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Dodes tucc mas’c. Dodici tutti maschiRipensare il tempo, riflettere il tempo e riportarlo nel cardine di una circolarità non svincolata ma pienamente agganciata al ciclo di una natura cui l'uomo è rimesso nel limite ma anche nell'aspirazione del suo abitare, è forse questo sul senso stesso del nostro essere la terra, il tema su cui adesso più che mai è bene incentrare la nostra meditazione, le questioni ambientali, la pandemia avendo portato in superficie quaelle dinamiche sociali culturali ed economiche di negazione e di cancellazione di cui questo tempo è andato nutrendosi.
I riferimenti come evidenziato da Ivan Fedeli nella prefazione sono quelli dei cantari medievali, più precisamente a quel Trattato dei mesi del padre del volgare lombardo Bonvesin de la Riva, dall'oralità di una lingua in continuo rimescolamento e apprendimento alla trasposta calendarizzazione del tempo, delle stagioni nella cadenza del lavoro e della semina, nella fatica e nel raccolto. Questo lo spunto certo, e la detta fondante direzione, pure è nella sicurezza della lingua che sa risolversi per felice semplicità nella trasparente corposità dei suoi oggetti l'esatta resa di quel sottoposto passare che scivolando resta e rifonda imprime e incrina. Il dialetto infatti insieme agli elementi, zolle, animali, uomini, erbe e piante da cui si leva, si fa esso strumento e servizio più della lingua, per carnale segretezza e per immediata origine, di quella terra, da quella terra dal cui humus nasce. E a ben dire non potrebbe essere diversamente nella elementarità, nella singolarità di un dialogo dapprima dei mesi con se stessi, con gli elementi nel loro spiovere, dilatare, accendere o costringere a seconda delle stagioni e poi dei mesi tra loro, l'uomo nell'apprendimento di una semina di cui figura tra le altre con le altre non ne è che rappresentazione, oggetto nell'esercizio del suo distendere. A proposito allora di semplicità, di ridirsi o per meglio sentirsi ridetti in un sistema di nominazione che vivaddio non è possibile dominare, ciò che ridesta meraviglia, in un tempo sia in alto che in basso di banalizzazione della parola, è questo racconto di alberi, di piane, di montagne ora innevate ora schiacciate dal sole, di ricordi di distese a perdersi nella memoria anche infantile del cuore, come a fuoriuscire da un immutato sussidiario di scuola, di minima – e per questo sapiente – poesia appresa per dimenticate stanghette, scandite vocali ogni volta nuove a seconda di quei piccoli alunni in cui è possibile – nella forza vera del libro – riconoscersi e insieme, insistiamo, finalmente riapprendersi nella dinamica avvolgente di una cosmologia, anche, nel cui mistero è tutta la sua persistente favola. Sono dunque tanti piccoli quadri questi ventisei testi in cui la Sommariva in una descrizione altamente pittorica viene a sorprenderci già dal primo testo, "Rebellion paroll rimedi" ("Ribellione, parole, rimedi"), in cui nell'incalzare a spirale del ritmo, a legare nomi, dinamiche, tempi sentimenti in un collante che tutto unisce, divelte, ricompone e canta cadenzando il tempo, sembra dischiudersi nella curva del lavoro umano uno scenario, una coralità nella resa dai tratti fiamminghi. Coralità nel cui segno poi tutto è caldeggiato, raccolto in un restituire dato per piccole e grandi intimità, da un inverno "ferm cagiaa" ("fermo e rappreso") in un invecchiare di orizzonti e cortecce ad annunci di primavera in piccoli echi, nell'assurdità di un "blueoù / che el fa immattì el ciel / e maa al coeur" (di un "azzurro / che fa impazzire il cielo / e fa male al cuore"). La fede che è della poesia è la stessa, perché in essa iscritta, di una terra, di una natura a sostenere di ogni fiorire il peso, a imprimersi nella memoria del rinnovo come nel realismo di quel glicine d'Aprile che fermo lo sguardo a terra sembra abbassarsi nel conforto delle radici, il cielo – come a sostenere – e a confermare/si nella granella dei fiori. Rotondità allora di un tempo nella sicurezza sferica delle sue accoglienze e dei suoi rimandi, di immagini, di ponti, case elementi ancora, sempre abbracciate protette in mappamondo "casalingo" ("mappamond casalingh") e necessario nella preservazione di un amore come conocchia atta a cucire "a fil doppi / reff de memòria e poesia" ("a filo doppio / rete di memoria e di poesia"). Ecco di qui dunque nella restituzione entro quella dimensione evocativa di un'accadere in cui è racchiuso anche tutto il nostro suggestivo esserci, la processione/progressione in luce nei colori di ore, istanti a punteggiare poi del sole il suo trionfo, i suoi silenzi tra le addormentate ombre estive, vita e morte sempre a braccetto, sempre nel fuoco nell'arsura della terra e delle cose. Terra infatti a perdersi poi, a spogliarsi non prima dell'offerta dei suoi succhi, delle sue vendemmie nella freccia di un Ottobre veloce a sfaldare giorni e calendari verso il termine di un dicembre che come in un girotondo va a riunire i mesi ("tucc mas’c", "tutti maschi" come da titolo) e nei mesi gli uomini nella consegna di "paur sògn gioi e dolor" ("paure sogni gioie e dolori"). Andando a concludere, infine siamo grati alla Sommariva per averci ricordati in questo prezioso libricino come espressioni, e non soggetti, di un sistema in cui nel compimento siamo chiamati a volgere, e ad addentrarci superando le nebbie e i tranelli delle nostre immiserite riflessioni, lo sguardo cercando di frugare di là dalle ombre smarrite, ogni passo a uscire una necessaria conquista giacché "dedree tuscòss l’è già nagòtt / o domà on limb indovè i sògn / resten semper bagai" ("Dietro tutto è già niente / o solo un limbo dove i sogn / restano sempre bambini"). |
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