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Il regno

Carmelo Pirrera ripubblica, con lievi ritocchi, un lungo racconto del 1992 intitolato Il regno (Genesi Editrice, 2013), che resta racchiuso entro due coordinate: da un lato quanto riferisce Leonardo Sciascia in un esergo tratto da Nero su nero, che una volta due contadini sentenziarono che un libro sta tutto in come finisce e che ci dev’essere un re; dall’altro, riportando in una breve premessa illustri apprezzamenti, che esso non viene sottratto dal“navigare nelle acque magiche dell’anacronia”. Infatti, come dice nella penetrante postfazione Stefano Lanuzza, si tratta di una “favola in falsetto medievale, con lievi e appena accennate metaforizzazioni mimetiche dei cicli arturiani e del Tristano riccardiano, d’ogni Stato concentrazionario”. Perché, come aggiunge Lanuzza, Pirrera in realtà è attento “ai clamori della Storia (con iniziale metafisica) e della società attuale, notomizzata e osservata con ironico distacco, doloroso disprezzo e intermittente partecipazione attraverso i tòpoi ed il filtro di una inattualità ricostruita”.

Quanto agli anacronismi, bastino questi due esempi: il “re” del racconto è chiamato Guglielmo il Nano ed è sposo della normanna Costanza, ma subito dopo è detto che negli scantinati del loro castello c’erano delle colubrine, che nel XII secolo non erano state ancora inventate; oppure che messer Lodovico, maestro d’armi di Sua Maestà, fosse andato alla guerra dei cent’anni, secondo l’oscuro gazzettiere Cinna – “cieco di un occhio perduto non si sa dove, prima o dopo Trafalgar” – per stornare i sospetti di essere l’amante della regina. D’altra parte l’ironia di Pirrera spazia a tutto campo, a cominciare dai nomi dei vari (fittizi) personaggi che s’incontrano nel racconto: Rinaldo di Fortebraccio signore di Trebisonda, “Re Befé che aveva una figlia Befiglia, Biscotta, Miniglia” (p. 19), Filippo il Bello e il suo barbiere “facendo appena eccezione per Giovanna d’Arco il cui rogo fumiga nei secoli” (p. 22), o la famula della regina, la giovane Manuela de la Sierrabruna y Saragozza y Villaermosa y Mendoza de Sacramento (p. 36).

Oltre all’onomastica Pirrera si avvale di inserti dialettali (Amuri, amuri,chi m’ha fattu fari, p.25; Ti futtisti ppi quattru sordi fitusu, curnutu!, p. 50), di lessico latino (praecipitatio), o spagnolo (de tus ojos […]sale la luz […], p. 77), o inglese (love story), o francesizzante (sac-a-porter: portaborse; coupol of Katz), o infine parodistico tout court (“Kikkazzu fa’, Totò”, p. 74). Ma inserisce anche espressioni dell’opera lirica o di celebri citazioni: “O dolci baci e languide carezze”, p. 17; “Alma terra natia, la vita che mi desti, ecco ti rendo”, p. 23; “O che gelida manina, se la lasci riscaldar…”, p. 75. Senza rinunciare peraltro a occorrenze lessicali culte (es. perduellione, delitto di alto tradimento). O senza dimenticarsi di ironizzare sulle massime del regime mussoliniano: “l’aratro traccia il solco e la mucca lo difende” (p. 20).

L’attenzione sempre presente alla nostra realtà sociopolitica ci dà passaggi ironici, o sarcastici, o semplicemente umoristici, che spesso sfiorano il divertissement. Si prenda:”taglio della spesa pubblica con particolare attenzione alla Equità […] confusa con l’Equipollenza o con l’Equivalenza” (p. 19); “Se la giustizia non si velocizza finiamo nelle mani dei rossi, dei sanculotti e dei descamisados che abuseranno delle nostre donne e mangeranno i nostri bambini” (p. 61); “la gente era scontenta della recente imposta sui sogni” (p. 61), che – come commenta il postfatore – “echeggia l’attuale canone televisivo, questo balzello sull’alienazione del popolo teledipendente”.

Né l’ironia tralascia certi aspetti della religiosità italica, spesso solo appiccicaticcia e di mera copertina, o tragicamente superstiziosa: “Studia intanto il latino, il catechismo, la vita dei santi che è roba che fa sempre comodo” (p. 24); “Molte confessavano – spontaneamente o con tenaglie – di aver avuto commercio carnale col demonio e a vederle, luride e scarmigliate, sozze e brutte, si provava un’istintiva pietà per il demonio” (p. 26); “persino qualche prete cedeva alle lusinghe e alle tentazioni della carne, debole per antonomasia” (p. 34); “La regina aveva espresso desiderio di ritirarsi in un convento di Carmelitane scalze. Si proponeva di chiedere […] la dispensa papale per continuare a portare le scarpe, soggetta com’era a frequenti raffreddori, nella cattiva e nella buona stagione” (p. 58).

E traspare infine la filosofia della storia sottesa al racconto di Pirrera. Si tratta di “aprire all’interno del personaggio pubblico, destinato alla Storia, una nicchia piccola e segreta dove nascondere i mostri che spesso il sonno della ragione, l’invidia per l’altrui fortuna o il desiderio per la donna d’altri ci inventano. E’ un cercare di eludere il giudizio della Storia o di sottrarsi a esso” (p. 33). Perché la Storia non è sempre maestra di vita. “No, soltanto ostinata e parziale memoria […]. Qualcuno mi ha detto che, in fondo, la Storia non è che una buffonata […]. Non so, non posso saperlo, ma penserei piuttosto a uno specchio dove ognuno scorge, riflessa, la propria immagine o vi legge se stesso” (pp. 78/79).

Giustamente conclude Lanuzza che “Pirrera offre […] l’occasione di rivedere con occhi antichi, ossia disincantati, l’inquietante ‘età di mezzo’ che stiamo attraversando”.

Recensione
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