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Immigratorio
La parola immigratorio è una di quelle parole che di per se stesse si impongono
per il carico di densità e, dunque, di aspirazione umana che la attraversano.
Eppure qualcosa nella sua risonanza si perde come per separazione da un muro di
cui si sente nel riflesso tutto il disagio. Forse ciò è dato dalle naturali
assonanze che la parola stessa richiama e che il nostro immaginario nelle sue
tensioni, nella concretezza di una realtà sociale oggi sempre più al limite,
tende a rigettare e a escludere. Assonanze, dicevamo, che portano con sé il
buio e la solitudine del dormitorio, nel suo profilo d’emergenza prima e
d’abbandono poi, o di parlatorio, di stazione di permessi e di transiti
strappati o negati. Più ampiamente però contiene anche in sé questa parola, in
fuoriuscita, l’incontro e lo scontro di mondi che in qualche modo
reciprocamente si sono attesi e vegliati all’interno di una medesima crisi, ed
i cui drammi, nella negazione, evidentemente richiedono adesso una risposta
diversa nell’inceppamento di un mondo che non sa più ripensarsi. Queste e altre
considerazioni solleva e rileva Abate in questo testo che doverosamente (e
volentieri) ci sentiamo di consigliare e che ci invita a riflettere insieme
partendo dalla sua conclusione focalizzata sul contesto attuale della realtà
immigratoria del nostro paese.
Giacché il racconto di Abate (figura schietta e poliedrica di professore di
liceo e intellettuale di campo, tra saggistica, poesia e disegno) di parte
dalle personali e progressive immigrazioni di campano trapiantato dapprima
dalla campagna natale al capoluogo Salerno e da qui poi dagli anni del lavoro e
dell’Università a Milano. Formazione e biografia la cui catena di risultanze
nei suoi diversi passaggi, ben descrivendo riluttanze e marginalità di un
Italia da molti e per molti versi subita nel suo momento di maggior crescita,
fornisce nella testimonianza una traccia non secondaria per la comprensione,
nel superamento, di alcune dinamiche legate ai nuovi flussi. Il segno, dunque,
è quello di una scrittura che si serve del dato personale per fare del testo,
come ben osserva Pietro Cataldi in una prefazione che per puntualità e ricchezza
andrebbe riportata tutta, la “ricostruzione di una condizione stabile della
civiltà moderna e del modo in cui il soggetto ha trasformato in destino la
scelta dell’emigrazione” e che Abate concretamente realizza a partire da tutte
le caratteristiche e “le contraddizioni delle diverse identità che il soggetto
si trova costretto ad assumere”. Contraddizioni poi che sono quelle di
uno status neppure
mai probabilmente a metà tra realtà lasciata o terra che in qualche modo si
vorrebbe acquisire ma quelle allora di una condizione terza alle altre
sovente sospetta per un
identità non evidentemente riconoscibile (quando non oscura ed invisa persino a
se stessa).
L’operazione allora è quella di sollevarla nella sua dimensione
natale- e per questo esemplare- di pluralità di spazi nei cui attraversamenti,
ed anche sì nei suoi deragliamenti, è possibile cogliere, e iscrivervi
finalmente un’ orizzonte di percorso attivo e fattivo proprio all’interno, e
dall’interno, delle sue sovrapposizioni personali e comuni. Orizzonte che come
Abate sa bene ha le sue radici in un mondo, più che in una terra, le cui
lacerazioni e le cui ossessioni non smettono di dilatarsi nei fantasmi delle
perdite e dei propri reciproci crediti qui raffigurate tra una campagna ed un
infanzia ancora magicamente ancestrale (sullo sfondo di una guerra che appare
riservata solo agli adulti) ed una Salerno forse per sempre matrigna tra
coralità e dolcezze di figure care ed una città murata tra domini clericali e
gretti affari locali. Si vedano nella prima parte “O seminarie”, “Oh,
parrocchietta del Sud” ma soprattutto “O Requiemm’e pe Franch Alfane” e “A
morte e papà”, in cui è rievocata tutta
la fatica di una vita e di un mondo che si spegne con lei mentre i figli
sembrano assenti, appena nominati, come se non appartenessero a
quell’azzeramento, come se il destino li chiamasse già lontano, salvandoli in
una fuga che nel primissimo omonimo testo (“Immigratorio” appunto) è
consapevolezza, in un resoconto veloce, violento e crudo, di una scelta netta
quasi a non sentire il dolore (ché anche quello è un niente e può essere un
peso) verso una vita di cui già si fiutano le insufficienze e i pericoli ma che
pure appare come l’unica fertile possibile.
Nel bagaglio verso la città del
Nord, “la più ignota tra tutte le città”, aspirazioni di vita e di
cultura affrancate dal presepe lasciato ma subito mortificate da un lavoro che
abbassa le ambizioni e dagli inseguimenti ai consigli più diversi nel timore che
il denaro possa finire (impaccio o muro che l’esergo anonimo riportato
all’inizio e dal sapore minacciosamente dantesco ricorda: “e tu, mo ca si
arrivate ccà (Milano), che vulisse?”). Eppure non è solo qua (siamo nella
sezione “Alto immigratorio a Milano”), nei dettagli di convivenze di pensione e
una grande folla ovunque, di urgenze giovanili e flirt impiegatizi, la misura
dell’ approdo e della costruzione di sé (resocontata nella dialettica del
contrasto con l’amico Bis rimasto a Salerno). Il cuore del testo è infatti nella
sezione “Basso immigratorio a Colognom”, nella sottoimmigrazione col matrimonio
da una Milano di “cetomedisti” al trasferimento presso la città
satellite di Cologno monzese (pezzo della Milano-Corea anni 60-70), “in quel
guanto rovesciato del sud” tra un lavoro operaio e notturno alla Sip e i corsi
presso una Statale sempre più politicizzata. Luogo, questo, per certi versi
paradigmatico delle più svariate insufficienze, del privato come della cronaca
pubblica, di una cultura che sconta forse i limiti delle proprie astrazioni e di
una politica quando non collusa incentrata sul proprio piccolo e personale
potere.
Ne è fedele testimonianza non a caso, tra i tanti
testi che dovremmo citare, “Colognosità”, amaro e rabbioso ricordo del tentativo
fallito di far nascere una nuova scuola per figli di immigrati in un pezzo di
“terzomondo terrone” da cui nella visione è facile purtroppo lo scioglimento
della lettura e dello sgomento che si palesa quasi ovunque (come in
“Prefabbricati” nelle cui modalità gli amministratori si adoperano contro gli
sfratti ed in cui il pensiero non può non tornare con evidenza proprio ai
presepi dell’infanzia per la mortificazione delle figure nella sproporzione
degli spazi, o anche come nelle figure che gridano ed espellono in
marginalissima dolenza da “Un pensionato”). Ma da tanto smarrimento, da tanto
scarico umano ci verrebbe da dire, la forza (“Metafisica d’immigratorio”) che,
come detto, al termine si dipana è la chiave di consapevolezza – e di
intelligenza – con cui si invita a guardare ai nuovi immigrati, ai nuovi
immigratori mai disgiunti nell’azione da una prospettiva plurale dello sguardo.
Sguardo da Abate raccontato abilmente nella felice e necessaria commistione di
poesia e prosa, di dialetto e lingua sulla cui valenza ora purtroppo non
possiamo dilungarci, ma incisivamente accolto dalle Edizioni Cfr di Gianmario
Lucini, altra figura che certo non conosce retrovie.
21 giugno 2013
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