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Per Paolo Ruffilli il cielo è a stanze
Anche per Le stanze del cielo, come nei precedenti volumi di poesia, il linguaggio di Paolo Ruffilli si
caratterizza per l’unitarietà del tema trattato. Se ne La gioia e il lutto (2001)
il tema era dato – come recita il sottotitolo – da “passione e morte per AIDS”,
qui il suo collage di voci si sofferma
su chi è carcerato e perciò il libro è dedicato “a quanti hanno perduto per
colpa propria o altrui la luce della loro libertà”. Il volume, che si giova di
un’approfondita prefazione di Alfredo Giuliani che
fa un po’ la storia della poesia ruffilliana, è suddiviso in due sezioni: una,
la più lunga, sulla condizione carceraria in generale, e la seconda (di soli
dodici testi) su quei carcerati “particolari”
che alla tristezza della loro sorte aggiungono la condanna di essere drogati, e perciò soggetti a quel
“vuoto più profondo”, “scavato con l’ago e | penetrato in carne, | dentro la vena” (p. 76).
Giuliani richiama un’affermazione di Pier Vincenzo Mengaldo, secondo cui “la
realtà, per Ruffilli, è in fondo tale solo se pensata dal
soggetto”: perciò “pensare e immaginare sono, appunto, le costanti della sua poesia”. E’ per questo –
aggiunge Giuliani – che “Ruffilli si occupa soprattutto dei pensieri della gente e di quello che le
persone sono, non di quello che fanno”. E deriva proprio da questa “inclinazione
a oggettivare i dati soggettivi” la sua capacità “di calarsi nella soggettività
degli altri”. In modo particolare a Ruffilli interessano gli aspetti della vita
degli altri “segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di
vivere)”, come peraltro viene appositamente dichiarato attraverso la citazione di un poeta
cinese. Così, con questo modo di procedere, Ruffilli realizza due obiettivi: da un lato una poesia
“corale” nella sua perlustrazione dei dati del reale e dall’altro, qualsiasi sia il tema trattato, una poesia
che è anche “civile”.
Il modo di formare di Ruffilli è quello
noto dalle sue precedenti prove: si ha un repertorio di voci “poetanti”,
ciascuna contrassegnata dalla propria individualità o caratterizzazione
“esistenziale”. Ma se qui la voce è per così dire specificata dallo stesso
titolo della lirica, nel passato Ruffilli – come in Piccola colazione –
accorpava le voci una accanto all’altra, senza ricorrere ai titoli, bensì
servendosi di varie specificazioni grammaticali o tipografiche: discorso diretto
e indiretto, virgolette e parentesi, ricorso al corsivo.
Qualunque sia comunque la struttura “poematica” del suo discorso lirico, è sul piano lineare che si
caratterizza poi la sua versificazione. Proponendosi una cantabilità di tipo teatral-recitativa (Ruffilli è un
ammiratore dei settecenteschi Lorenzo Da Ponte e Carlo Goldoni e ha scritto testi per musicisti
contemporanei), costruisce i componimenti con versicoli brevi (per lo più senari e settenari), che non
arrivano mai all’endecasillabo (qui, ad es., solo sommando i primi quattro versi di Vita tagliata
si possono considerare come due endecasillabi, ove ci si avvalga in uno di
dialefe e nell’altro di sinalefe). Più che Metastasio (come pure è stato
affermato),
è perciò il modo di formare di Giorgio
Caproni quello a cui più si avvicina, anche per il ricorso alle rime interne ed
esterne e all’assonanza, D’altra parte la sua musicalità è piuttosto franta e
narrativamente contrassegnata, perché debitrice
delle esperienze antinormative novecentesche. Come, tanto per esemplificare, il modo di chiudere il
verso con la congiunzione “e” (pp. 40, 43, 52, 76).
Una figura di pensiero a cui ricorre di
frequente Ruffilli è l’ossimoro, cioé la coppia di opposti antitetici, perché – come dice egli stesso
nella prosa di Preparativi per la partenza (p. 68) – “il principio costitutivo della realtà è quello
della contraddizione”, che è “il modo secondo il quale l’energia diventa materia, con una
forzatura eppure dentro il più perfetto accordo musicale”. Si cita al riguardo l’esempio del testo Notte,
a p. 75.
Se Le stanze del cielo si possono
considerare una perlustrazione della “disgrazia”conseguente alla perdita della
libertà, possono però diventare per paradosso un inno alla libertà in sé, come
avviene nel bellissimo Sogno di p. 32, dove
un detenuto torna “libero | solo le ore della notte | finché dura il buio | dentro gli occhi”.
27 giugno 2009
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Recensione |
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