Prefazione a
Terzo tempo (l'albero dei cachi)poesie 2015-2019
di Eugenio Rebecchi

Antonio Spagnuolo
Le epifanie svelanti un io profondo, ed in continua ricerca, sono come un gioco
di forze controverse e pur avviluppate ad una molteplicità quasi mai
contraddittoria, tra il lacerante fluire melodico dei versi e la gesticolazione
scenica, che appare scissa, disarcionata, ma attraversata dal diuturno spazio di
fantasie oniriche e pulsanti.
Fare poesia diviene condivisione di una personale interpretazione dell’interesse
speculativo di indagare nel quotidiano o nel processo insicuro
ontologico-esistenziale.
Eugenio Rebecchi affonda nei misteri di un orizzonte di attesa, in un alternarsi
di cerchi concentrici tra emozioni e pennellate, memorie e illusioni, sussurri e
frantumazioni, rincorrendo con il ritmo originale dei suoi versi giochi di
rimandi visionari, resoconti dettagliati e coerenti che sospingono verso
l’ignoto, ritagli di memorie, abbagli di illusioni.
Ricama una storia personale partendo da “un trasloco faticoso / chilometri di
strada in direzione sud / per raggiungere quello che chiamiamo / cuore verde
d’Italia: l’Umbria sognata”, con la chiave dorata dell’incantesimo che
accompagna chi cerca l’abbaglio delle novità.
La scena ha i contraccolpi dell’indefinibile e si arricchisce “per l’accoglienza
garbata e pur festosa…nel plenilunio che è luce gentile per dar senso alla
notte.” Nel trascorrere di un tempo che ha dell’indefinito, vuoi per la dimora
in luoghi ove “il violino triste lamenta l’ingiustizia / della sua dimensione
assai ridotta”, vuoi per le originali pennellate dell’uomo che “vaga intorno
all’illusione / d’essere il primo tra gli animali / perché dotato di fine
intelligenza.”
Tirocinio poetico di normale quotidianità, senza farsi influenzare da impennate
eccezionali di forme audacemente ed inutilmente innovative, quali espedienti
sottoposti ad un linguaggio fuorviante e al di fuori del ritmo. La poesia di
Rebecchi è piana, elaborata secondo temi e schemi psicologici più o meno
convenzionali, ma ricchi di un sottofondo culturale di notevole impegno, con i
moduli di richiamo classicheggiante e ricca di ammiccamenti con netta prevalenza
di ricordi o di rappresentazioni paesaggistiche.
Gli scenari hanno la stilizzazione melodica, trasposta entro orizzonti
variegati, interrotta saltuariamente da rievocazioni delicatamente dolenti, ove
i personaggi presentano un’ombra inerme e remissiva.
La parola è stata presa alla lettera, indicata in sospensioni ed incisa in forma
superlativa per divenire luogo aperto ai riflessi proiettati nell’evanescenza.
Non c’è un diaframma che impedisca il dialogo e non c’è una limitazione che
impedisca l’impressione visiva, così che ogni componimento tenta di incidere,
senza risparmiarsi, nelle coordinate di una realtà che non è mai sfuggente.
Si lancia un appello a forare cunicoli per penetrare nella simbologia dallo
slancio positivo.
“L’uomo cavalca il tempo / ed i suoi spazi / anela, sorride, poi si accorge / d’un
ultimo chiarore / che è raffinata cornice / attorno al giorno morente.”
Un’allusione fortemente trasposta ai grandi occhi di chi legge, oltre la
ripetizione della contraddizione virtuale.
Nasce anche il tema dell’apertura fiduciosa per una traccia inconfondibile che
si adagia alle illusioni, e per decifrarla bisogna immaginare l’intimo contatto
che ciecamente tasta ed insegue, in una concordanza di infiniti gesti, di intimi
sguardi, di delicate carezze, tanto da far apparire irreale anche il silenzio.
Il poeta stempera con destrezza brani policromi, balzando dall’afflato
filosofico all’intaglio del corporeo, in una schermaglia attenta e intercalante.
Abbastanza di frequente ricorrono espressioni metaforizzanti con un lessico che
avvolge e si intreccia con la riflessione entro i confini di una dimensione
autobiografica, nel tentativo, sempre riuscito, di saldare la poesia classica
con quella moderna, nel distacco dal periodo di certezza del logos e del verbum,
per divenire registri, luminosità, spiragli, divergenze, armonie.
Il flusso della soggettività è dirompente, adagiato ad un monologo ininterrotto,
una colata di lava ribollente che compare dal cratere incandescente del verso,
sempre composito e rigoroso.
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