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Il libro di poesia Ad lucem, per undas di Lucia Gaddo Zanovello, inserito nella collana “L’arcobaleno” dell’editore Joker e prefato da Sandro Montalto, non offre occasioni di tregua o di respiro al lettore, grazie a una concentrazione lessico-immaginifica di rara portata.
Il tocco elegante non viene meno nemmeno nei punti di massima compresenza di assetti retorici solenni, in modo complesso (e variamente) intrecciati. Il puzzle, nel magnificente aspetto finale, non lascia intravedere le tracce intermedie, discontinue. Il libro subisce una singolare tripartizione, guidando il lettore: “per undas”, “ad lucem”, “usque ad?”. La bellezza non scade mai nell’orpello meramente esornativo. Centrale nel testo rimane l’argomento del viaggio esistenziale, e di conseguenza molti segmenti versicolari si intridono di suggestioni ultraterrene. Come ha scritto Sandro Montalto, «fede ed osservazione portano ugualmente al dolore, e a certi risvolti incontrollabili di livore, non coltivati ma nemmeno ipocritamente taciuti.». Infatti, così Lucia Gaddo Zanovello annota: «Il cielo bianco dietro la tenda conclude | che mai si lascerà sapere tutto da qui. || Allora perché genuflettere ancora preghiere all’impossibile.». E i versi divengono preziosa pellicola aderente all’incessante divenire delle cose, alle metamorfosi più o meno repentine della vita («Vanga l’asfalto la mia sete di quiete | condannata a giorni di faccenda, | scelta di restare | aspettando si faccia giorno eterno | mentre tutto intorno muta»), si disciolgono nell’acqua, nelle sue «volvenze», con qualche rara e quasi impercettibile distonia, mentre «S’impiumano i rami di rosa | e la veste del pruno da sposa | annuncia lo squillo di sangue | che screzia la pena di amare.». Leggendo Ad lucem, per undas, «Si ascolta una lingua che tace | e divina aurore candenti», immersi «nell’incanto di conoscere e capire | da favilla di favella nuova». E, invece, «Tanti parlano una lingua | sdrucciola e declive | che non dilava | il velo dell’inconsapevolezza | ma soffoca di venefica schiuma | e la mente bigia scivola | nell’insipienza acuta che balbetta. || Non sa l’aroma del calicanto | il miracolo della sua luce | nei deserti di smog e di rovina.». Nella società contemporanea, dunque, il grido di sofferenza cosmica è stato sostituito da vani balbettii, come attesta, in sintonia con questi versi di Lucia Gaddo Zanovello, anche la produzione aforistica di Domenico Cara. L’interiorità, fattasi vertigine, si proietta sempre più in alto, sempre più lontano, nella più profonda immensità: «Stelle affondano | nel buio blu di questa notte | vibrando intense nell’abisso | delle solitudini». Questi sono versi dell’attesa, «poiché tutto il ricamo della vita | è vigile funzione di compiutezza | ma non dà ora sguardo d’insieme.» e ancora «vaniscono risposte | e la chiave inutile | gira a vuoto.»; è poesia che si immette nel cerchio perfetto. |
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