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Viaggio al
termine dell’anima, nell’intrico di un abisso da cui non c’è ritorno. Dov’è
l’uomo di quell’abisso? Sa ancora chi è; sa ancora sognare; sa ancora amare; sa
ancora stare un po’ con se stesso. Oppure si sente soltanto un oggetto qualsiasi
di rifiuto, un fossile, un morto dentro la sua stessa morte.
La tratta
dell’anima di un uomo diventato assente e trasformato in ombra che muore senza
morte. Quest’ombra, adesso, è oppressa dal crescendo dei “moralismi civili”, che
tramutano il sangue del suo spirito in cenere. L’ombra di cenere, la cui vita
non ha né spazio né illusione, e i suoi sogni sono mancanti di tempo. Le resta
comunque ancora un’ironia: le resta l’ironia della speranza.
Secondo
viaggio. Viaggio al termine di baratri e di estasi: promesse, cancellazioni,
accelerazioni, schiavitù. Viaggio di una falsa identità che nasconde diaboliche
girandole di marionette ridenti e tragiche. Tu, mondo, mi sei ostile e io sono
solo a combatterti. Dunque, sto con la mia docile “amante” che mi dà la carica
del conquistatore. Lei mi sarà sempre fedele. Già, lei non
ti tradirà mai: l’amore è cieco; ed è cieco qualsiasi tipo di amore. Crepi la
pietà, viva la libertà!
Questo, il
mondovisione dell’opera in versi Le stanze del cielo.
Ma ciò che
bisogna cogliere in quest’opera è “il messaggio”. Questo
messaggio dice: "Io ti ricordo, mondo, che per creare un meccanismo
armonicamente valido occorre che tutti i suoi pezzi siano collocati al posto
giusto e, soprattutto, siano considerati secondo il loro giusto valore. Adesso
lo sai. Se prima eri distratto e non ci pensavi su troppo ai tuoi “pezzi
storti”, adesso Le stanze del cielo ti risvegliano la coscienza e ti ricordano
che basta un piccolo sforzo di “calore umano” e di “spogliazione di spocchia”,
per dare vita e slancio ai tuoi “pezzi storti” (così li chiami tu!)".
Questo è il messaggio rivelatore dell’opera in versi di Paolo Ruffilli; un’opera
alla Whitman, ma con versi più puliti, più eleganti.
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Recensione |
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