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Quali potranno mai essere le «molte cose che, shakespearianamente, possono trovarsi «tra terra e cielo», come, un po’ didatticamente e un po’ maliziosamente, dice, spiegando il titolo della raccolta, la breve nota introduttiva dell’autore? È come se, con questo avvertimento e dopo ben tre esergo, il poeta si compiacesse di ritardare l’affido dei versi alla lettura diretta, trattenendo il lettore per la giacca sulla soglia del percorso interno, consegnandogli delle chiavi e invitandolo a disporsi con adeguato stato d’animo alla visita. Ci sembra, già questo, un momento rivelatore del rapporto – attivo e non meramente ricettivo – che Zinna intende costruire attraverso la scrittura poetica.
Dall’altra, il lettore sconosciuto, evanescente eppur reale come figura nello specchio, ma affratellato dallo stesso destino. Le fondamentali coordinate dialogiche di questa poesia, che innanzitutto, con scrupolo ed insistenza, vuole essere comunicativa, ci sembrano tutte qui. Ma così dicendo, non abbiamo ancora chiarito nulla dei modi con cui si invera la tensione comunicativa, né dei materiali di rappresentazione, né della cifra identificativa di questa scrittura. Circa quest’ultima, essendo l’elemento primario da cogliersi per lettura diretta, diremo soltanto che essa fa da immancabile e impeccabile vettore nei veloci, spesso bruschi, movimenti referenziali alle cose: i moti tra l’alto e il basso (appunto, “a mezz’aria”), tra il lontano e il vicino nel tempo e nello spazio, tra la realtà e la memoria, tra gli oggetti e la rappresentazione che ce ne danno i sensi, tra la materia e l’immateriale. Un’espressione mai sfuggente, che dà consistenza ai voli, ai tocchi leggeri e delicati, ai desideri e alle nostalgie, ai rimpianti e alle nuove scoperte, sì che l’animo se ne rinvergina anche nella tarda età (Tardetà, è appunto il titolo di una delle liriche della prima delle cinque sezioni, Transiti). Un mondo comune, quotidiano, quasi dimesso, antiepico e perfino antilirico, quello che appare da queste poesie di Zinna. Eppure immenso. Immenso, per la nostra possibilità di continuare ad interrogarlo nelle sue manifestazioni più umili ed umanamente irrinunciabili (non è un caso che la prima lirica si soffermi sul tema dell’ ‘assaporare’). Immenso, per le risonanze che possono destare a sorpresa esperienze routinarie (leggasi Wagon lit). Immenso, per gli interrogativi che non finiscono mai di destare i drammi umani di «chi è maturato | all’algido fuoco della sofferenza». Immenso, infine, perché moltiplicato all’infinito dal miracolo dell’occhio, della sensibilità e della scrittura poetica, che sanno cogliere anche nelle figura più umili una scintilla di cielo. Tra terra e cielo, ancora. |
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