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Libertà e
utopia nella poesia di Zinna
Nella poetica di Lucio
Zinna la ricerca della libertà conduce al rito onirico di un mondo utopico (“Tabes”)
che contiene “la speranza di uno squarcio aperto nell’ignoto” (“un inaccessibile
pianeta”): ivi la libertà e la speranza coesistono e si integrano in uno spazio
che non ha limiti né margini, in un tempo che non ha un principio né una fine:
la memoria rompe i margini della siepe, dilata il microcosmo dell’alma
proiettando gli ideali umano-esistenziali in un futuro inafferrabile, in uno
spazio inaccessibile. In tale indagine libertaria la parola diventa uno
strumento necessario ed essenziale: essa è canapa indiana che cresce in terra di
libertà con nuovi significati, nuovi valori semantici, nuove risonanze mitiche,
nuove connotazioni evangeliche (“in principium erat Verbum”). Ecco perché il
nostro poeta si reputa “un antico drogato di poesia”.
La reminiscenza del
Bonaggiunta dantesco (“Sudità”), la riferenza al mito prometeico (“Frammenti per
le creature”) indicano un’odissea umanistica che ci ha fatto restare al di qua
dell’utopia della libertà, al di qua della ricerca di “virtute e conoscenza” e
raggiungere un oceano ignoto alla ricerca di un mondo utopico di felice memoria
ulissiaca; né siamo riusciti a cercare Itaca (che non c’era), ma ci siamo
perduti in viaggi disorganizzati e non siamo mai arrivati alla soglia del vero
sapere.
La poetica di Zinna
contiene un’allegria allegorica e metaforica che “non era di naufraghi”
(allusione ad un’opera di Ungaretti), fra “onde e brezze di catrame”, “in
compagnia di giovani bagasce”; il nostro corpo si è perduto tra le alghe
ed i coralli, “nel silenzio spettrale in mezzo al fango”. La sua
ricerca della libertà non si esaurisce nel fatto biologico, né nell’evocazione
fisiologica dei nostri organi, ma trascende dalla libertà di coscienza alla
coscienza di libertà, per condurre il lettore alla Trascendenza del naufrago
nell’incontro/scontro con Dio (Jaspers). In quest’ottica spirituale e
teleologica la vita banale non deve affatto superare la vita autentica (Heidegger).
Il ricorso alla memoria
dell’infanzia indica, fra l’altro, il recupero di quei valori autentici che
erano insiti in noi nella primavera della vita all’alba del giorno che spunta
nel fiore della speranza, nel conato della libertà. In ogni uomo l’infanzia
segna il destino del mondo (“Massimiliano”): non si tratta
dell’evangelico “lasciate i pargoli venire a me”, ma di far sì che
i bimbi, una volta diventati adulti, reggano le sorti dell’universo in una
maniera adeguata e competente, in un ciclo di generazioni incredibili. Consci di
tale fede nei giovani figli, i padri, invecchiando, possono diventare nuovamente
bambini, per poi ritornare nell’al di là con l’ingenuità infantile, col sorriso
dell’innocenza, con quelle qualità naturali e spontanee con le quali sono venuti
in questo mondo. È
un ciclo esistenziale che passa dalla bontà (infanzia) alla malvagità (età
matura) per tornare nuovamente all’ingenuità dei bimbi (vecchiaia). Nulla si
perde di “virtude e conoscenza” acquisite in questo ciclo esistenziale del
viaggio di Ulisse verso la montagna del Purgatorio, delle avventure di Enea
verso i lidi latini.
Non sorprende, perciò, in
questa poetica il recupero del ciclo iniziale della nostra vita, l’infanzia,
nell’amore materno (“tu sapevi madre che la vita non mi avrebbe
serbato | che sorprese e inconfessati strazi”), nell’attaccamento
fedele alla madre terra, nell’esaltazione della civiltà contadina che ancora
sussiste e resiste in certe regioni d’Italia ("Sessantacinque versi
per il treno della Maiella”): il silenzio dell’umile Molise, dove fra larici
ed abeti pascolano ancora le capre solitarie ed i bimbi giocano liberi nei prati
in fiore. Eppure, il pensiero del poeta corre a Palermo, “tradita moribonda
| tra rifiuti e mostruosi palazzi”: “Che faranno a quest’ora i figli
|
nella casa lontana – questi figli che ci stiamo | crescendo a poco
a poco in maniera sbagliata | (pronti incapaci di menzogna aperti agli
altri | in un covo di lupi). Come l’Abruzzo | anche il Molise è trascorso
– magico e sconosciuto”.
Nella preziosa
silloge Abbandonare Troia il trapasso dalla civiltà agricola a
quella del cemento è evocato e sofferto in quasi tutti i testi con
accenti poliedrici ed ironia bonaria. Il poeta accetta il progresso
tecnologico nei suoi aspetti migliori, ma si chiede dove si andrà a
finire se gli studi umanistici non vanno a pari passi con quelli
scientifici, dove si andrà a finire se la scienza si rivolge alla
distrazione dell’umanità tramite la guerra nucleare ed altri
misfatti che non si conoscevano all’età dei sogni. Per uno studio
più adeguato dell’ideologia di Lucio Zinna sui concetti di civiltà e di
progresso si rileggano le poesie: “Pastori di Sagaga”, “Fontana del
pescatore”, “Settantacinque versi per il treno della Maiella”, ”Isola
delle femmine”, “Scartabello degli attimi invenduti” ed altre ancora
che evidenziano la poetica della libertà, l’odio per la città, la
necessità impellente del ritorno alla culla materna della
“natura naturans” ed ai miti edenici della primavera della vita.
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Recensione |
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