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Verses versus capital
mpressioni di lettura
Qualche anno fa, in un circolo Arci di Torino, si svolgevano serate in cui un
autore veniva esaminato, sezionato, eventualmente scorticato da un gruppetto di
giovani virgulti delle patrie lettere. Mi toccò in sorte di essere stroncato
poiché reo di aver inserito in un testo una parola rara, inconsueta. La poesia
deve essere facilmente comprensibile da tutti, sostenevano. Me ne feci una
ragione e continuai a concordare con Gramsci, Don Milani e Dario Fo per i quali
conoscere una parola nuova era un modo per difendersi meglio dal padrone. Per
questo devo ringraziare la lettura di Verses versus capital di Giancarlo
Micheli, per avermi dato modo di apprendere e/o di ri/conoscere
una serie di lemmi di non comune uso (mi sono divertito a contarli, grossomodo:
sono almeno una quarantina). E tutto questo in un contesto dove l’analfabetismo
di ritorno (solo quello?) è rivendicato quasi come una nuova “libertà”; ma il
mio grazie e la mia gratificazione vanno oltre l’uso di queste parole, sono
relative al linguaggio usato dall’Autore.
Un linguaggio magmatico, in continua e
piena ebollizione, inondazione, ma tutt’altro che caotico, incanalato
dall’Autore (presumo non senza fatica) verso l’approdo ustionante ma
coinvolgente della propria evoluzione/rivoluzione linguistica, insieme
all’apparenza respingente e, in uno, del tutto affabulante. L’Autore vi trova
evidente appagamento nell’assemblare aulicità, formazione culturale e
ricercatezze stilistiche con espressioni anche quotidiane, di uso comune o
paraproverbiale, seppure rivoltate di senso, in dis/senso. Un paio di esempi:
“Ad ogni suicidiota la sua supercazzuola” (Muratorio). “Dove
la tecnica divisione /
Del lavoro
da fare” (Il mare tra le terre). Percorso che lo porta, in un mondo dove la
libertà tutt’al più è fraintesa con il concetto di privacy, alla destinazione di
proporre rigorosi versi liberi/liberati/liberanti. Una scelta che, oltre a
quella tematica, parimenti impegnativa, di sicuro gli regalerà un ulteriore
motivo di “embargo” nei suoi confronti. Ciò gli consente, da un lato, di
condursi tra versi quasi usuali d’amore (“Appena ti ho
sentita / Qua
dove sono è uscito il sole / Ed anche questo è un caso / Di cui è bene tener conto”,
I passi ritrovati),
ma
contemporaneamente non gli impedisce, scrivendo, di giungere pari pari alle arti
visive: il verso/titolo
“Uomo di stile con randello” è indubitabilmente Magritte!
Poco sopra accennavo alla tematica di Verses versus capital, titolo
programmatico, e pertanto lascio alla lettura del libro il relativo pieno
nutrimento. Mi preme soltanto introdurre un aspetto apparentemente marginale tra
i temi trattati. Potrà sembrare inconsueto per un poeta, un letterato, un
filosofo, un umanista, ma in alcune parti del libro, non solo ne “La presa di
Wall Street”, l’Autore ci parla anche di economia. D’altronde chi, se non un
poeta, può parlare di un qualcosa di inafferrabile e di oscuro? En passant:
ovviamente sappiamo che Wall Street non è più la sede dell’Impero, cfr.
Senato dei Fondi e non solo. Forse nel libro di Micheli, però, in uno dei
tanti sotto/metatesto, c’è come una tensione ad andare oltre: come se, silente,
strisciante, una domanda si rotolasse tra i versi, inespressa e non so quanto
consapevole. Questa domanda: ha senso, ha ancora senso la critica al capitale?
Certamente sì, è la risposta. Ma è sufficiente? O criticare il capitale equivale
a riconoscerne comunque un suo aspetto valoriale, in un certo senso ad
accoglierne la cornice entro cui opera? Non è forse il caso, anche per uscire
dallo stallo culturale da ridotta manco più assediata in quanto totalmente
ininfluente, di principiare seriamente a ragionare sull’innaturalità
dell’economia stessa, come storicamente conosciuta, sulla sua struttura
culturale tanto estrema quanto costringente ma pur sempre totalmente effimera?
Ovvio che mi sovvenga il Serge Latouche de L’invenzione dell’economia. O
è solo il luccichio del verso “L’economia che poni nella fede” (Senza dottrina)
che mi abbaglia?
A un
Autore che scrive, tra le altre, “La Resistenza” è facile arguire l’effetto che
deve aver fatto il trovare bandito dal linguaggio comune la parola ‘resistenza’,
sostituita con ‘resilienza’. Parola questa che, se ristretta al mondo fisico, ha
un significato, ma se rapportata a un complesso organismo sociale forse non è
facilmente sovrapponibile, anzi ne è percepibile il suo rinculare di
significato, quasi una mezza resa preventiva. Per altro verso, nel libro
(L’incontro) si legge “Che l’Apocalisse sia in atto / Non è il male peggiore” e (Sortie
de l’usine) “Devi comunque mettere le mani in questa merda / Come il bambino
dentro al pozzo”. Ora, decontestualizzando le due citazioni dai singoli testi,
forse è vero che qualcuno, magari neanche pochi, percepiscano l’irrimediabilità
del disfacimento, ma a ben vedere, tutto sommato, dell’Apocalisse gliene frega
scarsamente e dentro a questa merda si sentono (ma soprattutto, ci sentiamo)
bene, al caldo, comodi. Allora, forse, l’interrogativo cela un’iperbole
affermativa nel verso “che può farmi l’Apocalisse?”. Ciononostante, in una sorta
di ottimismo della felicità ventura, l’Autore (Bere o annegare) intuisce
che “Cammineremo sulle acque / Bevendo il vino della fratellanza / E spezzando il
pane della giustizia”, che fa il paio con: “Umanità nuova / Partoriscici”, e
trova la forza (ancora!) per disegnare e disegnarci un futuro migliore o almeno
un futuro. Una nuova alba. Ecco, io non so chi sia Giancarlo Micheli, nel senso
che non so e non mi interessa se il suo approccio culturalmente di classe sia
più, stando ai testi presenti in questo libro, comunista, anarchico o sensibile
a echi di un cristianesimo radicale. Così come non mi interessa spolverarlo di
una spruzzata di ossimorico nichilismo ottimista. Questi sono compiti per
salariati dell’aria fritta. Penso in generale che far giocare il gioco dell’io
sono il più bello faccia il gioco, appunto, del capitale. Ma Giancarlo
Micheli, dopo aver scritto questo libro, è probabile che abbia maturato qualche
idea più precisa, o abbia precisato ulteriormente la propria idea, su chi lui è
rispetto a quando lo ha iniziato (“Santa dell’innocente la ragione / Santo il
diritto di uccidere il padre / E di sopprimere il padrone”, Rivoluzione). Non
necessariamente ciò lo renderà più gradito al variegato mondo dell’industria
culturale contemporaneo (lettori compresi), poiché troppo “congiunto al terzo
pianeta / del sistema solare / da vincoli d’amore”.
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Recensione |
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