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Presentazione a
Il canto del gallo
di Enzo Schiavi
Giovanni Sisto

Nella letteratura di memoria,
che affiora a distanza su fatti e vicende della Resistenza, ricorrono vari
filoni, uno dei quali – il meno ricco e meno sfruttato – è costituito dalla
introspezione psicologica dei personaggi che in prima persona furono artefici di
fatti noti e meno noti, ma che di tali fatti hanno conservato non solo la
memoria oggettiva ma la registrazione emotiva che si è venuta ingigantendo nel
tempo.
Questo filone interessantissimo,
giocato sulle varie sfumature della psicologia di più protagonisti, è stato in
un primo tempo con tutte le riserve del caso evidenziato da un romanzo assai
fortunato di Carlo Cassola, La ragazza di Bube (1960), e più recentemente
è stato variamente accentuato ne Il canto del gallo di Enzo Schiavi. Un
racconto lungo o romanzo breve che sta tra la cronaca, la confessione e
l’invenzione, un po’ come La paga del sabato (1969) di Beppe Fenoglio o
Il ritorno (1971) di Manlio Cancogni, che nella narrazione insinua spesso
un tono surrealistico, di cui troviamo rilevanti consonanze anche nel racconto
di Schiavi.
Testimone attento e interessato
delle crisi spirituali di personaggi, che hanno aperto alla sua fantasia il loro
animo; spettatore commosso e pure obiettivo delle accumulazioni di contrasti
sfociati in esiti drammatici per chi non è riuscito a superarne le antinomie,
l’Autore espone chiaramente – facendo frequente uso della tecnica del flash-back
– l’ieri e l’oggi e le determinazioni spietate della legge di guerra in
conflitto con il sentimento rimordente e penitenziale che è scaturito
nell’intimo delle coscienze dopo la conclusione, anch’essa spietata, che la
necessità di guerra ha imposto.
Qui la storia (le vicende
resistenziali) e la geografia (l’azione si annoda intorno ai luoghi di
Roccagrimalda, Lerma, Gavi, Cremolino, Ovada, laghi della Lavagnina) hanno la
funzione minore di cornice, di scenario, mentre vengono privilegiati i mondi
interiori individuali, intessuti di incomunicabilità e di solitudine, di cinque
ex partigiani reduci da un’esperienza che li ha segnati per tutta la vita.
Inventati, ma del tutto
verosimili, sono i protagonisti, prelevati come sono dalla drammatica realtà
sociale e psicologica dell’immediato dopoguerra, con l’innesto di un
memorialismo intimistico.
Opera agile senza
sbavature retoriche, narrativamente ben condotta, stile limpidamente
trasparente: merita la responsabile attenzione di chi – partecipe o epigono di
quelle vicende – intende sia consegnato alla memoria delle giovani generazioni
il documento di un dramma vissuto e sofferto dall’Italia di ieri. | |
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