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Il materiale poetico è stato distribuito in sette sezioni: “Familiari”, “Intimità”, “Colloqui”, “Eterno femminino”, “Umanità sofferta”, “Luoghi”, “Ancora”; ognuno di questi titoli non diviene mai astratta categoria, grazie a una capacità innata della poetessa che le consente di catturare concretamente precisi dettagli circoscritti («i petali del glicine sulla gonna», nella poesia I, nella prima sezione; «il passato nel frammento | d’una brocca» e «la guancia della luna» in “Coos”; si veda anche l’intera poesia “La gonna”), i quali rendono ogni verso rapido proiettile di luce, di oro puro, che crivella la pagina di bellezza. Una poesia che si prefigura come ricompensa, sia per l’autore che per il lettore. Considerando le scelte lessicali che più si ripetono e trovano conferma, pare prevalere l’aspetto visivo («Il rosso delle aragoste | tinge l’azzurro» ne “L’erba morella”), ma anche gli altri sensi risultano stimolati e indotti a produrre immagini efficaci. Tra le immagini più belle: «Rammento il cigno | accovacciato sul duro asfalto, | inerme il sangue tra le ali | incapace di levarsi in volo | il flessuoso collo ripiegato | dolorosamente | assente e perso | tra gente incuriosita.» (nella “Notte bianca”). Raffaella Bettiol dimostra di possedere, come ogni vero poeta, una particolare sensibilità nei confronti dell’inarrestabile trascorrere del tempo: La persistenza della memoria, volendo usare termini daliniani, in parte riesce a catturare l’attimo che fugge, in simultanea però sfuma il ricordo in altro («Non so quale stagione fosse», ammette la poetessa in “Un giorno ad Urbino (1933-1936)”, poesia dedicata ai suoi genitori). Vi è consapevolezza del fatto che «Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale.» (C. Pavese, Racconti, “Terra d’esilio”). L’amarezza assume volti diversi mentre la poetessa, sollevando il dubbio di essere forse nata per caso, cerca di recuperare le proprie origini: «viaggerai molto, padre | una manciata d’attimi | t’ho vissuto» (“Nella grande stanza (Padova 1946)”); «In soffitta cercavo sempre altri sogni | e giochi, tu eri lontana | come assente | in un altrove che non so. | Inutilmente ti chiamavo | fragile cristallo la mia infanzia. || Eppure ora ti rivedo | stringermi tra le braccia | in una quieta felicità» (in “Scuri i capelli”). Al termine del libro è la stessa Raffaella Bettiol a stendere due note a integrazione delle poesie, facendo riferimento ai luoghi (intesi non soltanto in senso fisico) che hanno nutrito questa silloge poetica: «un viaggio ideale in compagnia di un’amica scomparsa nei luoghi del mio immaginario: dalla Duino di Rilke, al Castello di Miramare, al Lido di Venezia»…«un viaggio in Messico vissuto tra mito e realtà». Una spazialità concreta dà nutrimento alla rievocazione temporale. Nelle note viene fatto un cenno a Frida Kahlo, il demone-angelo che ha ispirato anche Raffaella Bettiol: «Sfida sui murales | l’esile corpo di Frida |l’aculeo sanguinante della storia», nei “Cerchi rossi tra canti aztechi”, poesia in cui possiamo notare alcune finezze proprie della poetessa come: «il colibrì scheggia l’aria». Frida rappresenta come “Medea” la «nostra debolezza», accanto ad altre figure femminili emblematiche con i loro pregi e difetti: “L’adultera”, “Antigone”, “Cassandra” («sai che accadrà | inutilmente parli | a chi non ti ascolta.», ponendo Cassandra in posizione analoga a quella che occupa il poeta nella società contemporanea), “Marilyn” («Sorridono le tue labbra | rapite da Mirò | prigioniere | di un corpo | sfacciatamente nudo | violato | da luci e sguardi. || Riposa Marilyn | la bocca sul bicchiere | sporco d’amore | ti sei addormentata | in un abisso bianco.»), donandoci un efficace ritratto dell’attrice pari per forza a quello resoci da Alda Merini in precedenza. I dubbi esistenziali permangono. Forse l’uomo è destinato a scomparire come gli scoiattoli che saltano tra i rami senza lasciare nessuna impronta sulla neve. I versi si fanno spesso tesi, nervosi, come la natura: gli ulivi si mostrano ansiosi, la ginestra piange. Di recente, nella vasta produzione libraria, si è distinta l’opera Perdonare Dio (titolo ovviamente da interpretare con attenzione; Mendrisio, Josef Weiss Editore, 2006) di Agostino da Turlago (nome fittizio). Nei versi di Raffaella Bettiol non di rado si respira l’afflato divino: «So l’innocenza di Dio | altrove l’arbitrio, | eppure è nel sangue | il riscatto della vita. || L’autunno svena gli acini al sole.» (ne “L’innocenza di Dio”). Dunque, secondo la Bettiol, nulla da perdonare a Dio. E nulla da eccepire alla sua convincente silloge poetica Ipotesi d’amore. |
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