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Il male di vivere, Eugenio Montale e noi

Il male di vivere in luogo di una condizione umana precaria, e nella frattura di
una realtà e di un assoluto conoscibile se non per brevi lampi, è al centro di
una poesia dagli esiti più alti dell'intero novecento. Lontano dagli squilli
delle avanguardie, fedele a una tradizione entro la quale può muoversi solo per
negazioni, la risposta è in un'aderenza di attiva
disperazione nell'era dell'orrore dell'uomo per se stesso che trova nella parola
il correlativo oggettivo di un universale ferita e la testimonianza di vita del
simbolo nello scabro paesaggio del moderno.
Nello scacco della coscienza, nella
forma, il dire poetico si lega dapprima nel dialogo interiore con le cose alla
varietà lirica del timbro fino all'essenzialità pensosa delle significazioni e a
un abbassamento realistico della lingua; a un'inquietudine espressiva diremmo
inseguita poi entro la chiarezza di un dettato non più metafisico ma concreto
di un contemporaneo di alienazione e perdita. Nell'impossibilità di cogliere
certezze il verso finisce col procedere così nella resa emotiva colta
dall'oggetto, nell'evocazione sovente data per contrasto nell'estraneità della
solitudine e del senso. A fronte di un'esistenza insanabile nella sua
condizione, ancora, è il dovere della ragione a imporsi insieme a quello
dell'affetto nell'intreccio di privazione da una verità che sfugge.
Il
mare nella sua dimensione ipnotica, le occasioni della memoria, la presenza via
via salvifica e numinosa della donna, la cara Clizia, restando gli anelli,
seppur parziali, seppur evanescenti, di una meditazione che pure si è posta un
varco di dignità e salvezza nel nulla dell'impossibilità umana. Nell'ultima fase
della produzione infine, all'acuirsi delle complessità nell'era delle tecnologie
e dei consumi corrisponde quella di uno scetticismo e di un sarcasmo che vanno a
dominare il racconto.
L'uomo appare sempre più prigioniero delle proprie
costruzioni, di un dolore ineliminabile che non riesce a comprendere e a cui
Montale, a conferma del percorso, non può opporre formule consolatorie.
Piuttosto un' etica dell'esserci nel confronto senza infingimenti col proprio
tempo: "È ridicolo credere / che gli uomini di domani / possano essere
uomini, / ridicolo pensare / che la scimmia sperasse / di camminare un giorno / su due
zampe // è ridicolo/ipotecare il tempo / e lo è altrettanto/immaginare un
tempo / suddiviso in più tempi // e più che mai/supporre che qualcosa / esista/fuori
dall’esistibile, / il solo che si guarda / dall’esistere".
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