| |
Affari di cuore
Canzoniere questo di Paolo Ruffilli il cui racconto è essenzialmente quello di un maschio e della sua ferinità nei percorsi soprattutto mentali connessi alle relazioni d’amore. E proprio perché iscritto nel punto di vista del narratore che è l’attore della scena, uno dei punti di forza del testo è quel compiacimento di sé tipico d’ogni vera commedia sentimentale in cui è la storia a dirsi nell’intemperanza delle proprie parole (come l’indovinato esergo di Wittgenstein, “la verità non è nelle cose ma nel linguaggio”, sta a suggerire).
La dinamica richiamata alla mente allora (come segnalato evidentemente e più volte dalla critica) ha diversi antecedenti illustri, le cui mozioni tra le altre sono state in passato minuziosamente oggetto del prezioso “Frammenti amorosi” di Barthes, in un elenco a cui però personalmente aggiungerei per alcuni motivi, per alcune scene quasi filmiche, il nome dello stesso Truffaut (atmosfera connessa) in cui l’amore, anche quando inseguito o vissuto unilateralmente solo per sé (come in parte ricordato nella poesia introduttiva all’ultima sezione) sempre ci rivela a noi stessi in una dinamica di “affari” in cui uomo e donna si muovono come su scacchi, ora a tagliar via pedine ora a piegare la testa, secondo quel connubio di caccia e prigione sperimentato almeno una volta da ognuno. Ed allora nel proprio dire qui Ruffilli- come l’amore che quotidianamente compie nel darci, nel regalarci vita- ha sottratto, forse aggiunto, ritoccato.. seppure, soprattutto- e ovviamente verrebbe da dire- nella parte finale un tono di malinconia va ad imprimersi nel testo dove nella quarta e ultima sezione (“Al mercato dell’amor perduto”) proprio nel soddisfacimento, in una voracità quasi alimentare, il desiderio scopre in sé la possibilità del fallimento. Perché, così è nella sensualità dell’amore, che racchiude in sé il desiderio di possedere, come cibo da inghiottire, il proprio amante per farlo davvero e definitivamente proprio (come se- per antica unione forse?- la conoscenza potesse avvenire solo per questo tramite). Non a caso la poesia che apre il libro è Fame, quella che la chiude “Mangiando”seguendo poinella seconda, “Frenesia”, il naturale paradosso: la mancanza di fame in assenza dell’altro.
Dolenza dicevamo allora che nel compiacimento non può non lasciare spazio ad una serietà di tono, nella giocosità della raccolta quasi solenne, nella consapevolezza di un infinito “lasciato in sorte/ al corpo dell’amore” per sottrarlo “al vuoto/ tenuto tra le cosce” (“Soffio”). “Tensione”, (giustappunto il nome di uno degli ultimi brani) che spiega/racconta le inquietudini e i tormenti di duellanti che mai davvero si raggiungono, in un reciproco dolore e fuoco destinato a mai spegnersi (se non per pochi attimi) ed in cui è impresso il sigillo di un lavoro puntuale, ed insieme direi sì beffardo ed onesto proprio per la nudità delle recriminazioni e, per chiuderla col poeta, dei suoi infingimenti.
| |
 |
Recensione |
|