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L’essenza della
poesia di Danilo Mandolini appare costituita di ambienti metaforici,
sapientemente individuati e sobriamente ritratti, capaci di rivelare la natura
stessa della realtà. Di tale rivelazione può beneficiare, però, solo chi non
passa con uno sguardo distratto, ma si sofferma a contemplare anche l’oggetto
più banale, come le chiazze di luce che filtrano da una tapparella semichiusa.
Ogni paesaggio esteriore, per lo più deserto e inappetibile, diviene presto un
paesaggio dell’anima. Spesso si tratta di paesaggi oscuri, o al massimo
illuminati dalla luce grigia del mattino o del crepuscolo, abitata da gruppi di
esseri umani immobili e muti che sembrano aspettare rassegnati un destino
indifferente e avverso.
La sezione più
riuscita è senz’altro quella centrale ossia La linea del fronte, con i
suoi Versi dalle retrovie. L’epigrafe con i versi iniziali de “I fiumi”
di Giuseppe Ungaretti non è certo casuale. Ungaretti è forse, come sappiamo, il
più grande poeta delle trincee. E in questi versi dalle retrovie l’immagine
della trincea pare proiettata in tutti gli ambiti della vita, fino a diventarne
la cifra universale. Si vede questa trincea di Mandolini disseminata dei
cadaveri dei caduti di una guerra indeterminata, ma onnipresente. Crediamo
infatti che l’autore abbia saputo cogliere e delineare poeticamente un senso di
disagio assai diffuso nel mondo occidentale contemporaneo, apparentemente
prospero e in pace: per Mandolini si tratta infatti di una “pace ostentata …che
cela bestemmia e pena”.
Si può o non si
può essere d’accordo con l’assenza di prospettive rassicuranti che non si
scorgono nelle liriche de La distanza da compiere. Il titolo stesso della
raccolta sembra richiamare ad uno sforzo indeterminato e penoso. Ciò che non
lascia adito a dubbi è comunque l’efficacia del linguaggio usato, sempre esatto
e scrupoloso, da vero e proprio classico, come pure la grande onestà
intellettuale di questo autore che ha saputo comunicare la propria lucida fatica
di vivere.
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Recensione |
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