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Il margine e il limite nell’infinito del ‘fuorigioco’

Il luogo, lo sguardo

Il de/lirio poetico è stato avvertito fin dalla più remota antichità con profonda inquietudine. I sogni di pensatori e visionari ne furono turbati, finché poi visione e pensiero giunsero ad identificarsi.
L’ottica del ‘vedere’ assurse ad emblema della teoresi come atto supremo della soggettività umana, ed è da allora che il baratro tra il parlare (poetico) e vedere (filosofico) si è fatto incolmabile. La parola, una volta emancipata dalla “retta” misura del vedere, pare inesorabilmente condannata a precipitare nel vuoto.
Eppure questo vuoto altro non è che il limite stesso del linguaggio.

La prima percezione, prescindendo dall’ininterrotta pulsazione dei testi, è quella del luogo (‘fuorigioco’ quale lemma di una concezione non soltanto logistica della ‘deriva’) apiretico di una paradossale potenza della disseminazione.

Venendo a mancare una topologia, questa fallirebbe fin dall’inizio se tentasse di assegnare delle coordinate in un territorio fatto di spaesamento; la topica dell’ebbrezza, in quanto topica dell’immaginario ebbro, trova ovunque casse di risonanza. Fuorigioco: amplificazione che non perde nulla di ciò che va a diradarsi, il gioco antieconomico di un fragore che non subisce le cosiddette leggi dell’entropia. Dialettizzare l’ebbrezza per (co)involgerla nella spinta rivoluzionaria significa procedere per accrescimento contro il dettato hegeliano del “togliere conservando”. Fuorigioco diviene il terreno di coltura dell’immaginario, la sovversione dell’economia dei concetti, la potenza non già del ‘negativo’ ma della disseminazione stessa come affermazione vitale (ghermii l’inizio l’alba la partenza/quando colma era al culmine potenza/poi dopo l’atto, dopo, dissipato. Da Parabola - p. 9). Ne va del concreto, della corporeità. E secondo questo sguardo sui luoghi ‘fuori del gioco’, la mano poetante si erge a figura ebbra per eccellenza: aprendo un varco da cui fuoriesce la percezione messianica (e profana) portatrice di una ‘rivelazione’ immanente. Qui sta il senso del “meraviglioso”, non nell’apertura mistica ad un altrove (l’Altro, l’Es, e tutte le teologie residuali), bensì nell’affiorare della contraddizione che resiste ad ogni tentativo di risoluzione. Il meraviglioso appartiene alla superficie, alle increspature che pervadono come un brivido lo spazio metamorfico del ‘fuorigioco’(Nello zero dell’alzo l’apertura/la gratuità totale, il grado zero,/lasciarsi andare oltre l’alba di ghiaccio /illimpidisce cristalli alle grondaie/come il cardillo nel frullo secco il gelo/squarcia il riflesso, è tutto il mondo specchio. Polarità - p. 51). Tutto consiste nel rivolgimento dello sguardo, forse nell’adozione di quella che gli espressionisti amavano chiamare “seconda vista”.

Lo sguardo “storicistico” non vede altro che un feticcio di un passato ricostruito a propria immagine e somiglianza, non la Storia, quindi, ma la sua finzione. Un prodotto di laboratorio. Riscrivere la funzione stessa della memoria, riaprire la ferita che appartiene al corpo dei cosiddetti ricordi: è uno dei tratti vettoriali di questa poetica (Eri di fuoco e terra, solida roccia/falò di bruciacuore/linee e confini sfondamenti/diritto al buon senso ancora/di carne, spigoloso/e incurante nella vampa/di risate calore terrapieno,/maligno tralignavi gleba infeconda/… da Oroscopi - p. 47); percorsi mnemonici,dunque, nella mimesi di una geografia erotica di rimando pre-socratico all’archetipia dei quattro elementi (Sono di acqua e aria/ero all’inizio d’ogni condensa/sfaldo flessuosa, mobile divelgo/avvolgo tracimando tutte forme/a riacquistare l’alveo alore d’onda, amore, t’ho allagato/senza fondo. -idem -). Superata l’adiacenza tra pubblico e privato, si mostra pertanto che non esiste un “vedere” individuale separabile o separato dall’ambito del collettivo, nella misura in cui quest’ultimo non venga omologato con la dimensione anonima del “pubblico”. Non c’è dubbio che lo sguardo che diventa ‘politico’ sia innanzitutto malato, ebbro nell’espressione sublime contaminata felicemente, e in feroce bellezza, di elementi “bassi”(La vita, vostra, scusate/ è una latrina/infiocchettata di specchi veneziani/improfumata d’essenza alla viola/accarezzata da carta soffice spuma/Potete fare quello che volete/apofantica è tautologia,/ merda di merda resta e così sia. Requiem - p. 46) La dialettizzazione dello sguardo ebbro finisce con il ricominciare ogni volta da capo, come se l’infinito diventasse un basso ostinato, e lo sguardo un canto che ne raccoglie la luce nascosta nel fitto delle pieghe più oscure. La rappresentazione storicistica è sempre stata sorda.

Fuorigioco come labirinto del ricordo

Il ricordo, assenza di libro, assenza di opera, disfa e scompagina gli ordigni testuali faticosamente costruiti attraverso la rimozione. Se è caratteristico del rimosso il ritornare, il riaffiorare tra le pieghe del dire in corso come una seconda voce nella prima, il ricordo assomiglia piuttosto alla “pausa” nel senso musicale del termine. Voce senza suono che ferisce il tessuto mnestico senza lasciare intravedere nulla “al di sotto”(L’innesco, la scocca, la scintilla,/l’istante primigenio dell’avvio,/la nascita miccia dell’abbrivio,/l’arco che tende al tuffo il trampolino:/... da Parabola - p. 9).

Il rimosso è complementare al lavoro di rimozione, è la controparte della memoria. I due sono inscindibili ed abitano sotto lo stesso cielo, territori limitrofi e distinti ma entro una sola legislazione. Ammesso che sia valida la distinzione freudiana, potremmo dire che il rimosso, in quanto figura della nevrosi, sfugge al carattere distruttivo insito nel ricordo, in quanto figura della psicosi (Venturosa nel vuoto cava saggiai/il sale che raggrumano alle stive/gli assilli, echi corrosi degli abissi,/ onde si involsero i rampini/ nel corpo a corpo/assottigliando a inchini./… da Corsale - p. 13) la cui scaturigine è comunque…dall’inizio del verbo (da Nugae - p. 12). Ma lo strappo è anche sberleffo, non si produce per esibire un’altra versione dell’accaduto, per raccontare altrimenti ciò che il memoriale non riporta o falsifica. Il ricordo “non fa testo” e si rifiuta al lavoro mnestico (E tra me e il mondo sin da ragazzina/l’indicazione è pressoché l’univoca:/potete andare come siete adusi/a dar via il culo da qualche altra parte. da Epigramma - p. 20) Alla versione alternativa del rimosso, alla sua pretesa di porsi come discorso sottostante, inter/testo piagnucolante, il ricordo “rammemora” l’impossibilità di stilare “versioni”, comunque si voglia chiamare l’esito del vaniloquio difensivo. E ciò in quanto il ricordo è intransitivo, asimmetrico e riflessivo (La sera era orchidea/sinuosa estenuava fra la seta/vainiglia discioglieva labbra e dita/fin quando filtrò la notte/e liquefatti scorremmo nel mattino/come rugiada a racchiuso ciclamino. Tarsia - p. 28). Disattende se stesso con un gesto suicida. Una scheggia. E quando il linguaggio cessa di esistere nella sua forma servile, vien meno anche il sistema difensivo sul quale si instaura la sintassi. Non c’è più un tempo vuoto e omogeneo da riempire con le sedimentazioni dell’esperienza e del significare. Dissenso dal parlare, allora: da cui scaturisce una scrittura inattesa, impossibile, costellata di ricordi senza alcuna presa sulla memoria (La vecchia non riusciva a morire/ogni tanto cambiavano un pezzo/questioni ereditarie/ma grazie a dio la memoria/era ormai un oblio./… da Senile - p. 31).

Suoni indicibili e…fuorigioco

Scindendo il ritmo dall’idea di misura, l’andamento dei testi a formare la raccolta adotta un continuo cambio di velocità la cui dissimulazione metrica (Divorando voragini arrembai/vortici di botri e catrafossi,/ attendevano al varco vieti caifassi/fra canutiglie di vescovi vermigli/ a vanagloria velario di vespai./… da Corsale-p. 13) determina una dissonanza ‘parodistica’ che rimanda a Schönberg.

La scansione viene ‘stracciata’ nel momento stesso in cui se ne reitera il flusso e il ricorso al dispositivo mitico-immaginale è presente, ma vi è anche una consapevole, precisa trattazione del ritmo e del cambio di velocità (Pochi ignorati ai margini/negli orli slabbrati ascaccio rifiutati/bruciati a volte a volte suicidati/nel minimo derisi in ogni luogo./… da Eretici - p. 29) Di conseguenza, la scrittura di Viola, una volta esauritesi le possibilità pre/testuali in senso prioritario (trama-ambiente-narratio-diacronia) finisce per sottrarsi ad ogni logica di messaggio del Senso, ad ogni dato categoriale legato alla rappresentabilità proprio perché nella trama del flusso reiterato i dati riportati in parentesi vengono sublimati dal superamento del pensiero in termini di Soggetto e Oggetto per spalancarsi su quella regione utopica e… fuorigioco che non condivide l’ordine delle mediazioni; su quella regione, affatto illocalizzabile nello spazio del mondo, che è il dominio dell’immaginale.

Ne deriva una molteplicità di piani di enunciazione, di piani di immanenza – secondo l’accezione di Deleuze e Guattari – che è plausibile esemplificare dalla letio del corpus testuale di Fuorigioco. Vi è dunque un’idea elementare in cibernetica per cui, a grandi linee, una sovrabbondanza d’enunciazioni simultanee produce un’assenza di informazione, vale a dire un rumore. Perché vi sia messaggio occorre operare una selezione alla fonte, e soprattutto una selezione degli operatori di enunciazione – si pensi alle origini del melodramma presso la Camerata fiorentina: la polifonia è considerata un assurdo perché è una sovrapposizione di voci che azzera il valore del testo –

Ora, nel complesso in questione l’Autrice oltrepassa l’idea stessa di polisemia per approdare ad una vera e propria polifonia degli enunciatori, contro lo spazio di enunciazione omogeneo delimitato dalla polisemia stessa, nell’ulteriore prospettiva della molteplicità dei piani d’enunciazione, dei piani d’immanenza, ma in ordine ad una sovradeterminazione del testo. Se nella polisemia vi è soltanto una voce, un enunciatore (e la sovradeterminazione del senso avviene sul piano del detto) nelle poesie di Viola vi è una sovradeterminazione sul piano del dire, poiché all’interno del flusso ‘inesorabile’ sono presenti più voci. Per cui, abbiamo un enunciatore intertestuale (il richiamo al tema della memoria, come già detto, la dissipazione di ogni forma di autoreferenzialità, la messa in discussione pressoché totale dell’ Io autorale); vi è un enunciatore metalinguistico; vi è un enunciatore programmatico che fa del testo una ricerca dell’ancestrale dimensione fatica, nonché una sorta di manifesto dell’assenza; vi è, restituito al suo etimo, un enunciatore politico.

Da qui nasce quel ritmo di cui si è ipotizzato, il cambio di velocità che corrisponde al succedersi degli enunciatori. Mentre la polisemia presuppone uno spazio di enunciazione omogeneo – e da qui il suo “limite” ideologico: c’è sempre in qualche modo il poeta dietro il testo – la pluralizzazione dei punti d’enunciazione dà alla scrittura di Viola il carattere di partitura.

Il decentramento del soggetto, la disseminazione del testo dal suo interno: tutto è praticato con impressionante rigore nella pluralizzazione dei centri d’enunciazione, nel…testo. Fino a scontrarsi, al fine con l’Indicibile: il limite stesso contro cui il linguaggio, urtando, s’infrange. Il testo di Viola innesca il movimento che conduce la parola a frangersi contro il suo limite. Insistentemente, senza posa (Abita la parola le crepe del selciato/un torsolo di mela, quel cuore scardinato,la gioia lungo le scale bambine e innamorate,/l’esserci tutto colmo pronte a cedere il passo,/scorrere dentro l’alveo palmo che si riempie,/ebbra vita meticcia sillaba e ci spariglia. Nomen - p. 5) Ma attraverso questo movimento, quasi in filigrana, ci si mostra qualcosa. Il limite non è il contorno, il bordo, l’astratto ‘cessare’ oltre il quale si spianerebbe il territorio dell’Ineffabile. L’Indicibile non è l’Ineffabile (M’impiglio e disincaglio,/seguo corrente/fluisco la potenza, scorro celata dentro l’ineffabile,/frullo maciullo scruto l’indicibile/…/ da Fertilità - p. 6). Il limite non è ciò che delimita dall’esterno designando l’area che sarebbe sottratta al potere espressivo del linguaggio. Come su una superficie ‘sur-topologica’, il limite si ripiega all’interno di ciò di cui è limite (Il mondo si condensa nella goccia/che cola, colma evaporata/vischio dolcezza, umido di miele/tra le gambe, tu pensi e tu non vedi/come lo squarcio sia su dentro ficcato,/chiamalo cuore cervello morbidezza/sorgente che continua si dissangua/e nella vena d’acqua trascolora scorrendo/…da Zucchero - p. 54). Nessun culto, dunque, dell’Ineffabile quasi si trattasse di una zona confinata nella lontananza di iperuraniche trascendenze; ciò vorrebbe dire irretirsi di nuovo nelle genericità di una fede, metafisica e grammaticale insieme, già demolita da Nietzsche.

All’Ineffabile spetta ancora lo statuto dell’oggettuale. Prestandosi ancora ad un genere di rapporto intenzionale qual è quello istituito dalla fede, l’Ineffabile rientra ancora nella cerchia di ciò da cui lo si vorrebbe escludere: la cerchia della rappresentazione. Hegel ne ha dimostrato le vicende indicando, tra l’altro, il cammino che dalla religione conduce alla filosofia come sapere assoluto. Sapere dell’oggetto assoluto che sa stesso come tale. L’Ineffabile, fermo nella sua esteriorità di oggetto assoluto, rimane per ciò stesso coinvolto nella logica della rappresentazione.

L’Indicibile, al contrario, si mostra come tale proprio perché irriducibile ad oggetto di cui si possa dar segno. Né referente assoluto, né significato trascendente, l’Indicibile sospende la parola ad un’attesa che mai avrà termine, sempre sul punto di accadere, come un futuro incombente e intraducibile nel concetto di avvenire: Finché una mattina svegliandomi/scoprirò d’essere infimo dio/e mi basterà ridere per alzare il vento/e battendo le mani scomparirò/imperfetta incompiuta,/scansati gli umani,/dio della goccia,/svapora ogni cosa. (Dio della goccia - p. 11)

Recensione
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