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Verso l’infinita
esplorazione
Si può
essere contemporaneamente narratore, poeta, giornalista e saggista? Difficile,
ma non impossibile. Francesco Alberto Giunta lo è stato e lo è. Ho ancora fra la
mani fresco di stampa il suo ultimo lavoro Solitaire con un sottotitolo
succulento e insieme avvincente: Viaggio “clandestino” nell’infinito
letterario e umano del Novecento.
E non
nascondo di esserne quasi sopraffatto. Chi e che cosa viene fuori da queste
quattrocento pagine che si diramano, assiepandosi, per ogni dove? Un uomo
palindromo, pensiero e geografia, storia e anima. Un viaggio periegetico senza
inizio e senza fine dentro la filosofia dei luoghi, il tempo degli incontri, la
memoria delle idee. Un poliedro infine che emana da ogni sfaccettatura
rivelazioni e scoperte, un patchwork casuale e causale.
Questi
è di volta in volta un uomo rinascimentale che affonda il tacco negli interstizi
del ponte sull’Arno, un greco che sbroglia le gomene davanti a Siracusa, un
Baudelaire dilaniato fra la poesia dell’insania e l’insania della poesia, un
anacoreta tibetano sprofondato nei dubbi e nelle certezze sull’Essenziale, un
arciere che lancia oltre lo steccato della conoscenza la speranza irrisolta di
un altro orizzonte, il discente che s’abbevera alla Lovanio del Brabante
fiammingo. E potrei seguitare in questa investigazione a caccia di un “tesoro
d’identità” che riesca a contenere l’incontenibile voglia di vivere e di sapere
che anima questa pagine di Giunta. Anzi, questo essere stesso di Giunta. Dovendo
nel nostro caso le pagine identificarsi e macerarsi nel magma primigenio dei
sensi e della ragione. Vengono incontro sul cammino ontologico di questo fluire
scritto e del suo autore, consorzi e parametri che possono avere nomi diversi
come vademecum di formazione, vangelo laico e religioso, diario esistenziale,
baedeker del giorno dopo. Come si vede sono nomi funzionali, ermeneutici di un
indicibile. Eppure questo libro è scritto da un uomo moderno, dei nostri tempi
che possiamo incontrare per strada o al bar, che parla come noi e che si è
“fatto” alle nostre latitudini, nelle terre meridiane del Paese. Solo che egli
riesce a narrarci il mondo fra il sole e il salmastro, fra geroglifici etruschi
e aoristi attici. Solo che la ragnatela è come quella di Penelope, si tesse e si
stesse sotto i nostri occhi pur rimanendo fissa nelle pagine. Le quali
figurandosi come le capriole dei saltimbanchi reinventano ai nostri occhi
coreografie sempre nuove. Ora la Parigi degli anni Trenta, capitale del mondo
della tolleranza e della convivenza (che anticipa la Gerusalemme dei giorni
nostri dove la certezza del Dio si somministra nei quattro calici di cattolici,
protestanti, musulmani ed ebrei) o la Tangeri la bianca scartocciata dai ricordi
numidici e punici e dal “nulla vasto e giallo” del deserto, sembrano specchiarsi
e interrogarsi nel pensiero del filosofo Jean Guitton o del poeta senegalese
della Negritudine, Leopold Sédar Senghor.
O il
grande tribunale della storia
dell’Olocausto allorquando si consegna alla penna di Imre Kertész o Paul Celan o
alle strip di Art Spiegelman. Un lungo viaggio.
Affascinante come tutti i “gran tour” intrapresi da
viaggiatori e non da turisti. Un viaggio dentro e fuori se stesso. Ricordate
Il viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre? Le latitudini o i
prosceni non si contano e, soprattutto, non contano, siano interni o forestieri,
vicini o remoti. Con l’animo umile e il bastone rabdomantico del viandante
Diogene alla ricerca di se stesso sotto fattezze e tramonti e aurore e lingue e
saperi disuguali, perennemente scanditi su un pentagramma dell’uomo che si fa
storia e geografia, passato e futuro, conoscenza e arcano, dicibile e
ineffabile. Francesco Alberto Giunta ha le mille anime di progenie antica e
perenne.
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Recensione |
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