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“A mezz’aria” sembrerebbe, di
primo acchito, un luogo, una regione fisica e mentale in cui collocare gli
accidenti della vita, dolori o gioie che siano.
A guardare meglio, però,
direi che il posizionamento a mezz’aria delle poesie di Lucio Zinna si riferisca
piuttosto al tempo, ad una dimensione mediana tra cronologia oggettiva e durata
soggettiva. Infatti questa nostra esistenza terrena è considerata alla stregua
di un segmento, di un brandello segnato in principio e fine da due strappi
radicali, prima dall’utero materno e poi dagli anni.
Tuttavia, le poesie
raccolte in questa plaquette non si limitano a ripetere la presa d’atto
di un dato incontrovertibile; esse aprono al lettore la porta privata del poeta
e lasciano scoprire se sia possibile tendere uno sgambetto alla crudeltà del
vivere. A mezz’aria, allora, può significare che c’è un periodo di sosta, una
fase sospesa tra l’inarrestabile scorrere delle stagioni storiche e l’eternità.
Fase percettibile solo nell’interiorità, in una dimensione che è privata non
solo e non tanto perché riguarda l’io del poeta, ma soprattutto perché contempla
il suo rapporto con la donna amata. In verità la gioia procurata dagli attimi
senza tempo è a sua volta moltiplicata dall’esistenza di un “tu” con cui
condividere le privatissime sensazioni. E la condivisione passa attraverso la
comunicazione, talvolta a parole talvolta senza parole, ma sempre basata su un
cifrario segreto che trova compimento nel “noi”. In questa dimensione privata,
la cultura multi/plurilinguistica di cui il poeta si è dotato nel corso della
sua esistenza genera la formula poetica con cui sospendere il flusso del tempo.
Ci si dispone allo scontro con la fatica del vivere dilatando gli istanti di
godimento personale, stirando in lungo, in largo e in profondità abissali quelle
frazioni impercettibili di quotidianità in cui un minuscolo miracolo ci viene
incontro come un dono inaspettato e ci premia per la costanza dimostrata nell’
essere rimasti vivi: può essere un riflesso verdastro sulla pelle dell’amata che
nessun altro saprebbe scoprire, può essere la fragranza dell’origano o
semplicemente la frescura antelucana: Ti giunge improvvisa una brezza |
mattutina che sorvola le sonnolente | finestre ti residua un misto di salsedine
| ed erbe selvatiche i gas di scarico – | appena un sospetto – avranno avvento
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nella giornata metropolitana | assapora il filo che transita carico | di
frettolose fragranze accoglilo | con (inquieta) gratitudine.
Ma può succedere anche che
il senso dell’esistere – quel poco di buono che ci tocca – ci si sveli per caso
una mattina, dopo che il temporale ha pulito le strade e disperso i passanti in
un’aria lavata, un’aria di vetro che forse non è vera e che forse è la sola
vera. Può succedere che un chiosco, mille volte guardato come chiosco, quella
mattina si stagli contro la luce con la forza placida di un tempio dal quale non
escono responsi e che pure spande intorno qualche soffusa certezza: quella
d’esserci, di essere insieme: io, tu, noi due. Questa poesia è una
privata comunicazione, un cenno silenzioso rivolto all’amata, a lei che sola –
insieme al poeta – riesce a scorgere nella sagoma ottagonale di un bar un
arcano baluardo contro le insidie del futuro: il caffè dal grande chiosco |
ottagonale a vetri | si offre per uno per due | per tre quarti d’ora | di addormire il destino
| intepidire l’intrepidezza dell’ignoto | la soffusa
irrealtà del giorno.
Se la vita è un succedersi
di verità nascoste, un accidentato sentiero tramato di serrature che il più
delle volte non si riesce ad aprire, è pur vero che nell’immensità del cuore
ogni frazione di secondo può distendersi all’infinito. Perfino una fotografia,
prova concreta di un progresso tecnologico e dunque altamente oggettivo, rivela
il suo più ampio prodigio solo a patto che sia il mondo interiore, il cuore, a
colmare e ad annullare il lasso del tempo storico: Un’ignota vis calamitante
| dissolve tempi riannoda | a sperduti scatti sorrisi stampati | su esili
frammenti esistenziali. || Ed era il cuore – il cuore – | ad accendere i flash.
Naturalmente, affinché si
possa sperare in questo inaspettato premio, è necessario aver maturato una
saggezza costruita sui libri e sul campo, una cultura stratificata e composita
che permettano, l’una e l’altra, di cedere alla tentazione del consuntivo
biografico senza cedere alla disperazione. Perché è il linguaggio, in specie il
linguaggio poetico, a edificare il singolare osservatorio dal quale Lucio Zinna
si guarda intorno e si guarda dentro: latinismi, francesismi, dialettismi,
tecnicismi, vocaboli letterari e iperletterari, tutti fusi in un caleidoscopico,
straniante, ironico pastiche. Sembra, insomma, che Zinna giochi col
linguaggio come un alchimista coi suoi elementi, strumenti l’uno e gli altri per
tenere sotto controllo i fermenti del reale. È vero che la cultura e il
linguaggio sono prima di tutto strumenti per penetrare la realtà, per immergersi
in essa e per meglio comprenderla, ma si ha l’impressione che il poeta se ne
serva come un filtro, come una pozione cha sappia tenere insieme l’amore e il
disincanto: Mi tengo com’è | questo straccio d’anima | con suoi errori
risorse rimpianti | parimenti elevabili a potenza. | Centellino l’incipit di
questo | declinante lasso come di primo | mattino la tazzina di caffè | o un
petit di slìvovitz a cena.
Proprio l’onesta, ironica
accettazione della fatica del vivere impediscono al poeta di approfondire la
frattura tra mondo interiore ed esteriore, frattura che sempre minaccia
l’equilibrio degli animi sensibili: al contrario, la poesia – e solo essa –
riesce a dire l’improvviso affacciarsi alla coscienza di una semiverità,
qualcosa che sta fuori e dentro di noi, a metà strada tra una speranza
inconfessabile e il residuo di una credenza infantile: è il passaggio degli
angeli, in uno dei testi più sorprendenti dell’intera raccolta: Passano
impalpabili a sguardi e lasciano | segni leggibili con alfabeti dell’intus
| e lunette d’anima. Con un soffio | orientano dardi impossibili
per nostri | benèfici bersagli non lasciano captare | musicali
frulli variopinte fragranze | (un sussurro risolutivo un insperato |
sostegno un impercettibile clic | in circuiti mentali ne rivela il
transito).
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Recensione |
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