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Per sillabe e lame
Fare della poesia un ponte tra finito e infinito: in questa tensione
ambiziosa si muove la scrittura di Francesca Simonetti, insegnante e autrice
siciliana di non breve cabotaggio. Al termine di questo libro al lettore, però,
resta semmai più l'impressione di un versificare segnato da antiche ferite alle
quali dare, nel lenimento ontologico di una parola che rinominando ricuce e
annulla distanze, spazio di lettura e incontri di mondi nuovi.
Non terreni però,
si badi bene, giacché per l'autrice il nostro è un luogo chiuso, se non di morte
comunque di reclusione e di annullamento. Così se in apparenza l'anima si muove
sempre rivolta al cielo ( a spazi siderei che per eccesso di astrazione sovente
poco a chi legge rischiano di comunicare) è il ventre nero della memoria e del
suolo a pronunciarsi cruentemente, a bussare senza inviti tra le maglie di un
quotidiano stonato, privo d'ordine, nel segno di una " storia infinita/ che si
eterna maligna". E, di più, nella lotta di contraddizioni che contraddistingue
il testo, nella ricerca di un'armonia che venendo dalla lingua possa liberare
varchi è piuttosto la nota, la sillaba rimossa ad imporsi con forza con
rigurgiti ed esiti poeticamente validi per autenticità di dettato dolorosamente
e urgentemente incalzanti (fallendo piuttosto proprio nello spirito che la
dovrebbe muovere e cioè - come sostiene Ruffilli nella prefazione - in quella
capacità di tradurre dunque per melodia "il dato filosofico-riflessivo in
immagine poetica").
Forse, anche oltre le sue stesse intenzioni, perché è una
poesia del freddo questa della Simonetti: freddo e distanza da una vita che non
ha che vani impacci- e separazioni e silenzi- da proporre e a cui rispondere pur
inghiottiti; ma freddo anche come bene prezioso "che tiene all'erta", contro le
illusioni del caldo e dei suoi falsi conforti. Condizione umana tutta che però,
nella sottolineatura, ha nella donna il portatore maggiore di carico aprendosi
qui, per immedesimazione e gratitudine,al significativo dialogo con la poetessa
svedese Katarina Frontenson che sa parlare"per chi ha perso il canto" e dare
dignità al "silenzio del reale" là dove si celano parole e angosce mute. Perché
sono infatti i ricordi dolorosi che la ragione e la parola tentano insieme di
chiarire e di tacere a consentire al verso di restare "con voce di canto nella
certezza del cerchio" sfidando e opponendosi allo strappo che ci attende
(nell'incisivo concetto di chiamare amore le fratture) e a quella morte che
"nella nenia di preghiere" consente solo una breve sosta e un'uscita dall'ombra
(come il volto del padre che si fa avanti tra refusi e detriti).
La morte,
già.., davvero inaccettabile per la Simonetti, così quasi come la vita perché
compressa come detta in un tempo per noi non eterno e addomesticabile solo
rendendolo vuoto nella direzione di uno "stacco/ fra la terra e ignoto". Ma se
"la musa moderna è la precarietà" (come da Montale nella poesia a lui dedicata)
e dunque nessuno squarcio può svelare nella "illusione/perversa/ d' una
possibile quiete" e nulla forse può aggiungere, solo la poesia per fede
autenticamente estrema può farsi pane di salvezza e "transumanza/per gli umani
trafitti dal gelo".
Con questa convinzione e una sincera pietà per il creato
tutto (che ha la sua più struggente immagine in "Magie della sera" dove "forse
solo le piante che resistono/allo sterminio del sole cocente/ e le foglie sparse
sulla terra brulla,/ sembrano piangere il distacco dal tronco/come recise vene")
finisce col rispondere pertanto a se stessa e alla propria domanda in
conclusione di testo sulla possibilità o meno che ha l'arte di salvare e che è
in questa costanza di interrogazione e presenza atta a dare in qualche modo
trasparenza ad ogni "storia incompleta" e a magnificare nella liberazione
dell'altro in sé (eternato nella gioia ancestrale accarezzata nella giovinezza-
"Mani prigioniere") quella finitudine che tanto la sgomenta.
18/11/2015
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Recensione |
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