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Un sogno guidato

Poesia altamente sapienzale per intimità di colloquio con se stessi e, insieme, per ricchezza di lingua nella sobrietà delle confessioni (e autorevolezza d'echi di autori con cui in maniera più o meno sotterranea l'autore pare dialogare- penso a Montale e Cardarelli come ricordato da Mario Specchio nella prefazione ma anche a Saba, alla sua serena disperazione, e non so se voluto, anche a Edmond Jabbes) quella di Eugenio Nastasi. C'è una dolenza infatti, una ferita in questi versi come provenisse da un rammarico, da un qualcosa di sfuggito che si tenta di riportare a galla, di rimettere in riga nell'ordine di una vita che nel dialogo con se stessa non si concede sconti.

Questo agli occhi, allora, appare la lotta: non tanto come suggerisce Scalise nella postfazione di fissare demarcazioni tra sogni e realtà (questo a un poeta, a un artista non è possibile) quanto a un venirne a patti nella ricucitura piuttosto dei confini che viene dall'origine, quell'origine qui tanto cantata a partire dai ricordi più lontani, quelli dell'infanzia appunto e che ritornano, nel pungolo e nella carezza, nei giochi d'antiche risonanze tra gli interni e gli esterni della propria Calabria che non lo fanno mai davvero solo né tantomeno libero,comunque, nel mistero delle personali suggestioni.

Così la condizione di sdoppiamento di cui ci parla (nel tentativo "di rimanere fedele a un crisma, al mistero di una fede che opera dei distinguo") è anche racconto di un'anima nella tormentata coscienza (tipica del moderno) di una fedeltà a se stessi che sovente passa dall'intreccio tra le proprie, particolarissime, aspirazioni e visioni del mondo e lo stallo di non corrispondenza per caducità e vacuità del reale, forse, e che in lui tra impronte etiche e sociali, familiari, di riferimento si risolvono in adesione consapevolmente compiuta (o compiutamente consapevole se vogliamo..) ad un Umanesimo cristiano forte di una direzione in cui l'uomo più non si appartiene ma appartiene (questo almeno ci mostra nell'inquietudine della fatica). In questa perdita però, oltre la spina, la bellezza trasfigurante a cui le pagine via via dolorosamente e gioiosamente, teneramente insieme si aprono nei richiami evangelici a salvarci dalle oscure intemperanze dei demoni del disperso e del ricordo (del non risolto).

Sì.. non può provenire da noi vera pace se non dall'alto, da "più in alto  /  dove una preghiera  /   mette a posto le cose", a vincere nell'uomo quel rischio di farsi a sera - da sè - spento lumino (così come una bella immagine evoca). Ed allora, nella "custodia di un mondo indenne  /  non del tutto affondato", nel credo di un' opera di sogni orizzontali, incarnata al rimescolio degli uomini, la parte finalmente ritrovata in un "vero che non viene dal sogno", ma nella finitudine perfetta che passa dall'attesa e dalla pazienza rimosse dalla pietra pasquale.

Tensione questa che di conseguenza anche nella scrittura il più delle volte si accompagna alla preghiera, tenta di sciogliersi in preghiera (disciplinando la grazia i piccoli bagliori che pensiamo incendi), come nella pianta in un trapianto di noi a farsi terra nella mitezza dell'amore e del reciproco perdono ("saziare la morte  /  con queste amate carni,  /  attendere che l'ultima domanda  /  faccia cadere la spada dalla mano"). Questo l'esito del sogno guidato, mi pare, nella consegna del libro in fondo al fiume. Offerta non da poco in tempi oscuri e amari come il nostro.

Recensione
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