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Finitudine e speranza ultraterrena
Non si può che essere solidali
con quanto scrive Rodolfo Di Biasio, nell’introduzione a questo nuovo volume di
versi del palermitano Lucio Zinna: cioè riappacificarsi con la poesia perché si
tratta di testi che si sentono subito fraterni “per il loro improrogabile
proporsi, per la loro necessità di essere e di dire”.
La porcellana più fine
consta solo di ventiquattro liriche, ma quanto stringate ed essenziali, quanto
necessarie e ineludibili nella loro realtà intellettuale e artistica: è come se
un’intera esistenza fosse concentrata e sussunta nelle “stazioni” di una
personale viacrucis in grado di rappresentare a noi −
lettori pellegrini sempre in cerca di umane verità −
il senso di un’esperienza valevole per tutti attraverso paradigmi, anziché
iconici, verbali.
Ma di che esperienza si
tratta? Già Franco Loi parlava di predilezione in Zinna “per temi misteriosi, la
cui ambiguità riveli tra cronaca e mito una concezione della realtà che vada
oltre le componenti veristiche (1991)”. Ma non è che in Zinna l’espressione del
“mistero” prevalga su quella delle “componenti veristiche”. Come mettevamo già
in luce nella recensione all’antologia poetica che Zinna ha pubblicato presso
l’Editore Caramanica nel 1994, in lui le valenze realistiche e sociali sono
sempre state presenti (e nella prima fase vicina al neo-realismo postbellico
erano addirittura prevalenti). Soltanto che progressivamente la sua ricerca si
approfondisce scavando nella propria interiorità, sicché la condizione
meridionale non è più indagata nelle sue componenti sociologiche, ma negli
introiettati risvolti individuali per farsi sempre più problematicismo e
interrogazione esistenziale. Per dirla con Giuseppe Zagarrio (in Febbre,
furore e fiele, Mursia, MI, 1983, p. 283), Zinna ha rifiutato di esprimere
la sicilitudine come lamento impotente, per farsi invece interprete di
una sicilitudine “come coscienza, volontà e conquista della dignità”.
D’altra parte tutto ciò era già implicato in quell’autodichiarazione di poetica
che Zinna rilasciò nel 1986 (bastava solo mettere a fuoco la sottolineatura
della preposizione di stato in luogo e il contenuto parentetico): “Scrivere è
per me, semplicemente, un modo inalienabile di stare nel mondo (e,
all’occorrenza, una strategia per guardarlo a distanza)”.
Ciò spiega anche perché
Zinna, nell’elaborazione del suo linguaggio poetico, abbia sempre dato la
preferenza, più che agli strumenti grammatical-sintattici (ha in comune con la
koinè novecentesca una versificazione dal ritmo franto e prosastico, che
abolisce la virgola e fa un uso forte dell’enjambement), a uno dei tropi
per dislocazione che fosse in grado di meglio attuare quella “strategia per
guardare il mondo a, distanza”: l’ironia, che gli assicurava il distanziamento
dissacrante e la presa di coscienza critica. Si veda in Gita in pullman per
anziani, del presente libretto, l’esempio: “Del sito [quello della
cattedrale palermita-na] | non si poté negare l’amenità (o disconoscere | la
beltà del belvedere)” nonché il successivo “pranzo rustico” consumato nel “la
stalla ora mutata | in posto di ristoro”. L’ironia spesso si condensa persino a
livello microsillabico: si veda come in Qui e l’altrove i “meridiani”
diventino meridioni, o in Una tenera riga come l’isola d’Elba si
trasformi in filo d’erba. Ma prendere le distanze attraverso l’uso dello
strumento ironico non significa contrapporre sempre il proprio sé al mondo: c’è
un suo uso, che è poi quello a cui ricorre più largamente Zinna, nel quale essa
funziona “in senso comunitario, quando il suo raggio d’azione [...] si estende
fino all’autoironia”; come dice D.C. Mueke (1980), “l’ironia cessa d’essere
oppositiva [cioè non aggressiva, ma conciliativa e solidarizzante] quando
diventa autoriflessiva, quando si riflette sull’ironista stesso” (si veda in
Marina Mizzau, L’ironia, Feltrinelli, MI, 1984, p. 106). D’altra parte
quel senso solidarizzante e comunitario ricercato e rintracciato da Zinna
anche quando è più fortemente critico nei confronti del contesto sociale,
corrisponde alla propria identificazione attraverso l‘alterità (frutto di
quello che C.G. Jung chiama processo di individuazione contrapposto
all’individualismo).
Che è quanto magistralmente
espresso in La perfetta similarità, dove l’altro diventa universo
insieme, “principio di diversificazione | che ti fa essere quel che sei”.
C’è poi ne La porcellana
più fine un versante che contrassegna in modo tipico la raccolta ed è dato
dalle sue valenze di distillato biografico e sapienziale, di summa cioè
di una ricerca protratta per tutta la vita e arrivata a schegge di una verità
filosofico-morale ultima e ultimati- va. Questo distillato passa attraverso due
componenti, fra di loro interconnesse e in parte coincidenti: l’una è data da
quella “infinità che −
metodica − la clessidra
| tenta di catturare” (in Illusorietà del presente), cioè dalla
consapevolezza che “tutto sparisce | con l’attimo che muore” e che, in
conseguenza, “solo | la memoria è ferma finché è data memoria”. Questo senso
della finitudine, che non è barocco indugio sull’hora ruit, ma senso
esistenziale che privilegia il valore del tempo presente proprio perché ne
conosce la fugace transitorietà (ci sono sempre in agguato “granchi senza chele
che crescono dentro”, e bisogna perciò “tenere a bada lo scirro” e “viverlo
l’attimo”), è ovviamente intrecciato con la coscienza della mortalità (delle tre
sezioni in cui è suddiviso il libretto, quella intitolata Esercizi senza
direttorio concerne proprio il tema della “Buona Morte”). Questa
meditatio mortis non è però “sgomentoso pensiero | della fine” (in
Remerciement), perché anche quando s’esercita in terra di Sant’Orsola (è il
cimitero dove c’è la Chiesa di S. Spirito, dalla quale iniziò la rivolta
antiangioina del “Vespro” del 31 marzo 1282), per il periodico ricambio dei
fiori rossi ai propri defunti, c’è la porcellana più fine: “la speranza (la
‘fede’ avresti detto) | che qualcosa si muova oltre l’alpacca
| del dubbio che
qualcuno attenda | oltre quel filo”. Va infine segnalato sul piano lessicale un
sempre maggiore impiego di prestiti linguistici (per lo più parole francesi,
inglesi, latine), qualche sicilianismo (“giugnetto” sta’ per luglio) e l’impiego
di parole composte.
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Recensione |
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