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Preparativi per la partenza
In ogni racconto a costituire il corpo del "debutto" narrativo di Paolo
Ruffilli, si delinea una vettorialità oscillante tra il de/lirio (nell'accezione
etimologica latina: uscire dal liro, dalla misura) onirico, quando la realtà nel
suo spalancare le porte dei quotidiani Inferi si fa insostenibile, e il rientro
forzato nella realtà stessa. Ma il referente dell'Io (non quello autorale, i cui
autocompiacimenti sono, nel caso, evitati con rara maestria), il puro Io che va
oltre categorie hegeliane, si chiede fino a che punto una realtà che si dà come
acquisita sia epifania di tangibilità e substantia, o non sia "realtà" sussunta
a categorizzazioni e a classificazioni di comodo. E dunque, come in una sorta di
postulato scaturito da un sofferto esercizio gnoseologico, oltre che
dall'esperienza, si afferma : "non esiste realtà se non quella che entra in noi"
(pag. 9).
Ruffilli edifica un anti-poiein quale altissima prova di sintesi semantica,
ontologica e, come detto, gnoseologica attraverso lo studio e la compenetrazione
di talune attitudini e stati socio-esistenziali di varia umanità, sempre in
oscillazione ambiguamente fascinosa tra realtà e fiction al punto di vanificare
quasi (in un sapiente gioco di presenze e assenze) l'ingerenza dell'io narrante
proposto comunque come spettatore di uno stato di deriva. Le personae di questo
intreccio calibrato attraverso una scrittura limpida e manifestata in chiave
apparentemente rievocativa per il tramite del dispositivo mnemonico in luogo di
quello mitico-immaginale si lasciano sopravvivere in una sorta di limbo
esistenziale fra misantropia e dialogo, paghe forse, ancorché un consistente
sostrato di inquietudini permei come connettivo l'intero svolgersi del testo, di
uno status quo che contempla un male di vivere di cui si intravedono i
"vantaggi" secondari (come in ogni pathos/logica): "Non so se è stato un caso. O
se fosse già scritto nel mio destino. Ma la considero la fortuna della mia vita
– mi confessò stringendo la mano della moglie che gli porgeva la tazza di caffè
– Mi ha sottratto al tormento e all'infelicità" (pag. 104) Qui, nel non raro
ricorso al tema della scrittura e alla sua funzione, l'ironia formalmente
"delicata" ma non per questo meno intrinsecamente feroce di Ruffilli, si
manifesta nell'amara constatazione di quegli aspetti mondani, codificati e
omologanti che in nome della facile fruibilità e della mercificazione proseguono
implacabili nell'opera di impoverimento e distruzione dei linguaggi creativi,
letterari e non.
Il lavoro del senso affonda, la seduzione dei significanti, in chiave
concettuale percettiva affettiva, affiora come a rigenerare, declinandole in
modo del tutto inusitato e fuori dalle pastoie in cui si arenarono le
sperimentazioni basate sulla scrittura automatica, le istanze più profonde del
pensiero surrealista proprio là dove l'architettura di Ruffilli sa spaziare con
rara agilità fra sogno e realtà distruggendone, sempre col mezzo di
enunciazioni… delicate, le tentazioni di autoreferenzialità.
Tutto ciò chiamando in causa la prima persona, l'Io narrante quale dato pre-testuale in prospettiva di una paziente quanto tenace opera di demolizione.
Significanti che nulla significano, quando alla parola è consentito di
raggiungere il luogo utopico ove lo sradicamento da ogni sede o punto di
riferimento (e nello svolgersi narrativo ogni indugio sul descrittivo è avaro,
se non per poche calibrate pennellate quasi sempre in bianconero) obbligato
diviene irreversibile. Impossibile, ormai, frenarne la spinta a varcare ogni
confine, a spingersi sempre più oltre in un moto di incessante erramento. Verso
regioni che nessun orizzonte può più contenere, e nessuna demarcazione
racchiudere entro i termini di un territorio circoscritto una volta per tutte.
"Si può fare tutto, ma avendo l'accortezza di non dimenticarsi che si tratta di
una finzione" Così avverte, emblematicamente, l'anziana ex-spogliarellista
protagonista del racconto "Schiava d'amore" dove, attraverso la rievocazione
della potenza e degli slanci del'Eros (pur nella desolata constatazione della
costrizione dei ruoli maschio/femmina ingabbiati nelle caselle precostituite del
controllo sociale), si afferma ancor più l'esilio dal senso, dalla rassicurante
dimora in cui la parola riluce, e si dà esodo verso oltre ed altro – senza
Nostalgia – allora alla parola si dischiude l'altro versante. Dimissionaria dal
Senso, essa si volge allo spazio del Neutro. Dall'Uno all'Altro.
Arrischiata nello spazio "mortale" del Neutro, la scrittura ormai fuoriuscita
dall'ordine del Mondo si inerpica nel silenzioso versante della pagina. Un altro
luogo emerge. Sul cui suolo la catastrofe celebra il suo festoso sacrificio:
gaia scrittura del disastro.
Ruffilli evita di banalizzare in versione psicologistica ciò che i sensi
avvertono e comunque, quand'anche si voglia con ipotetica chiusura vanificare la
"funzionalità" di alcuni di essi, vi è sempre l'ancestrale sonorità del presagio
ad avvertirci della polivalenza del concetto stesso di Realtà, se è vero che
un'entità astratta segue la sua realizzazione cangiante, infine, in evento: "Si
cancellano di colpo le distanze. Si annulla perfino il peso del corpo, in questo
tramite globale… L'io governa il sogno di una presenza tentacolare. Dovunque,
sempre più dentro." (pag. 29) Come a dire il confine (e fine) del Senso, e
dunque dei limiti del linguaggio; ma anche introspezione centripeta di detti
limiti evitando ogni compiacenza metalinguistica: il linguaggio che divora il
senso, scrittura che diviene chiave di letio per una religio del mondo. E nulla
è di ierofanico se si vuole dilatare il significato di religio. I piani
enunciativi sono connessi al calarsi nel corpus della memoria al fine di
rifondarne le archetipie passando attraverso il post-mito, e dunque la
complementarietà fisiologica di un'origine. In questa fisicità dei preparativi
che a nulla portano (Lo sbarco a Cythera è sempre rimandato: fortunatamente
l'erranza non ha mai fine a malgrado dei "pericoli" che ogni iter presenta) vi è
una rivisitazione spogliata da nostalgici accomodamenti per improbabili "età
dell'oro", certo perché maggiormente peculiare all'oggettivazione profonda
dell'atto scrivente/scritto quale elemento sinoetico fra memoria soggettiva e
desiderio dell'essere, presagio e stupore primordiali, metaforizzazione del
Reale.
A riprova di ciò, piace concludere citando il finale del racconto "Il mare ai
monti", dove la voce interlocutrice così enuncia: "Stupito? – mi chiese a
conclusione della sua storia – Da sempre, se lo ricordi, la superstizione
governa le navi e guida i marinai".
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Recensione |
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