| |
La piega storta delle idee
“Ho sistemato tutto, / ma non ancora il tuo sguardo mutevole”
dice Giovanni alla madre; ¿solamente alla madre? mi sono chiesto
leggendo l’ultimo libro di Di Lena. A me sembra che l’autore si rivolga
ad un pubblico più vasto che, partendo dalla madre, coinvolge tutti i suoi
affetti: il padre, gli amori, gli amici e chiunque si accinga a leggere
le pagine di questa settima raccolta di poesie, divisa in due sezioni, che ci
danno un quadro preciso del poeta e dell’uomo immerso nella quotidianità della
vita con le sue contraddizioni, gli umori, i rapporti, gli avvenimenti del mondo
circostante in continuo conflitto col potere e con gli inganni che ne permettono
la sussistenza. Il romanticismo della poesia non può limitarsi a mera
contemplazione dei sentimenti avulsi dalla quotidianità determinata dalle scelte
dei potenti o se si preferisce dall’alta finanza, dal capitalismo in genere, o
dal liberismo (oggi: ordoliberismo). Per Di Lena l’oggetto della
poesia deve essere tutto ciò che impernia la vita in ogni sua manifestazione, e
il poeta lo dice, attribuendo ai versi la capacità di contribuire a cambiare
il mondo circostante. Non a caso Marx scriveva: I filosofi hanno
solo interpretato il mondo in maniere diverse: a noi tocca modificarlo!, in
linea quindi con il concetto che l’arte, nelle sue diverse espressioni, può
incidere nei vari ambiti dello svolgimento della vita e/o dell’esistenza in una
interconnessione continua tra la vita e le idee; e questo fa di Giovanni Di
Lena un poeta civile impegnato nella lotta per la sopravvivenza al fine di
migliorare i rapporti sociali tra le persone in conflitto con quelli che lui
definisce: i poteri forti.
“Senza un porto sicuro, / cammino tra mille incertezze / in un Paese
stantio. / Il Potere non mi vede / perché sono nessuno”. È dolente e
amareggiato il poeta per le disillusioni e lo smarrimento in cui versa il suo
stato d’animo, ma nonostante la lotta impari tra l’uomo e il potere che
schiaccia ogni individualità, gli nasce dentro un moto di sfida: “Io, che
sono nessuno, / voglio tenere viva / la mia dignità.” Le riflessioni
intime e le considerazioni sull’accasciamento dei suoi simili, sulle persone che
lo circondano, la malsana rassegnazione dei più e lo scoramento, la mancanza di
voglia di lottare, di cambiare le cose, l’addormentamento delle coscienze che
ingenerano l’abbattimento delle energie e l’assuefarsi all’andamento triste
dell’esistenza, inducono il poeta a non conformarsi alla mentalità corrente e in
un afflato che mette in movimento il suo animo, il suo cuore e l’intelligenza,
scrive: “Si corre all’arrembaggio / senza alcuna ragione. / La mia scelta?
/ Non cadere nell’oceano / degli ammiccamenti subdoli: / avere delle idee senza
briglia / è la vera libertà.” Non poteva, il Nostro,
esprimere la sua voglia di riscatto in modo migliore, con versi che toccano le
corde dell’anima mettendo in movimento i sensi che invitano ad essere integri
per affermare la propria dignità che è il senso ultimo dell’esistenza. Ed è con
enfasi che denuncia l’assenza di chiunque non intenda partecipare alla storia,
il tradimento di chi decide di non lottare e si rifugia nell’intimismo se non,
peggio, di accomodarsi “Nella Chiesa dell’Indifferenza, // Senza alcun
rimorso, / persino nell’ora più cupa, / ti eclissasti / annientando il
passato.” Non c’è verso, Di Lena conserva la sua lucidità senza
mai cedere alle illusioni, alla vanità, all’effimero, con la coscienza di vivere
nel conflitto trasferendolo poi, dopo averlo decantato, sulla pagina bianca dove
lui poggia il suo cuore, i sentimenti, la sua razionalità: “Non ci divise
l’orizzonte: / fu la nostra vicinanza / a separarci.” Non c’è finzione
in Giovanni ma soltanto il fardello dei suoi ideali, dei suoi
convincimenti che informano la sua vita nell’intimo e nel quotidiano.
“Si sta soli – come candele – / a soffrire in mesto silenzio”.
È la presa d’atto della sconfitta, la sofferenza di aver ceduto alla
non-più-voglia di lottare, l’aver abdicato alla resistenza fino a spegnersi
in solitudine come le candele. È comprensibile la tristezza del
poeta costretto a cedere alla balordaggine del fallimento.
È l’andare verso la disgregazione che inquieta l’autore in una girandola di
constatazioni che lo inducono a scrivere. “ È straniamento, /
appiattimento: / è morte civile. / È l’inutile rivoluzione / di un
popolo / di morti / che non furono mai vivi.” Più che un lamento, quello
del poeta, è un grido amaro che investe il dolore, come una condanna, per la
deriva in cui sprofonda la politica intrisa di malaffare e di promesse, di
sconfitte per la gente lucana e di tutto il sud del mondo: “Da noi / le
idee giacciono morte o morenti / sulle scrivanie del Potere / e gli
investimenti, / come i malumori mattutini, / si diradano in fretta.” // “Sdegnata,
/ la luna spunta, / ma guarda oltre / le vicende / che trasformano la terra.
” È il lucido resoconto che Giovanni Di Lena abbozza
nelle sue poesie come la narrazione di un rosario da sgranare, non in modo
ripetitivo e distratto ma, con la consapevolezza della denuncia quale
possibilità di riscatto dalla rassegnazione e dalla desolazione in cui versa la
terra: la sua terra!
Non è facile per il poeta sottrarsi al malumore, all’indignazione, alla
stanchezza, alle amarezze; anche per lui lo sconforto è in agguato, diventa
talmente forte la sconsolazione da indurlo all’abbattimento e quindi alla
rinuncia, in un annichilimento che toglie la voglia di combattere. Ed è
comprensibile come la sensibilità dell’autore possa determinare un attimo di
smarrimento che lo induce a scrivere: “Vivo in un mondo / di sogni
infranti, / di apparenze e approssimazione. / Vivo in un mondo / che – forse –
non capisco.” // “Che tristezza è essere adulti e non capire! /
Non capire questo mondo / sempre più globalizzato / e / sempre meno umanizzato.”
// “Tutto tace intorno a me. / Non avverto più niente: / né i sussulti
della gente / né l’implosione del mondo.” Nella comprensione più totale
del suo scoramento e condividendone l’angoscia non posso ignorare che Di Lena,
pur avendone le risorse per riprendersi e continuare a sperare, abbia il diritto
di esporre le sue disillusioni raccontandole a coloro i quali lo leggeranno in
un linguaggio poetico di autentica rarefazione: “Da troppo tempo /
calpesto / questa terra desolata e intristita. // Stanco di attendere / che una
nuova primavera / torni ad avanzare inutili pretese, / mi perdo / nel cielo
sconfinato d’aprile.” // “nell’aria ribelle di questi giorni
afosi, / nei passi cadenzati dei forestieri e / sulle panchine silenziose / dove
sosta muto / il malumore dei tuoi compaesani.”
¿Che
dire ancora di un libro come questo che si può definire un gioiello? Sono tanti
i versi che mi sarebbe piaciuto commentare perché sono tutti impregnati della
personalità dell’autore il quale scrive con onestà e senza arzigogoli, vero in
ogni parola dove trasfonde la sua anima e mai una finzione, soltanto
l’autenticità dei suoi sentimenti: “Si fa giorno: / il terrore della
quotidianità / incombe / e, / sereno, / graffia la mia vita.” // “Mai
si placa il dolore / quando la carne è aperta.” Non mi resta che
augurare a Giovanni di proseguire nel suo percorso poetico continuando a
regalarci opere come questa che senza dubbio affinano l’anima a chi le sa
leggere. Concludo con alcuni dei suoi versi che toccano l’anima del sottoscritto
e spero di chiunque si accinga a leggerli: “Credimi: / questo peso / tende
a piegarmi / e m’induce / a non alzar più la testa / per non guardarTi negli
occhi, / oh Signore.”
| |
 |
Recensione |
|