolore, il suo fascino, il suo mistero, il suo movimento, la sua comunicatività, la sua amicizia, il suo avvenire, il suo vestire, il suo giocare, il suo danzare, la sua fantasia, il suo aprirsi a tutte le incognite umane… Ebbene, al centro di tutto questo straordinario universo sta l’insegnante, con il suo sapere, la sua esperienza umana, la sua umiltà. L’insegnante è il regista dei cuori dei suoi allievi. Bene, Louis!”, mi tese la mano. “Io sono Ronald. Ronald per te, Ronald per tutto il corpo del College”.

Gli strinsi la mano con calore.

Capitolo XX

Ma nel College avvenne un fatto che sconvolse tutti, soltanto un uomo della stazza di Ronald potè salvare l’affondamento delle coscienze.

° ° °

Nel College strinsi amicizia con Mr. Johnson. Già al mattino prima dell’alba stavo con lui sotto la veranda col soffitto a vela e i tronchi di betulle. Mr. Johnson abbrustoliva pane, tagliava bacon, friggeva uova, spremeva agrumi, parlava. Parlava di mille cose, si confidava, mi diceva con calore che si sentiva a posto dopo aver parlato con me. Una mattina mi confidò ch’era stato nei benedettini di Norcia in Italia. Diceva che il vino, laggiù, colava dalle botti, il profumo dei salumi, laggiù, si spandeva nei vasti corridoi del convento, i tartufi neri del bosco, di laggiù… Poi c’erano le preghiere! Le preghiere davano serenità all’anima. Io, signor Louis, una notte vidi in sogno il paradiso. Quando mi confidò il sogno, quella mattina, vidi subito che era particolarmente agitato, lui così rigido, così legnoso, così elegantemente inglese. Sì, disse, vidi il paradiso, ed era una grande palla verde-azzurra e dentro la palla stava una grande folla e la folla ascoltava in estasi una musica dolcissima di arpe. A questo punto fece con se stesso alcune deduzioni: come non può essere in estasi la gente se non in paradiso… come, se non in paradiso, non può che ascoltare musica di arpe… Ricominciò a parlare del sogno. Dunque, davanti a me stava il paradiso con i beati, la musica e tutte le altre dolcezze e sante cose. Io ero felice, avrei voluto abbracciare tutti i beati, ma i beati erano inavvicinabili, intoccabili.

Lo vedevo bene che quella mattina Mr. Johnson, raccontando del paradiso, piangeva. Alla fine gli dissi: “Mr.Johnson, lei mi parla del paradiso: il paradiso lo fa piangere?”.

“Sì, Mr. Louis,” mi disse, “il paradiso mi fa piangere, perché dentro di me non c’è nessun paradiso”.

Lo guardai stupito. D’accordo, che gli rodesse qualcosa dentro, me n’ero già accorto: in lui c’era sempre, quando mi parlava, una velata parvenza di agitazione. Certo, però, che non avrei mai pensato che in lui non ci fosse nessun paradiso! Era assurdo pensare che in Mr. Johnson non ci fosse serenità! Che fosse un po’ originale, questo sì! La mattina dopo avermi parlato dei benedettini di Norcia, per esempio, volle prepararmi, a tutti i costi, le frittelle imparate al convento. “Le frittelle del paradiso, le chiamo io” disse, “e voglio preparargliele con il parmigiano e le foglie di salvia che faccio arrivare appositamente da laggiù e che uso soltanto per le grandi occasioni”.

La considerai una cosa insolita, direi inaudita.

La pioggia batteva forte sui cristalli, quella mattina, il vento era spinto fino al mare dai ghiacci eterni della Cornovaglia e per tutta la notte aveva urlato. “Urlato” disse Mr. Johnson, “con i diavoli che cercavano di oscurarmi il paradiso. Urlato, urlato, urlato!” ripetè con gli occhi fuori dalle orbite. “Il vento urlava come un ossesso e io guardavo il mare: ha fatto molto freddo questa notte, Mr. Louis! Urli nel cielo e nel mare, urli nel mio cuore…”. Non ce la fece più a trattenere il suo segreto. Disse: “Sì, Mr. Louis, a lei glielo dico. Ebbene, questa notte mi sono messo alla finestra, dentro gli ululati del vento, e ho pensato ad Alice; ad Alice, Mr. Louis, alla mia compagna di una vita! Ho pensato a lei tutta la notte!”.

Pescò le frittelle con la paletta forata, le sgocciolò a piccoli tocchi su e giù sulla padella, le scodellò su un vassoio di ceramica fiorata, vi spruzzò sopra lo zucchero e mi porse il vassoio con un inchino. Mr. Johnson era ancora relativamente tranquillo e la preparazione delle frittelle lo aveva per il momento calmato. Ma dopo l’inchino non si contenne più e gettò alle ortiche i suoi modi rigidi di manichino e di dignitoso maitre. Adesso quasi ghignava e per fortuna eravamo ancora soli. Si sedette un po’ di sghimbescio su una sedia e disse: “Un giorno le dissi: – Alice, tu sei una scarpa rotta! –. Ha capito cosa ho detto alla mia Alice, Mr. Louis? Le ho detto testualmente: – Sei una scarpa rotta, sei una scarpa scalcagnata, sei un sacco di lardo pieno di dolciumi… sei una scarpa rotta da buttare nella spazzatura! Ecco cosa ho detto ad Alice, e sa perché? Perché lei aveva appena finito di dirmi: – Ho paura di tutto, ho paura della gente, ho paura perfino del mio fiato, e sai chi mi ha messo dentro tutta questa paura? Me l’hai messa tu! Sei stato tu! –.

Ha capito, Mr. Louis, io sono stato a metterle dentro la paura del mondo. Io! Io che l’adoravo e l’avevo sempre adorata.

– Io? – dissi incredulo ad Alice, quel giorno.

– Sì, tu! – disse lei.

Avesse visto il suo viso!

Allora capii che erano anni che covava dentro l’odio velenoso per me e così non mi contenni più e le gridai in faccia: – Sei una scarpa rotta! Sei una scarpa da buttare nella spazzatura! Nessuno più ti vuole: vattene!”.

Il vento della Cornovaglia urlava sui cristalli della veranda, il mare, laggiù, era una furiosa colata di piombo. Tutto era buio là fuori e nel College la frenesia del giorno stagnava ancora nelle camere. “Trent’anni insieme, Mr. Louis, capisce? Per trent’anni lei si è rimpinzata di dolci e di grassi, e un bel giorno mi dice: – Ho paura di tutto il mondo e questa paura me l’hai messa addosso tu –. – Io? – faccio io. –Sì, tu! – fa lei. E io: – Tu sei solo una palla di grasso, sei solo una scarpa rotta da buttare, vattene! –. E lei se n’è andata sul serio, Mr. Louis! Lei è fuggita via da me!”.

Scoppiò a piangere. Disse: “Fuggita da me, la mia piccola, adorata Alice! Il mio piccolo passerotto ha messo le ali ed è volato via chissà dove”.

Mr. Johnson cercò, a questo punto, di ricuperare un po’ della sua dignità di maitre. Incominciò, dunque, a trafficare coi manici del tostapane, e con quello bruciò fette di pane a tutto spiano. Era una cosa inaudita: Mr. Johnson che bruciava pane nel tostapane! Un sacrilegio! Ma lui bruciava il pane e parlava: “Questa notte l’ho vista. Sì, l’ho vista! Stavo alla finestra, stavo rattrappito nella coperta di lana, guardavo le onde impazzite del mare e l’ho vista: volava nel vento incontro alle nuvole di tempesta, era una povera vedova del paradiso senza timoniere”. Ormai aveva perso la testa. Ghignò a bocca larga: un comportamento assolutamente impossibile per Mr. Johnson! Inaudito! Ma la sua sofferenza era incontenibile, e gli sferrava calci nello stomaco e gli faceva bruciare toast e lo faceva ghignare sgangheratamente. “Assurdo!”. Il grido gli uscì dall’anima, e questo grido fu come se l’avesse liberato di tutto. Diligentemente, mise a friggere uova e bacon, tagliò altro bacon, mise a friggere altre uova, le pescò, le scodellò in grandi vassoi, incominciò a tagliare gli agrumi per le spremute, riempì i soliti recipienti e li dispose sul lungo tavolo. Presto gli studenti avrebbero fatto man bassa di ogni cosa.

Adesso tutto era a posto, ogni cosa stava allineata sul lungo tavolo, perfino i kellog’s e la frutta secca, perfino i vari paté, le marmellate, i salumi. Tutto era a posto, ma Alice era volata nella notte davanti alla mente malata di Mr. Johnson. Tormenti e scompensi, rospi che ritornavano. “Assurdo!” ripetè Mr. Johnson, “le ho schiacciato la sua dignità di donna, le ho detto di andarsene via: dove sta la verità? Dove sono fuggiti i grandi sorrisi, i grandi abbracci, le scampagnate in campagna. Lei, paura di tutto e di tutti: dov’era la verità, se non in quel grasso da pesce luna e in quella carcassa deformata di rana pescatrice! Si toccava i fianchi da torpedine, allargava gli occhi a chiari d’uovo e rideva, rideva perché aveva paura”. Cosa diceva Mr. Johnson? Si stava sfogando? Stava sparlando della moglie? Stava cercando una giustificazione, per le colpe dell’uno e dell’altra? Oppure vinceva l’odio, dentro Mr. Jonson! Vinceva il suo sentirsi indifeso, indegno, insofferente, inadeguato! Mr. Johnson scrollò le spalle.

Si diresse verso i tavoli, controllò posate e loro disposizione, lisciò ogni tovaglia, diede uno sguardo professionale all’assemblaggio del salone: tutto in ordine! “Bene,” disse misteriosamente, “la carne brucia, ma un giorno sarà liberata e lo spirito avrà riposo”.

Una frase misteriosa, che nulla aveva a che fare con lo sguardo professionale all’assemblaggio del salone.

Perché soffrire, Johnson! Tu hai sbagliato a chiamare Alice scarpa rotta, ma via!, anche lei ha le sue colpe. Siete pari, e se lei se n’è andata via, è inutile che tu ti disperi, datti una regolata. Ma quale vedova del paradiso! Quale visione sulle nuvole di tempesta! Quale carne che brucia!

° ° °

Quale senso di colpa, Mr. Johnson! Io, la notte, la passo con Miss Tracy, io non sento rimorso, lei non sente rimorso. La notte la passiamo insieme dopo aver bevuto e ballato al pub, ma non siamo i soli, in verità tutti passiamo la notte a cercarci, a scoprirci, a fugare insieme i fantasmi delle vedove del paradiso che volano sulle onde in tempesta.

Mr. Johnson non sentirti un penitente aggrappato al confessionale! Chi sta al di là della grata, non è un giudice togato; chi sta al di là della grata è il tuo cuore, che non giudica e non deve essere giudicato. Tu non sei un penitente qualsiasi! Il penitente qualsiasi non soffre mai dei propri peccati, lui li confessa e tutto finisce lì. Tu soffri, invece, e hai bisogno di svago. Questa sera stessa verrai con noi al pub, è deciso!

Lo raggiunsi che stava dando una disposizione finale ai bicchieri e ai piatti dei tavoli. “Dunque è deciso, l’appuntamento è per stasera” gli dissi serio, e lui mi guardò perplesso. “Sì, Mr. Johnson, stasera lei sarà dei nostri al pub. Lei farà parte della nostra squadra e nella nostra squadra ci sono fior di ragazze, splendide e libere”.

Restò lì di gesso a bocca aperta e non disse nulla. Fuori la pioggia era cessata e il vento asciugava i ciuffi delle palme che si inchinavano sul bordo della spiaggia.

Arrivarono finalmente gli studenti e io dissi forte: “Questa sera Mr. Johnson sarà dei nostri!”. Miss Tracy gridò con entusiasmo: “J love Mr. Johnson! Questa sera ballerò con lui e gli offrirò una pinta di birra”.

Capitolo XXI

Nel pub, tutto era come da copione. All’inizio il vociare era un po’ freddo, e dunque bisognava scaldarlo con pinte di birra; poi la birra ingrossava le vene e il vociare prendeva quota, le lingue si mischiavano, la confusione aumentava, le fiamme si avviluppavano. A un certo punto non ci si capiva più nulla ed era un po’ come il treno quando deraglia e i viaggiatori non sanno ancora cos’è successo. Tutti facevano a gara per superarsi, le donne più degli uomini. C’erano Miss Tracy, Miss Temple, Miss Caroline… e tutte brandivano i loro boccali come clave per difendersi dai panciuti bevitori appesi alle pareti: a voi, satiri e sileni, venditori eccelsi delle coscienze altrui! Tutti noi stavamo vendendo un po’ della nostra coscienza per qualche ora di follia.

Tra noi c’era Mr. Johnson che alla fine gridò: “Io interpreto!”.

Subito fummo presi alla sprovvista, poi ognuno si riscosse e tutti insieme gridammo: “Noi interpretiamo!”.

Lui, allora, ci prese gusto e snocciolò una filastrocca d’idiozie:

“Viva la vita!”.

E noi: “Viva la vita!”.

“Viva la birra!”.

E noi: “Viva la birra!”.

“Viva le donne!”.

E noi: “Viva le donne!”.

“Viva i penitenti!”.

E noi: “Viva i penitenti!”.

“Viva le vedove del paradiso!”.

E noi: “Viva le vedove del paradiso!”.

Lui a questo punto si fermò, guardò Ronald che era con noi, levò ancora più in alto il boccale e gridò le parole che aveva detto misteriosamente al mattino: “La carne brucia, ma un giorno sarà

liberata e lo spirito avrà riposo!”.

Noi cercammo di fare l’eco a queste parole, ma tutte insieme risultavano essere troppo complicate per ripeterle con l’eco, così stemmo zitti. Allora lui storse la bocca e gridò: “Così interpreto la vita, così interpreto la morte: viva la morte!”.

Noi, senza pensarci, rispondemmo pappagallescamente: “Viva la morte!”.

Mr. Johnson aveva ripetuto la frase misteriosa del mattino e io ebbi un inquietante presentimento.

° ° °

Il pub chiudeva alle 23 e noi uscimmo. Percorremmo le vie verso il College, cercando di schiacciare dentro di noi l’impeto della birra che non era poco. Mr. Johnson teneva sottobraccio Miss Brigida, che era una deliziosa pianista di Bochum. Camminavano ridendo, io tirai un sospiro di sollievo: il pub poteva essere la salvezza di Johnson.

Ma il cuore umano non regge ai satiri e ai Dionisi, quando la luna piena resta attaccata alle palme fradice degli abbandoni. Avrei dovuto saperlo.

Arrivati al College volli restare un poco con me stesso nel parco. La luna piena era un tutt’uno con le palme, sul mare si muovevano lente le lampade ad acetilene dei pescatori coi riflettori puntati sulle acque, la brezza di S. Giorgio era dolce. Mi mossi inquieto nel parco, arrivai fino all’orlo della spiaggia, guardai nel buio delle risacche, ascoltai le voci smorzate dei pescatori. Ebbi paura e istintivamente mi voltai: la facciata vittoriana del College mi appariva un imponente spettro con un solo occhio illuminato sotto i tetti. Ebbi ancora più paura: lassù, sotto i tetti, non c’era quiete.

° ° °

Lo sparo venne lungo e disperato, come grido di gabbiano ferito a morte, e venne dalla luce dove non c’era quiete. Mi misi a correre tra le palme, incespicai negli sterpi, caddi e mi rialzai negli avvallamenti del terreno. Le finestre, adesso, erano tutte illuminate e voci concitate rimbalzavano nei davanzali. Arrivai all’ingresso, incespicai sul primo gradino e andai a sbattere sulla porta scorrevole della hall che mi catapultò dentro come una palla impazzita.

Nella hall regnava la babele dei comportamenti: chi andava a destra e chi a sinistra, chi si abbracciava e chi urlava, chi piangeva e chi sospirava, chi faceva un soliloquio e chi scrollava la testa ridendo istericamente. Guardai tutti e non vidi Mr. Johnson. Miss Tracy, al mio apparire catapultato, mi si precipitò incontro e mi abbracciò piangendo.

Poi ci fu silenzio.

Ronald apparve e teneva tra le dita un foglio. Si mise al centro della hall e lesse il foglio senza tanti preamboli: “Sono stato un cattivo poliziotto di un film scadente. La mia interpretazione è risultata di pessima levatura, dunque tolgo il disturbo, chiedendo a tutti di perdonarmi per il trambusto che procurerò. Una pallottola è più che sufficiente. Firmato Johnson”.

Ronald ripiegò il foglio in un silenzio rotto qua e là da scoppi di pianto. Lui fulminò tutti coi suoi occhi grigi e disse in tono secco: “Prego l’intero corpo insegnanti di presentarsi da me domani mattina alle nove. Nel frattempo chiamerò la polizia per le formalità del caso. Sarà mio dovere assumermi ogni responsabilità per ciò che è accaduto. Buonanotte”.

° ° °

Quella notte Miss Tracy tremava allacciata a me. Continuava a dire: “Ho paura, Louis! Mr. Johnson suicida? E’ una pazzia, non è possibile, è assurdo. Era troppo composto per come affrontava le cose, per come le risolveva; noi insopportabili con le nostre pretese, lui sempre discreto, sempre presente: era una certezza!”. Lei tremava allacciata a me e parlava a blocchi, senza un filo che legasse insieme tutto ciò che diceva. “Com’è possibile il suo suicidio? Forse qualcuno gli ha sparato, poi ha scritto la lettera. E’ possibile, Louis? Fossi la polizia, indagherei in questo senso, analizzerei impronte, posizione del morto, posizione dell’arma, traiettoria del proiettile, spostamenti di oggetti, forse la porta è stata forzata, forse ci sono tracce di altre presenze sospette”.

“Ci vorrebbe Sherlock Holmes, Tracy” dissi tenendola stretta. “Tu ragioni come Sherlock Holmes e ti capisco. Io sono con te, Tracy, io so che Mr. Johnson non si è suicidato, ma lo ha ucciso una… scarpa rotta!”.

“Una scarpa rotta?”.

“Sì, una scarpa rotta che vola sul mare nelle notti di tempesta, scende in questo College impugnando la pistola, entra nella camera di Johnson e gli spara alla tempia. Poi fugge!”.

“Louis: una scarpa rotta che vola, impugna la pistola, uccide. Louis, mi vuoi spiegare?”. Si rannicchiò tutta contro di me nascondendo la faccia nel mio petto. Sentivo le sue lacrime sul mio petto, sentivo il suo respiro breve, sentivo la turba dei suoi pensieri accavallarsi sul mio cuore. Lei piangeva, perché non poteva accettare che tutto ciò che le avevo detto poteva essere vero. Lei rifiutava di accettare che tutto ciò che aveva appena sentito da me, potesse rappresentare la maschera assurda della tragedia umana. Lei ripeteva tra le lacrime: – una scarpa rotta che vola… una scarpa rotta con la pistola… una scarpa rotta che uccide… – Ripeteva le cose udite da me, piangeva e tremava tutta. Infine si riscosse, rialzò di scatto il viso, si mise seduta sul letto con le gambe incrociate, disse: “Voglio una ragione! Una vita è stata brutalmente sottratta e la vita è sacra, non credi Louis? La vita merita rispetto, non c’è da scherzarci sopra”.

“Sono d’accordo con te, Tracy,” dissi, “ e ti assicuro che non ho scherzato. La scarpa rotta esiste realmente e vola sul mare nelle notti di tempesta e nelle notti di quiete. Vedi, Tracy, le scarpe rotte sono la parte in ombra dell’essere umano e l’essere umano deve saper accettarle altrimenti soccombe. Credimi, le scarpe rotte esistono, volano, uccidono. Credimi!”.

° ° °

Esiste la speranza, ma viene il tempo del buio, viene l’inutile certezza della finzione, viene l’eccezione, la miscredenza, la pazzia, ed è come se il tempo ci fosse e non ci fosse, poi c’è stato e poi non c’è stato. Ma già incombe una nuova avventura e i sogni fanno gridare le inutili verità. L’umanità comunque attende.

Il contratto stava per scadere, decisi di non rinnovarlo e di ritornare da dove ero venuto. In me c’era tristezza, ma c’era anche la certezza che l’incoerenza umana porta a svelare il grande segreto del sorriso. Non era necessario cercare lo scopo della propria vita, remando controcorrente; era importante, invece, conoscere il tasso di superbia che ognuno ha dentro di sé. Vivere, dunque, per conoscere il proprio tasso di superbia e diminuirlo sempre più, continuando a rischiare col vivere e, se necessario, a morire per il vivere.

Questa è la pazzia del vivere, questo è conoscere il grande segreto del sorriso.

Feci questo ragionamento a Mr. Ronald, quando mi presentai per comunicargli la mia volontà di ritornare nella mia metropoli d’oltreoceano.

“Sì,” disse Mr. Ronald. “Sì!” ripetè con forza, guardandomi fisso negli occhi. “Sì!” disse con più forza per la terza volta. Non disse altro, poi mi tese la mano.

Volli fare l’ultima passeggiata nel parco, il vento ghiacciato della Cornovaglia fuggiva tra le grandi palme, il vento gridava la violenza della libertà e gettava sul mio viso acuti gemiti. Tesi le orecchie e mi parve di riconoscere, tra i suoni aspri e prolungati del vento, una voce, libera e scanzonata. Tesi ancora di più le orecchie e alla fine riconobbi la voce. La voce, adesso, era chiara ed era quieta. Lontano volavano le vedove del paradiso.

Capitolo XXII

Miss Tracy, ultimo atto, ultima notte. Eravamo sereni, Ci eravamo conosciuti, ci eravamo arricchiti dentro, avevamo fatto un passo avanti. Tracy aveva una visione positiva della vita, sarebbe diventata, nella vita, una grande compagna, sarebbe stata una grande madre. Al mattino ci abbracciammo con amore, vinceva l’emozione. Dopo l’ultimo bacio, lei non voleva più staccarsi da me.

Era venuta al College per un training di aggiornamento della lingua inglese, sarebbe ritornata lassù in Svezia dove viveva felicemente sposata.

Partii per Dover senza un programma di ritorno, sapevo che una strada l’avrei imboccata, non c’erano dubbi. Pensavo a donna Cesira. Aveva visto giusto! Mi aveva detto che il groviglio del futuro non dà scampo, ma che è giusto rischiare e non accontentarsi mai. Ricordati Louis, mi aveva detto , infine, abbracciandomi: è giusto partire e ritornare.

Mi ritrovai tra le grandi navi, ma la nave di Karl non c’era.

Guardavo le navi, guardavo l’ignoto che era su quelle navi, guardavo la libertà che era sui pinnacoli e sui bompressi, e respiravo la puzza di petrolio che avvolgeva paranchi, drizze, coffe e mantigli. Il porto mi affascinava, e ciò che mi legava indissolubilmente a lui, era il suo senso di inafferrabilità che avvertivo nei velacci, nei parrocchetti, nei fiocchi e nei controfiocchi e in tutte le vele: in quelle a tarchia, in quelle di trinchetto, di gabbia, di mezzana, di belvedere, di maestra.

Nel porto c’era perfino un veliero da guerra in disuso, con gli affusti dei cannoni lungo il cassero e sopra il castello di prora, e quegli affusti era oliati a dovere e in grande forma, talmente in forma che dalle bocche sentivo uscire le antiche urla dei pirati dei Tropici e delle Isole Australi.

Guardavo le navi, le loro cisterne, le loro caldaie, i loro fumaioli e ne sentivo la nervosa sinfonia del loro chiuso stagnante. Mi stavo perdendo nel grande paesaggio delle sartie e dei bozzelli, immaginando tutti i tipi di nodi di giunzione che connettevano drizze e scotte.

Poi sentii un picchiettare cadenzato su chiodi, guardai nella direzione dei colpi e la vidi: era una nave con cinque alberi legati assieme, in senso orizzontale e trasversale, da grossi pennoni inchiavardati al di sotto delle coffe di trinchetto, di maestra, di gabbia, di mezzana e di bonaventura. Era un veliero solido con chiglia corazzata di ferro e sugli alberi e sulle coffe stavano uomini minuscoli che saltavano dagli stralli alle sartie con l’agilità dei ragni, agganciati ai paranchi, scivolanti sul bompresso, saltellanti sul ponte dopo aver spiccato un volo dalla battagliola di prora alla battagliola di poppa.

Mi avvicinai per vedere meglio quegli uomini-ragno e vidi visi cotti dal sole, mandibole schiacciate, bocche larghe, occhi trasversali e mobili, fronti appena accennate, ispidi capelli neri. Alcuni tenevano martelli in una mano e chiodi tra i denti, altri annodavano galleggianti, griselle e bigotte. Molti stavano lassù sui pennoni e sulle formaggette, costruendo nodi di bandiera e di scotta o facendo nodi di raia e di caviglia o ancora distendendo le vele sulle travi trasversali per poi saltare sugli stragli, sul cassero di poppa e sulle gru del traversino. Grossi ragni fuggenti, manovrati da un gigante che stava sul ponte principale a gambe larghe, impartendo ordini secchi e precisi. Guardai affascinato quel gigante e mi dissi che dovevo andare da lui su quel ponte. Non persi tempo, salii in fretta le tre scalette trasversali e mi trovai davanti a un uomo che aveva tutta l’aria di aspettarmi. Quest’uomo continuò a dare ordini, consultando continuamente un grosso cronometro, e io gli stavo dietro valutandogli le spalle possenti e i boccoli dei lunghi capelli biondi. Okay!, gridò infine agli uomini e tutti volarono giù dagli alberi e dai pennoni per radunarsi sull’attenti davanti a lui.

Si voltò verso di me, disse: “Sono Edmond”.

“Io, Louis” dissi.

Lui continuò: “Lei non è qui per curiosità. Ciò che vede qui può vederlo tranquillamente dalla banchina”. Disse agli uomini ch’erano liberi di fare le loro cose e, come se nulla fosse, mi informò: “ Sono di Halifax, Nuova Scozia, trasporto petrolio grezzo e petrolio raffinato tre volte l’anno dal Canada a qui e viceversa. Un solo scalo: Bordeaux.

I miei uomini sono di Manila, di Botangas, di Quezon City. Ottimi marinai, con me da dieci anni, grande spirito di corpo, nessuno resta solo”.

Mi squadrò da capo a piedi e disse: “Lei è americano ed è qui per un passaggio, non è così? Va bene: okay! Allora diciamo così: lei, Louis, ha perso l’aereo a Londra ed è venuto qui al porto per tentare l’avventura. Se va!, si è detto.

Dunque, è arrivato al porto, ha dato un’occhiata in giro, ha visto la mia nave ed è salito a bordo per chiedermi se la riporto in patria. Dieci a uno che è così!”. Parlava e rideva, e io non sapevo cosa dire. Lui continuò a spiegarmi: “Trasporto anche ferro, nichel, rame, zinco, piombo, ma solo dal Canada a qui. Allora, signor Louis, dov’è diretto?”

“New York” dissi finalmente.

“Perfetto!” fece lui. “Partiamo stanotte e faremo scalo a Bordeaux”. Mi guardò meglio e i suoi grossi zaffiri brillavano. Disse: “No, lei sa poco di navigazione, ma fa lo stesso, starà con me al sestante e controlleremo insieme l’arco della latitudine e il quadrante dell’ora locale per la longitudine. Ma sì: vedrà Louis! Sarà tutto affascinante, nessun problema. D’altronde, la nave saprebbe trovare la rotta giusta da sola: dieci anni e sempre la stessa rotta!”.

Scendemmo fino al ponte inferiore. Scendevamo dalle scale e lui mi spiegava: “Qui, le piastre di rinforzo dei bagli, lì, i puntali di sostegno dei ponti, tutto in ferro eccetto il teak dei ponti. Lo scafo è di una corazzata, ci mancherebbe non lo fosse! Mica trasportiamo bambagia! E poi, la corrente del Labrador non scherza con le sue montagne di ghiaccio che ti rinfrescano il culo”.

Quando arrivammo al ponte inferiore, lui puntò il dito verso una scaletta che portava alle stive. “Le faccio una confidenza, Louis,” disse. “Vede l’imbocco della stiva? Bene, io faccio scalo a Bordeaux per rifornirmi di vini pregiati. Vini di Bordeaux, delle Cotes du Rhone, di Borgogna, della Loira, della Mosella… e poi: champagne!”. Rise e fece l’occhiello di pollice e indice mettendolo sulla bocca e facendo uno schiocco con le labbra. Disse: “Quelli di Terranova vanno pazzi per i vini francesi”.

° ° °

Diventai un discreto marinaio. Imparai le accostate a sinistra e a dritta; imparai le andature con nure a dritta e nure a sinistra, a seconda se il vento soffiava da prua o da poppa; imparai a usare le boline strette, al traverso e al gran lasco. Imparai a distinguere e a manovrare le vele; cos’era uno stroppo, un paranco, una sartia, un arridatoio. Usai torcicavi, maglietti, caviglie, ganci; seppi che la velocità della nave era calcolata dal solcometro a elica, pesce rotante trainato in acqua e collegato al contamiglia per mezzo di una sagola con volano. Conobbi a fondo il sestante, combinato con calibri di misura e specchi, strumento semplicissimo e importantissimo, che ci teneva aggiornati sulla sicurezza della nostra rotta.

Tutto correva all’infinito, perché era scritto così da qualche parte.

Per Edmond parlare d’infinito non aveva senso. L’uomo non è l’infinito, la nave non è l’infinito, il mare non è l’infinito. Forse lo è il cielo? Forse!

Comunque, lasciamo stare l’uomo, lasciamo stare il cielo: parliamo della nave. La nave ha un preciso traguardo da raggiungere: è questo l’infinito? Nella notte ognuno può stare come vuole nel suo mondo, finito o infinito, dipende dalla sua natura, dipende da come interpreta le cose che gli succedono. Sulla nave di Edmond non c’era la poesia di Karl, e dunque? Paragonavo i due uomini: erano due uomini dalla grande coscienza, due uomini di chiarezza interiore e umana: dunque? Alla fine conclusi in un modo platonicamente logico: l’umanità può essere misurata sia col metro della poesia che col metro della pura razionalità.

Passammo la Manica e scendemmo fino a Bordeaux. Caricammo i vini pregiati, ci ubriacammo perfino un po’ anche noi con quei vini, ripartimmo euforici aggirando le isole frastagliate di Terranova. Dopo quelle isole ci accostammo all’Isola del Capo Bretone, sfiorammo la piccola Sidney della Nuova Scozia e fummo in vista di Halifax.

° ° °

Dentro una mattina spettrale, dentro il dedalo degli scafi e delle scialuppe, il capitano Edmond mi porse una fotografia ingiallita e spiegazzata dai battiti del tempo. Sulla fotografia vidi una ragazza bellissima e sorridente.

“Adesso posso mostrartela” mi disse. “Lei me la porto sempre qui, nella tasca sopra il cuore. Lei aveva venticinque anni e aveva gli occhi verdi del mio mare che si accendevano a ogni mio ritorno. Vedi com’è bella? Vedi quanta forza vitale possiede? Eppure, questa bellezza e questa forza vitale hanno avuto fine.

Cos’è dunque l’infinito se la grande ombra me l’ha rapita a venticinque anni? Aveva soltanto venticinque anni, Louis! Mi è rimasta questa fotografia, e io la guardo nelle notti di ghiaccio, ascolto la sua voce nelle notti di solitudine disperata, offro la mia vita a lei che mi sorride sempre”. Mi abbracciò. “Scrivimi,” disse, “spero di leggerti ad ogni mio ritorno. Addio Louis!”.

Sbarcai, stringendo le mani a tutto l’equipaggio schierato.

Capitolo XXIII

Occhi riflessi nelle acque limpide del mare di Sulu, pelle profumata di erbe esotiche, sorriso pensoso: Helène era lì davanti a lui.

Helène disse: “Stai rincorrendo la solitudine, Louis, ma la solitudine è imprendibile”.

“Non ho soluzione, Helène?”. La baciò sugli occhi. “Forse sei tu la soluzione” disse.

Helène gli mise la punta dell’indice sotto il mento. “Se vuoi” disse, e continuò con naturalezza: “Hai corso molto, Louis, puoi ancora correre, puoi correre all’infinito, ma il tuo cuore deve sentirsi libero, il tuo cuore deve dissolvere le illusioni. Dedicati all’arte, Louis! Tu puoi correre all’infinito con l’arte, tu hai il cuore dell’artista. La solitudine la vinci così!”.

“Helène stai con me” disse Louis.

“Sì, sto con te Louis” disse Helène.

° ° °

Quando Louis andò all’edicola, Jack era lì ad aspettarlo. Jack mise fuori il braccio flaccido e gli porse il Mirror. Louis disse: “Come va, Jack”.“Va, se non prendi pugni in faccia” disse Jack. “Come sto? Sto bene se sto dietro questo vetro antiproiettile; a dire il vero, mi secca un po’ stare in questa gabbia come una tigre del Bengala, però è meglio così. La gente mi dice sempre: – Lì dietro, sembri una tigre del Bengala! –. Io la lascio dire; io preferisco essere una tigre del Bengala che prendermi pugni in faccia o pallottole nella pancia. Sarò un po’ fissato, ma mi risulta che anche i luoghi sacri vengono chiusi coi catenacci. E se vengono chiusi loro!

Louis,” implorò Jack con gli occhi gonfi di botte prese nel passato, “dove sta il sacro? Dimmelo tu, Louis!”.


Materiale
Literary © 1997-2024 - Issn 1971-9175 - Libraria Padovana Editrice - P.I. IT02493400283 - Privacy - Cookie - Gerenza