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In questo libro
di poesie di Mirko Servetti si affaccia la Liguria dei Montale e degli Sbarbaro,
il gusto della parola desueta, del francesismo, del “rammendare”, come fossero i
ligustri sulla costa, il vocabolario, alla ricerca della propria voce più
autentica. E’ anche il paese poetico della ripresa polemica e sofferta dei metri
antichi, della canzone a versi liberi e del sonetto. Ed i sonetti predominano
effettivamente, aprendosi senza difficoltà alle usate forme dell’assonanza e
della tentazione marinista, “l’insistente crepitio del rider barocco”, secondo
Servetti, ma d’altra parte inglobando le necessità moderne, il mondo come ci
viene trasmesso dall’onda mediatica. Eppure, la poesia con le sue esigenze
riesce a rendere trasparente il gioco, a trasferire una sottigliezza di
intenzioni a quel che è puro e quasi automatico resoconto stenografico della
realtà, in due parole offrendogli un’obliqua ed intrigante trascendenza: “Hai
attraversato il linguaggio di casa | tua rendendolo immateriale”. E’ poi la stessa
trascendenza che ci consente di rifuggire le nostre intime paure: “sul bianco | di
una pagina ingenua e uguale al bianco | terrore che ancora imperla la notte”.
Tuttavia, la metrica non inganni, siamo sempre nell’ambito montaliano del “Non
chiederci la parola”, la poesia è chiamata ad esprimere, per quanto possibile,
il subliminale, l’inconscio, con tutta la passione e la rabbia possibile in una
realtà prosciugata “come una volta di cielo sbrecciato”. Di montaliano, e
vagamente caproniano, c’è anche la discorsività, il chiamare il lettore a
testimone-complice, la frequente seconda persona singolare a nascondere
l’imbarazzo di una rivelazione o di una confessione: “[…]Sere | fa udimmo,
pisciando ai lucertolai | per scherzo, il risbuffar di ciminiere. Già lo abbiamo
scordato, come sai”.
In più, c’è il moderno interesse e recupero in funzione sperimentale delle
espressioni dialettali e della contaminazione linguistica, volta verso l’antico
dell’origine della letteratura occidentale, per esempio verso modi provenzali,
che si fondono agevolmente nella flora e fauna mediterranea della raccolta, ove
compaiono gli aranceti, l’erbaluisa, i rosolacci, i muschi (ma la discrezione e
l’intimo pudore di Servetti potrebbero ugualmente richiamare gli sbarbariani
licheni) e le diatomee: “Je me défile de claque | brin de terre, comme
une | dominoterie défraichie | rivestendo l’astrofiche stanze | di sintetici
universi”.
In buona sostanza, Servetti si muove in un equilibrio instabile, ma forse
proprio per questo con buoni squarci autenticamente poetici, tra avanguardia,
ermetismo ed attualità, e sembra interessato ed affascinato dai “luoghi di
confine” linguistici, come se stesse camminando sull'impervia costa ligure.
Quelle transizioni così essenziali allo sviluppo della lingua, dove la poesia
dei trovatori si trasfonde nel “dolce stil novo” o dove una lingua europea muore
e rivive in un’altra, o dove il gioco di parole si muta da semplice scherzo in
esercizio espressivo, mentre i sentimenti vagano di qua e di là, in un continuo
enjambement ed inciampo lessicale, cercando la forma più appropriata di cui
rivestirsi: “Problema, è scappar via da questo lezzo | di autopiagnona
romanticheria i | versi affogando nel buon nostralino”.
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Recensione |
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