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Ingranaggi
Il sarto di Ulm

Ogni parola,
ogni sillaba, ogni lettera assume un grande risalto, isolata com’è nel bianco
del foglio, nella ricerca che comporta il fermento di mille interrogativi,
intrecciati con luminosa traiettoria in un quotidiano che non viene mai
eliminato come superfluo.
“Poesia tra le
più trasparenti e limpide che mi sia di questi tempi toccato di leggere e di
ammirare, questa di Edith, i cui versi – scrive Gino Rago in prefazione – sembra
che emergano da un magma confuso, indistinto; forse il magma di un sogno, ma del
sogno fatto ad occhi aperti e sempre in presenza della ragione per non
sprofondare definitivamente nel buio delle contraddizioni.”
La lirica
continua ad incantare con il velluto della parola, che riemerge insistentemente
dal miraggio ed è fontana dai mille zampilli verso cui l’illusione tende il suo
vertiginoso silenzio. Poesia ingranaggio, dalla voce in sottotono, che anela
incessantemente alla richiesta di una risposta, una risposta agli interrogativi
che la poetessa incide ad ogni pagina, indagando fra le pieghe degli imprevisti
e fra le sospensioni della realtà.
“Noi tutti
fragili / nudi rimescolati / negatori coscienti di un effimero volo / di sostanza
plasmati / sporcati di colori / perfino di pensieri dalle tasche profonde / noi
soli finalmente / sulla tazza seduti a tu per tu / ci possiamo parlare / e che ci
raccontiamo? / qualche favola bella per bimbi deficienti? / a cosa ci
aggrappiamo / che non al peso ceda d’un carico immenso? / potrebbe venir buono /
per i giorni di magra? / pensiamo alla Madonna ai Santi al Paradiso / oppure allo
sciacquone / che perde goccia a goccia e ci fa impazzire? / c’è chi pretende / al
Tempo colla maiuscola / armato contro vento dal suo corollario / il Ricordo
fuggente / disturbante Memoria di ogni turpitudine / da cancellare subito per far
posto al Presente / e riempire le buche da tutta l’immondizia / gemmata a fior di
pelle e badilate/ ha perso il Presente / e non lo sa / di distici s’illude / se ne
sbatte dai saggi e dei predicatori / emergenti dal nulla / se non tramestano la
brace indifferente / non si vede il futuro / velate le sue porte da nubi tossiche /
dall’Inferno tre passi.” Tutto il superfluo viene eliminato nell’attesa di una
rivelazione, che anche se invocata difficilmente tornerà ad essere presente. Qui
l’impaccio retorico si fa consistente ed assume la purezza trasfigurata del
mondo che ci circonda, e il tutto acquista sofferenza, fatica, paura. Quasi un
ignoto, caro a Baudelaire, che diventa discesa irrefrenabile verso una magia che
richiama il mistero alla superficie della coscienza, e nel simbolo il rovello
doloroso ed autentico. La coscienza non potrà restare identica a se stessa nei
momenti in cui insiste il ricordo, anche quando si ha un’impressione di sgomento
e si assiste trepidanti agli attacchi dentro e fuori dalla possibile minaccia,
all’interno di un cerchio privato, sempre attento agli accadimenti insondabili.
L’individuo ha una sua unità materiale, persistente, e le immagini hanno
tracciati policromatici in un rapporto che è sempre pronto ad esplorare, mentre
il pensiero ha il suo arco che cerca di perfezionare le “persuasioni” del
“contrario”.
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Recensione |
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