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Questa nuova raccolta di Paolo Ruffilli prosegue nella singolarissima linea di ricerca inaugurata da La gioia e il lutto (Marsilio, 2001) e caratterizzata da una sorta di monologo drammatico che esplora dall'interno di una voce la condizione esistenziale della malattia e dolore, se è vero, come crediamo, che «a Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male» (A. Giuliani, Prefazione). In questo modo l'intero volume concorre in modo empatico, e a suo modo anche poetico-narrativo, alla definizione di tale dolente condizione che l'io lirico attraversa come in un ecce homo laico e vibrante d'indignazione e pietà. Ne Le stanze del cielo, la tematica affrontata è quella della reclusione carceraria vista nel suo rapporto con la perdita della libertà e con il giudizio sociale ad essa connesso.

Articolata in due sezioni, la silloge è a suo modo un dittico. Nella prima parte, quella che dà il titolo all'opera, preceduta non a caso da una pagina di Cechov dove vengono sollevati dubbi sull'«imparzialità» del giudice, è, fin dal testo liminare, un «noi» a parlare del «[...] nostro, | differente stato | inerte e doloroso.» (p. 19), dove la pluralità del soggetto – che fa pensare agli accenti dolentemente civili di richiesta di rivalsa per gli umili di un F. Villon e di un V. Hugo – testimonia di una condizione collettiva che nulla pare alleviare e che tende a far scontare gli errori della società «[...] a noi | rifiuti dell'umanità» (p. 22). Il testo opera continui ritorni al passato del protagonista, alla sua adolescenza dove affondano le ragioni della sua situazione presente, del suo dantesco «inferno» (pp. 31, 33) fatto di droga, di privazione del privato, di annullamento del tempo, di morte in vita, con toni vibranti e gnomici da invettiva (Come gli ospedali, p. 38, Il verdetto, p. 43), cui s'alterna il sillogismo di natura morale (Un numero, p. 58, vv. 14-19) che contraddistingue il male di cui è vittima «l'io delinquente» (p. 66). Nella seconda parte del libro, La sete, il desiderio, di più breve respiro (a mimare il venir meno del fiato che prelude alla morte), la coscienza colpevole, nell'alternanza pronominale novecentesca di "io" e "tu", prosegue una riflessione poetica su un «male ingordo» dai tratti anche leopardiani (Notte, p. 75) e sul baratro su cui rimane agonicamente in bilico la «solitudine/infinita...» (p. 83) dell'essere che, con la felice grazia musicale del verso incalzante e breve che lo contraddistingue, Ruffilli pare dirci ognuno di noi potrebbe, per i casi imprevedibili della vita, in ogni momento diventare.

Recensione
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