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Il plumbeo grigiore quotidiano rischiara nei versi di Parole d’ombraluce, diviene ferroluce, acre consapevolezza che non può, comunque, spegnere quella luminosità che si intravede in fondo al tunnel, fiammella alquanto flebile e instabile che, malgrado sia tale, guida oltre le dense caligini ottundenti.

Sorprende il fatto che l’autrice, Giorgina Busca Gernetti, soltanto dal 1998 abbia cominciato a pubblicare poesie (con un’unica eccezione riservata a una singola lirica, edita all’età di diciotto anni). L’opera Parole d’ombraluce rappresenta la sua quarta raccolta poetica, inclusa anch’essa come le precedenti (Asfodeli, La luna e la memoria, Ombra della sera) nella collana “Le Scommesse” di Genesi Editrice. Soltanto in apparenza c’è stata una pausa di riflessione durata qualche anno (per la precisione, dal dicembre 2002 al mese di gennaio 2006) tra il terzo e il quarto libro pubblicati. In realtà, si sono verificati dei ritardi editoriali, dovuti a cause indipendenti dalla volontà dell’autrice.

In effetti, leggendo Ombra della sera e Parole d’ombraluce, si possono notare molti punti di contatto. Il discorso poetico prosegue tra i lacci della memoria, della nostalgia; le esitazioni di un attimo continuano a modificare l’intero corso degli eventi, in modo irrimediabile; la natura (mai mera cornice esornativa) e l’attualità svolgono ancora un ruolo di primo piano in questi segmenti versicolari, almeno quanto il dialogo intessuto con i protagonisti della poesia (ma non solo della poesia: anche Munch, per fare un esempio, viene omaggiato di alcuni versi), senza porre confini spaziali o temporali. Autori come Peter Russel non vengono disdegnati, anzi, vi è la consapevolezza che le rigide regole del mercato spesso sacrificano proprio chi nell’oscurità più vede e dall’oscurità più illumina.

La cifra originale che contraddistingue la produzione di Giorgina Busca Gernetti la affranca da qualunque pericolo di emulazione. I molteplici interessi la collocano in una dimensione tutta sua, conferendo alle opere da lei concepite un notevole valore aggiunto.

Come osserva nella prefazione l’editore Sandro Gros-Pietro, «ombraluce è la condizione di grazia e di smarrimento che la parola poetica ha consustanziato nei versi, i quali sì conducono alle visioni edeniche, ma possono anche condurre a un doloroso smarrimento.». Per la sua modernità, Giorgina Busca Gernetti non può venire soccorsa dalla «fede in un altrove redentore delle apparenze ingannevoli del mondo, perché la promessa della rinascita alla vera vita resta confinata nel tempo coniugato al futuro, ma non tocca il presente e non tocca il passato».

Riguardo all’ossimoro “ombraluce”, può risultare utile tenere presente che «L’ombra è necessaria alle immagini fotografiche perché definisce i soggetti inquadrati delineandone i contorni; senza di lei il nostro occhio coglierebbe ben poco di quanto fotografato.» (parole, queste, di Adriana Perrotta Rabissi; cfr. “La Mosca di Milano”, n. 17, dicembre 2007). Questo è un discorso applicabile non soltanto nell’ambito della fotografia.

In apertura di raccolta, si può subito scorgere un elemento di continuità rispetto a Ombra della sera notando alcune parole di Saffo che ci rammentano la sofferenza dei fiori, calpestati dal piede incurante dell’uomo. Dopodiché il percorso poetico viene così tracciato: “Aegritudines”, “Luce in Calabria”, “Il tempo, la memoria, la poesia”, “Macchie d’ombra”, “Epicedio per mia madre”, “Luci ed ombre nella natura”, “Amores”. Dunque, sette sono le sezioni, le tappe di questo viaggio ideale.

Segue la “Postfazione” di Gianni Solari, che qui coglie l’occasione per rammentare un insegnamento di Montale: «Sempre, e in ogni tempo, i poeti hanno parlato ai poeti, intrattenendo con essi una reale e ideale corrispondenza.».

Chiudono il volume gli “Spunti per una rassegna critica”, che inizialmente riprendono l’appendice di Ombra della sera, ma in seguito riportano molte nuove pagine, abbondanti di interessanti notazioni relative alla produzione di Giorgina Busca Gernetti. Tra i tanti recensori che si sono occupati dei suoi libri, per fare soltanto un esempio illustre, possiamo ricordare il nome di Paolo Ruffilli; invece, per quanto concerne i poeti o scrittori famosi che intrattengono un rapporto epistolare con l’autrice, un nome per tutti: Giorgio Bárberi Squarotti.

Sia il lettore più esigente che il lettore comune possono apprezzare questa poesia, che ha ottenuto molti riconoscimenti; tra i primi posti conseguiti, di recente ha vinto la XXXIII edizione del Gran Premio Nazionale “Città di Pompei” (2007).

Le Parole d’ombraluce sin dalla prima sezione (“Aegritudines”) ci pongono dinanzi al problema tanto sentito nell’era contemporanea della ricerca della propria identità, perché «sotto di noi sta l’ombra» (nell’“Assenza”), è una «Zattera abbandonata alla deriva | l’anima mia» (nella “Deriva”), mentre anela all’infinito, a liberarsi dal carcere del corpo. Pare «Tutto inutile e vano. | Se appena si vacilla, si precipita | nel fondo d’un abisso. | Le mani afferrano gli sterpi, l’erba, | i rami troppo fragili.» (nella poesia “Inutile”).

Lo specchio pare riflettere un’immagine estranea, emblema di una vita che non si può vivere come si vorrebbe. L’attimo e la goccia scivolano via, rispettivamente verso un rapido e verso un lento (ma, comunque, inevitabile) schianto. L’ombra si annida nell’anima, luogo d’inquietudine e solitudine, mentre corrispondenze magiche e sfuggenti uniscono micro e macrocosmo. L’ombra talvolta si fa bianca, come per la luce lunare nella “Notte di San Lorenzo”.

Nella poesia più pregnante della prima parte leggiamo: «In un tempo lontano mi pareva | di conoscere il mio volto interiore.»…«Ora non so chi fui, non so chi sono.»…«Identità svanita | è questa mia diuturna scontentezza | di me, dei miei pensieri, del mio tutto. | Non so più chi io sia. | Non mi conosco.».

La seconda sezione, invece, fissa sulla carta ricordi di viaggio che vedono protagonista la Calabria (“Luce in Calabria”). Riaffiora la cultura classica dell’autrice che, come pochi altri poeti contemporanei (per esempio, l’interesse per Saffo la avvicina idealmente a Giovanni Barricelli), riesce a evitare ogni petulante forma di erudizione o sterile freddezza, in nome di una completa autonomia della sua arte. Una “Colonna solitaria” e “La voce dei Bronzi di Riace” sono una sfida alle inclemenze del tempo.

All’“Alba sul mare”, «Candidi pensieri sbocciano, fiori | nella mente mondata dagli sterpi, | ormai pura, destata dall’oscura | notte di coscienza tetra di mostri | dissipati dall’alba» stessa. Crepitii di carta stagnola si percepiscono tra gli sbuffi delle onde, merletti d’acqua, trafori eccelsi della mente sotto i profili di disegni di vento.

Delicate e, al tempo stesso, intense notazioni coloristiche caratterizzano l’“Aurora” e l’“Azzurrità”; con i “Colori d’estate sullo Jonio”, Giorgina avvicina i suoi versi a quelli del prediletto Leopardi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: «Nel meriggio dorato | armoniosi s’intrecciano i colori | per la danza gioiosa dei gabbiani | che ignorano l’angoscia | e volano appagati d’infinito.». Qui ai lari viene ascritta quell’incoscienza che Leopardi attribuiva alla «greggia».

Ritroviamo il motivo della danza nelle “Metamorfosi”: «Lieve mi unisco alla danza armoniosa | senza più peso nel corpo e nell’anima.»…«E sono | creatura marina.».

Tale identificazione con le creature marine raggiunge l’apice in “Ippocampo”: «Ti tormenta la mano | del fiero cacciatore d’innocenti | creature del mare. | Ti avvolgi a spira sul suo dito; muovi | debolmente il tuo capo coronato | d’inerme cavalluccio | dalla coda di drago. || La ressa intorno ruba la tua immagine | per mostrarla agli increduli parenti; | con ordigni moderni ti fotografa, | t’invia agli amici con il cellulare. | Tu boccheggi nel secchio, cerchi l’aria, | ma altre dita ti toccano, ti affondano | per render vivace il tuo ritratto.».

La terza sezione, “Il tempo, la memoria, la poesia”, comincia con “Echi di memoria”: «La primavera può svegliare il verde»…«Non può il mortale che la sorte spinge | senza ritorno verso un lungo inverno. || Restano solo gli echi di memoria»…«Qualche barlume illumina | di quest’autunno il rapido crepuscolo.». Vi sono talune affinità, malgrado notevoli diversità contestuali, con la poesia “Varchi di memoria”, dedicata a Giorgio Bárberi Squarotti da Ninnj Di Stefano Busà (pubblicata in “Nuove Lettere”, nn. 5-8, 1996): «Si dirada la stagione lieve, | tempo che ci colse come frutto dal ramo.».

La memoria è un vento incessante. Libera o imprime una grata sul cuore. Fa sgorgare sangue o brina. Non poche liriche sono dedicate all’infanzia, con riferimenti alle zie, alle lucciole che oramai non si vedono più, alla città natale (Piacenza), alla nonna, al mare: «Era per me l’infanzia favolosa, | culla di miti eterni, | di visioni ideali che s’imprimono | per sempre in fondo all’animo. || Allora vidi il mare!» (dall’ultimo verso qui riportato deriva il titolo della poesia).

Talvolta affiorano contraddizioni, tipiche dell’animo umano. Quell’età aurea tanto rammentata e ripercorsa appare perlopiù come un’isola felice, ma vi sono alcune eccezioni che non vanno taciute: «in quell’età delle parole | dolci, dell’affettuoso vezzeggiare | che troppo raramente | conobbi nell’infanzia malinconica.» (“A colloquio con le zie”). Del resto, «Il passato scolora le memorie | dolci, dolenti, felici, angosciose.» (in “Tempus fugit”).

Giovanni Pascoli è tra i poeti che si rivelano più in sintonia con Giorgina. Come osserva Franco Ferrucci, nell’Ars poetica (il melangolo, 1994), forse Pascoli, per ideare la poetica del Fanciullino, si è ispirato al Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare di Leopardi: Persona (il poeta) dialoga con Ermes (il “fanciullino”), suo spirito ispiratore. Il cerchio, quindi, si chiude con Giacomo Leopardi, forse il più amato da Giorgina Busca Gernetti.

Persiste l’illusione di poter sopravvivere attraverso la propria poesia, se almeno un lettore la serberà come preziosa eredità. “Saudade” è in memoria di Selìm Tietto, che per Ombra della sera aveva scritto una recensione, il cui incipit recitava: «Saudade? Per farci entrare nell’igiene eretica dell’io». In questo caso è la stessa Giorgina a dimostrare coerenza nell’atto di raccogliere quanto lasciato in eredità anche dai poeti scomparsi di recente.

“Macchie d’ombra”, la quarta sezione, è stata concepita perché non si dimentichi il sangue di innocenti che ancora viene versato; così a “Baghdad” («Nelle Mille e una notte le suadenti | dolci parole sarebbero mute.»), così a “Nassiriya”, così nella scuola di Beslan. Idealmente, con l’ausilio della poesia, si vorrebbe dare un nome a tutti i corpi di ignoti accatastati a seguito dello Tsunami, rendere ogni giorno “Il giorno della memoria” (27 gennaio).

“Nelle foibe carsiche”, Giorgina racconta: «Un grosso cane a guardia | dei morti, anche dei vivi, nelle foibe, | gettati dalla cieca furia slava | per cancellare dalla loro terra | le detestate tracce dell’Italia.»…«Il grosso cane con loro moriva | lentamente; il lamento come un pianto sulla sorte impietosa | dei morenti, dei morti che giacevano | inerti tra le rocce. || Quasi un novello Cerbero | posto a guardia degli Inferi, credevano | che impedisse il ritorno delle vittime | innocenti, italiane, | per tormentarli con rimorsi ed incubi.». Questi vanno annoverati tra i più bei (e rari) versi dedicati non solo agli uomini, ma anche agli animali sacrificati dalla crudeltà bellica (cfr. Animali al fronte – protagonisti oscuri della grande guerra di Eugenio Bucciol, ediciclo editore | nuova dimensione, 2003; prefazione di Margherita Hack).

Per quanto concerne questa sezione del libro, pure per Giorgina Busca Gernetti possono valere alcune considerazioni montaliane. Infatti, Nel nostro tempo, Eugenio Montale scrisse: «Io amo l’età in cui sono nato perché preferisco vivere sul filo della corrente anziché vegetare nella palude di un’età senza tempo.»…«Molti continueranno a pensare che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che s’incarica di sfuggirgli.».

“Epicedio per mia madre” occupa la quinta parte dell’opera. Tolstoj scrisse: «Tutte le famiglie felici si assomigliano, tutte le famiglie infelici sono infelici a proprio modo». E Giorgina ne è ben consapevole. Da più parti si è detto della sua capacità di esprimere i sentimenti con autenticità, senza eccessi, senza toccare i facili tasti del sentimentalismo e dell’esteriorizzazione incontrollata, senza mai scadere nell’autocompiacimento della sofferenza o nella cieca esaltazione della felicità. Il ritratto che ne esce della madre è a 360 gradi, tra limiti e pregi, tra reciproche incomprensioni, tra gioie condivise non senza ombre: «Ora sei nella luce.»…«Petali secchi, parole non dette, | macigni insopportabili nell’anima, | dolenti cicatrici.» (I); «Ora che sei lontana | per sempre, più vicina | ti sento, pur nel vuoto che m’opprime. | Dai giorni amari ed aspri | rifugge e s’allontana la memoria; | rapida torna agli anni della luce, | all’età dell’infanzia.»…«Quando fu che per strada ci perdemmo?»…«Tutto da te, poiché non esisteva | accanto a noi quel padre | di cui la guerra con la sua barbarie | ci aveva rapinate.» (II).

Giorgina Busca Gernetti è un esempio di come l’autobiografismo possa non essere un limite, bensì una straordinaria risorsa. La perdita del padre a causa della guerra le ha sempre ispirato versi capaci di scavare negli aspetti meno ordinari degli eventi bellici.

Rammentiamo altri versi dell’“Epicedio per mia madre”, per poter seguire, in breve, l’intero percorso tracciato dall’anima filiale: «Ora è tardi. Non c’è più tempo, madre, | di camminare l’una incontro all’altra | per dire quelle semplici parole | che rimasero mute tra le labbra | serrate come pietra.» (III). «Eri orgogliosa di me, dei miei studi, | dei miei saggi di musica, | ma non dicevi una parola sola | che fosse ricompensa | al mio volerti rendere felice.»…«Ora sai tutto, madre; non c’è nulla | che sia per te mistero.»…«Sai come sia il morire. | Nulla so io al tuo confronto»…«che valgono gli studi appassionati | e le sudate carte, le poesie | nascoste in un cassetto, la mia vita? | Cose stupende ed effimere ho amato | ed amo con fervore» (VII). «Verrò ancora da te con rose fresche | e ancora parlerò dei giorni amari | | per cancellarli dal nostro passato, | finché rimangano soltanto | i petali leggeri delle rose.» (VIII).

Nella penultima parte di Parole d’ombraluce, dal titolo “Luci ed ombre della natura”, emergono le capacità descrittive della poetessa, che sa cogliere anche le sfumature impercettibili della primavera, dei fiori, penetra nebbie (mentre le case urbane divengono ombre) e nevicate, si specchia di frequente in laghi e ricordi d’altri tempi.

Nella sezione conclusiva, “Amores”, vengono catturati i fremiti dell’attesa e dell’incontro amoroso, le ansie generate dalla separazione, l’indifferenza che talvolta ferisce chi la prova più della sofferenza, l’abbandono e l’addio.

La penultima poesia sostiene che “L’amore è morto”, ma l’autrice imprime il suo sigillo all’opera con “Non è morto l’amore”: Eros continua a rappresentare il desiderio che genera e avvicina i mondi.

Parole d’ombraluce ci accompagnano anche dopo aver terminato la lettura, in un alone ove gli opposti si ricompongono in nuova armonia.

Recensione
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