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L'arte poetica di Paolo Ruffilli
Mai come nella raccolta di poesie Natura morta (2012) Paolo Ruffilli ha espresso tanto integralmente la sua visione del mondo. “Poesie”
innanzitutto, e non “liriche”, perché – richiamando Leopardi, nell’appendice Appunti per una
ipotesi di poetica, che affermava l’impossibilità per i moderni di “non ragionare scrivendo versi” –
parla continuamente di “pensiero” (es. p.21), di “ragione” (p. 15), di “principio intellettivo” (p. 27).
Ma per rifiutare subito, nella “mente che fa ricorso all’ordine” (p. 18) ogni “idea categoriale” per il
“vasto ibrido mare / dell’indifferenziato / singolare-plurale”.
Essendo infatti la “realtà molteplice / ibrida e contraddittoria” (p. 17), in un
“travaglio / costruttivo e distruttivo / senza fine” (p. 10),
vige la coincidentia oppositorum, e perciò il principio di non contraddizione è un mero “sogno” (p. 16).
Il paradosso è pertanto una “necessità” e occorre affidarsi alla “via / allusivo-evocativa
/ del simbolo / e dell’allegoria” (p. 13). Conseguentemente, sul piano retorico, è la figura dell’ossimoro a
prevalere, affidata alle scintille che possono provocare le coppie delle
antitesi. E non si contano, nel libro di Ruffilli, gli elenchi di nomina
a contrasto (ché “il nominare … invita… a farsi essenza”: p. 15): si citano,
esemplificativamente, quelli a p. 26, a p. 32 (dove compaiono i sensi
dell’udito, del gusto, della vista, dell’odorato e del tatto), a p. 48, a p. 63,
ecc.
Il vero non può essere colto dalla ”logica pura /
concettuale” (p. 17), ma solo dall’illuminazione intuitiva. E’ quella sapienza a
cui aspira la “gnosi” (il termine ricorre molte volte), e per tale via Ruffilli
– come avevamo messo in luce in passato – si rifà da un lato a quanto afferma
Jung sulla necessità di superare il riduzionismo scientistico e
razionalistico occidentale (in gioventù Jung aveva scritto un saggio sul pensiero dello gnostico Basilide e
sulla natura antitetica e paradossale dello spirito), e dall’altro alla meditazione orientale e ai modi
per raggiungere il satori (Ruffilli ha anche curato La Regola Celeste – Il libro del Tao).
Non sono infatti asserzioni del buddismo zen le seguenti: “l’uomo saggio / non cammina eppure arriva / […]
non agisce e, intanto, compie” (p. 69); “decidendo appunto / di non andare / hai finalmente trovato
/ la strada per tornare” (p. 76)? Essendo la natura non “morta” (come dice il titolo) ma “ancora
viva” (still life, come si dice in inglese), cioé panteisticamente animata, l’autore parla anche di anima
mundi (p. 32), di “psiche collettiva al di là del singolo portatore” come precisa James Hillman, che fa
séguito a Jung nel rifarsi alle culture primitive e animistiche di cui parlano gli antropologi
occidentali, cioè a quella visione dell’anima mundi come “particolare
scintilla di anima, quell’immagine seminale che si offre attraverso ogni singola
cosa nella sua forma visibile” (L’anima del mondo e il pensiero del cuore,
Garzanti, MI, 1993, p. 103).
Come si concilia tuttavia “il ritmato / e lento scorrere
/ degli atomi” (p. 82), la lucreziana “materia generata / dal soffio di energia / che scivolando via / fa
ogni volta singolare / la totalità indifferenziata” (p. 65) con l’ipotesi creazionista che sembra
affiorare da queste contrastanti affermazioni: “l’oscura traccia / appena lì
tracciata, / verso la meta, da una mano segreta” (p. 38), “il minimo raccoglie / l’infinito, l’effimero / l’eterno e il suo
creatore / la creatura” (p. 54)? Forse la contraddizione si risolve – anche se non è detto espressamente –
ipotizzando, con Teilhard de Chardin, che anche il big bang iniziale sia l’effetto di un disegno
intelligente.
D’altronde “il mistero / più fondo del mistero” (p. 64)
“è nelle cose […] / perché tutto è sempre immaginato, / e niente mai si sa” (p.
75) (dice un’epigrafe a p. 76: “sapere di sapere / è il principio della fine./ Sapere e non sapere / ecco il sublime”). Come
si sa, per Ruffilli l’immaginazione è tutto e ogni aspetto del reale deve passare attraverso il filtro
soggettivo (esse est percepi, berkeleyanamente). Ma come si conciliano intuizione e ragione? O
meglio ancora, secondo la psicologia junghiana, come si concilia l’intelletto che “resiste
alimentandosi / da quel che nel profondo / emerge” (p. 19), cioé con gli impulsi libidici provenienti dal
rimbaudiano là bas? Per capirlo si può avvicinare l’operazione intellettuale di Ruffilli con
l’esperienza della poesia in Paul Valèry. Tutti sanno infatti che, la Jeune Parque a esempio, è poesia che
si guarda fare, traducendo il processo mentale di un pensiero autoriflettentesi. Ebbene, anche in Ruffilli
– si vedano le affermazioni nella poetica in appendice – l’intelletto ha una funzione compensatoria e
di “barriera” per arginare le inflazioni psichiche provenienti dall’inconscio. A ciò provvede la
griglia tettonica del verso, col ricorso agli strumenti fonico-sintattico-grammaticali. E’ quanto a suo
tempo aveva evidenziato Giovanni Raboni: “Per Stefano Agosti […] la poesia rappresenta […] una
specifica e cosciente esperienza dell’artificiale, dove ‘il
linguaggio è trattato alla stessa stregua d’un fascinoso, sorprendente e
delicato meccanismo’ e la poesia stessa, ‘degradata a strumento, da un lato, e a
meccanica psicologica, dall’altro, si configura, a parte objecti, come
‘prodotto’ e, a parte subjecti, come ‘esercizio’. […] Si spiega molto bene […] l’importanza attribuita da Valèry,
in poesia, al rigoroso rispetto delle convenzioni formali, dalla struttura
strofica alla rima, dagli artifici codificati del metro a quelli della retorica. L’obbedienza alle ‘regole del gioco’ vale, in un
senso, appunto a radicalizzare, rendendola più evidente e significativa, l’esperienza
dell’artificiale, nell’altro a preservare, nei limiti del possibile, il dettato delle irruzioni destabilizzanti e
incontrollabili dell’io”. In conclusione, Valèry non attribuirebbe “una priorità e forse un primato della parola
rispetto al senso, del significante rispetto al significato, ma sembra convinto del contrario: che il
pensiero, cioé, esista prima della forma in cui si manifesta, e che questa possa
solo travisarlo, renderlo impuro, mischiandovi realtà meramente verbali, realtà ‘non reali’ “ (La parola, atto impuro,
“Rinascita”, 17.10.1980).
Avendo in passato analizzato più volte la “forma” della
poesia ruffilliana (ora è lui stesso a richiamare i vari Da Ponte e Caproni, ecc.), possiamo esimerci
dal farlo in questa sede. Possiamo solo sottolineare certo lessico “filosofico” impiegato, come
tuttità, inessente, nientità. Oppure notare come, nella maggior parte dei testi della sezione Piccolo
inventario delle cose notevoli, le rime si fanno spesso più rare, e quindi
la musica meno eclatante, e i testi stessi appaiono a volte come una farmacopea,
o una fitoterapia, o una “manutenzione” corporale. Resta comunque quella
finalità di fondo, dell’inversamente proporzionale: “togliere peso, il più
che si possa, alla scrittura […], quanto più basso è il tono, tanto più alto è l’effetto”.
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