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Come dice nella premessa, il
palermitano Lucio Zinna ha finalmente assolto il suo “obbligo morale” di far
vedere la luce agli esiti delle sue ricerche, proseguite per più di un quarto di
secolo, sulla morte di Ippolito Nievo, che aveva in parte anticipato in un
volumetto stampato a Pisa nel 1980, dal titolo Come un sogno incredibile
– Ipotesi sul caso Nievo. Stavolta l’impegno e la costanza di Zinna sono
stati premiati, perché alle ricerche d’archivio – tutti quelli isolani e
continentali – s’è aggiunto il fortuito rinvenimento d’un carteggio privato
nella stessa Palermo, quello di un funzionario che aveva lavorato insieme con
Nievo all’Intendenza, Luigi Naselli Flores, e aveva conservato copia di lettere
e documenti ufficiali. Sicché il libro che ora esce, Il caso Nievo – morte di
un garibaldino, per i tipi di Caramanica di Marina di Minturno (LT), non
offre nemmeno più una ipotesi, ma appare quasi prossimo alla verità
storica: la morte di Nievo, vice Intendente nell’amministrazione finanziaria
dell’impresa dei Mille, quella degli altri funzionari che con lui viaggiavano
alla volta di Torino, nella notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 a bordo del
piroscafo Ercole ormai giunto fra Capri e Napoli, fu intenzionale,
trattandosi di un naufragio provocato da “una macchina infernale” – come disse
già nel 1881 il veronese Vittorio Cavazzocca Mazzanti – al preciso scopo di
impedire che le casse dei documenti dell’Intendenza giungessero a Torino e
dimostrassero una volta per tutte, non già le “malversazioni”, ma l’esattezza
della contabilità dell’impresa di Garibaldi e dei Garibaldini.
Ormai noi siamo abituati
alle c.d. strategie della tensione: bombe di Piazza Fontana, di Bologna,
di Piazza della Loggia, dell’Italicus, e altri episodi; ma nessuno
avrebbe immaginato che la tecnica di – come dice Zinna – un modo barbaro di
fare politica (p. 68) retroagisse via via nel tempo e, attraverso altri
episodi tipici come Portella della Ginestra (che Giuseppe Casarrubea ci ha
rivelato in Storia segreta della Sicilia, Bompiani, 2005) o i
pugnalatori di Palermo del 1862 (Salvatore Mannino nel 1902 e Leonardo
Sciascia nel 1976) arrivasse fino allo stesso sorgere del nostro Stato Unitario.
Dunque, dice Zinna: “Strage di stato, la prima (e no certo ultima) nella storia
dell’Italia postunitaria, nella quale sarebbero periti onesti servitori della
cosa pubblica e incolpevoli e ignari cittadini”(p. 157). D’altra parte, questo
“modo barbaro di fare politica”, anche se non arriva alle stragi che coinvolgono
persone inermi, si serve sempre dell’eliminazione diretta degli avversari o di
quella morale attraverso campagne di diffamazione e menzogne (le c.d.
informazioni e controinformazioni). Per il primo caso, ci dice sempre Zinna,
“poco tempo dopo la faccenda dell’Ercole, moriva misteriosamente
assassinato il generale garibaldino Giovanni Corrao, un eroe dell’impresa dei
Mille, un uomo integerrimo e intransigente, scomodo come poteva esserlo Nievo e
anche lui conoscitore di tante magagne” (p. 158), sul quale di recente ha fatto
luce Matteo Collura (Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi,
2006). Quanto poi alle campagne di “disinformazione”, ci sembra inutile citare
quelle a cui assistiamo nella cronaca corrente della nostra vita politica
nazionale.
Nievo comunque, se alla
prima immagine che ebbe di Palermo guardando dai colli che la circondavano poté
parlare di “sogno incredibile”, avrà subito modo di ricredersi una volta che la
raggiunse e ne sperimentò l’ostico soggiorno: “egli si andava accorgendo sempre
più che la rivoluzione in Sicilia era già una rivoluzione a metà” (p. 27).
L’epopea risorgimentale ebbe infatti “numerose pieghe che talvolta si fanno
piaghe” (p. 159). Quando perciò alcune voci della storiografia posteriore
rimproverano a Nievo quasi un’aperta ostilità “razziale”, lui settentrionale,
nei confronti dei siciliani, si dimenticano che il suo era uno sguardo che
veniva dall’interno dei fatti ed era al centro di infiniti intrighi, non solo da
parte della reazione dei filoborbonici, ma purtroppo da parte degli stessi
emissari inviati da Cavour, come fu Giuseppe La Farina. Sicché, dice Zinna, “amò
la Sicilia, i siciliani no” (p. 28), perché la maggior parte di coloro con cui
entrava in contatto erano degli avversari palesi od occulti, o tout court
lestofanti della peggior risma.
Zinna ricostruisce quasi
con puntiglio il suo soggiorno isolano, a cominciare dalla stessa “presa” della
capitale, che suddivide in tre fasi: la prima, di “prudente attesa”, nella quale
predomina il “silenzio” dei palermitani; la seconda, quando il 31 maggio la
città si solleva a séguito del discorso di Garibaldi in Piazza Pretoria (per
inciso, Zinna non cita nemmeno l’autore della fontana che vi sorge, il toscano
Francesco Camilliani) e i picciotti armati cominciano a dare la caccia ai
sorci: la terza, infine, quando la rivoluzione sfuggirà di mano allo
stesso governo dittatoriale e porterà alle rivolte popolari represse nel sangue
(vedere esemplarmente i “fatti di Bronte”). In mezzo a tali
fatti non meraviglia che lo
sguardo di Nievo risulti sempre attento e lucido, come discendeva dalla sua
cultura razionale e non mitica. Se nel luglio, in una delle consuete lettere
alla cugina Bice, può affermare “chi lo avrebbe detto ... che ci saremmo fatti
uomini, ufficiali, semidei, dopo di essere stati briganti, filibustieri e
semi-bestie?”; nell’ottobre, in un empito di sconforto, arriva a dire che “la
Sicilia è una brutta posizione per giudicar favorevolmente il genere umano”.
Soggiorno che diventa
finalmente licenza, dalla fine di dicembre del 1860 al 15 febbraio 1861 quando
gli viene concesso di prendere una boccata d’ossigeno tra i suoi, non solo nel
Friuli, ma a Bellagio dalla cugina Bice e a Milano, dove cercherà un editore per
il suo romanzo Confessioni di un italiano, a cui mancava solo l’ultima
revisione. Poi torna a Palermo, per preparare con la maggior fretta possibile le
casse con i documenti della contabilità dell’Intendenza: si imbarcherà sull’Ercole,
come sappiamo, lunedì 4 marzo 1861 e salperà alle 12,20 dalla Cala, il vecchio
porto cittadino, per non farvi più ritorno.
In appositi capitoli, Zinna
estende la sua ricostruzione anche alle ricerche successive al naufragio del
battello, non soltanto in base alla indicazioni di alcuni “paragnosti”
(occultisti), come il famoso olandese Gerard Croiset, ma con i mezzi tecnologici
moderni, come le esplorazioni con batiscafo narrate dal pronipote di Nievo,
Stanislao, ne Il prato infondo al mare (1974); da un braccio del quale
batiscafo una volta “attaccato alla pinza, stava un grumo di materia umiliata
dal tempo e dall’acqua, un ectoplasma di carte su cui erano passati antichi
conti militari!” (p. 134). Così come ci da conto persino dello strano silenzio ,
dal 5 al 16 marzo, che fece séguito all’affondamento dell’Ercole.
Purtroppo la storia non è
mai magistra vitae, come dovrebbe essere, perché le generazioni che si
succedono fanno sempre un’esperienza personale e diretta. Ma a coloro, fra i
pochi che distratti non sono, che amano fare incursioni nel nostro più recente
passato per poter meglio affrontare il futuro che ci aspetta, consigliamo
vivamente l’appassionato racconto – che tale è anche da un punto di vista
narrativo –che Zinna ci ha fatto sul caso Nievo e sul mistero della sua morte.
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Recensione |
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