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Gli eversori

“Chi volete libero, Gesù o Barabba?”.

Da sempre i poveri uomini hanno preferito i banditi, la plebe s’invaghisce di chi ruba e se la beve alla faccia della legalità: così una volta che era emarginata e così oggi che è ceto medio; le menti deboli fanno il tifo per i privilegiati, che non sanno neppure che faccia abbiano, i sudditi cedono il loro cuore, il loro cervello e le viscere per il successo di quanti li perderanno e vociano “alè, abbiamo fatto punto” e mentre gli avventurieri, i giocatori d’azzardo e i bari incassano il maltolto o l’eccesso di beni, essi restano ancora più impoveriti, talora nella borsa, sempre nella sostanza umana, eppure sono convinti di dover osannare chi li ha appena ingannati.

E dunque, bisognerebbe cominciare a concepire che sia democratico, come ci ha fatto vedere Pilato, governatore romano, ricorrendo alla plebe scamiciata, assecondare la voce popolare.

Bene, mi pare di aver udito una volta raccontare di un paese in cui il ceto medio era divenuto massa e la quantità era ritenuta metro di tutto e perciò era sovversivo chiedere a chi aveva che cosa fosse.

Si diceva che il paese andasse a gonfie vele. Sarebbe stato il migliore paese del mondo, con il vento in poppa e i sederi delle sedicenni esposti a beneficio degli ottantenni con le chiavi delle smart in una mano, mentre l’altra tentava di rianimare la gioventù e la bava colava dagli angoli della bocca; naturalmente lo sarebbe stato, se non fosse rimasto un piccolo manipolo di sovversivi, anzi i proprietari più o meno dell’ottanta per cento dei beni e i loro bravi si strappavano le vesti denunciando che erano un numero sterminato, intere categorie di professioni, piazze stracolme che intimorivano il principe e i sodali galantuomini, indifesi da tali nugoli interminabili, tanto che il novanta per cento della popolazione voleva e amava il principe dei galantuomini.

Ma poi, a conforto del bene, i rei collusi col crimine organizzato, nonché a piede libero, ne dirigevano governo, parlamento, informazione, l’economia prosperava grazie al commercio delle sostanze stupefacenti, al riciclaggio del denaro frutto di ogni reato, alle costruzioni abusive e in spregio ad ogni norma di sicurezza, in verità lacci e laccioli insopportabili finalmente evitati, alla promozione della corruzione che inquinava ogni spazio , al lavoro nero, all’ospitalità accordata nelle ville e nelle dipendenze della borghesia arricchita ad assassini, mestatori, estorsori, corrotti, mezzani e mignotte. Insomma, tale era la salute del sistema che anche ai sudditi era concesso, se erano furbi, e di ciò non potevano che essere grati, di delinquere nel modo convenzionato: infatti l’evasione fiscale raggiungeva cifre tali che a riportarle su pagina, con tutti gli zeri occorrenti, non resterebbe spazio per il prosieguo del racconto. Formalmente in parlamento c’era un’opposizione, ma non contava, anzi in qualche modo contribuiva alla magnifica farsa.

Alla sera, i sudditi di tale inedito e felice regime del chi più imbroglia è re e dittatore, con le nuove leggi che faceva scrivere ai suoi bravi, come neppure quel precursore di don Rodrigo, tutti compiaciuti si sistemavano davanti alla televisione unica per ascoltare amene storielle di regime, sculettii e cotillons.

La lingua parlata e scritta degradava piacevolmente, alla saggezza era stato dato finalmente il benservito e il terreno franava a seguito di qualsiasi fenomeno naturale per la gioia dei costruttori abusivi, l’unico sapere considerato era la consistenza dei patrimoni in qualsivoglia maniera accumulati e costituivano il solo metodo per calcolare il merito, anzi erano più apprezzati quando erano il prodotto di reati e delitti impuniti, il rutto e il trivio avevano sostituito proficuamente i dotti ragionamenti, le riflessioni, la cultura ritenuta iniquissima cosa, l’etica fastidiosa, la produzione e la ricerca degli intelletti, tutte cose ormai obsolete, la letteratura dei grandi poeti e romanzieri alla buon’ora era comatosa e dominavano incontrastate le barzellette da appuntamento in lupanare, tanto che chi le raccontava era principe.

In verità, le grida abbondavano nel campo dove nascevano citrulli, ma toccavano, e con severità, quelli che non avessero santi nel paradiso dei compromessi, tanto più che pure gli ecclesiastici d’alto lignaggio avevano occhi ed orecchi per coloro che baciavano i loro anelli d’oro avendo le mani occupate. I sudditi, che si reputavano liberi perché sbrodolavano parole scurrili e afasia, navigavano su internet ma alla ricerca di donnine scollacciate ed erano stati in villaggi della Franco Bianchi in Thailandia ed in Egitto sul cammello della pro loco, si dividevano come allo stadio, che calcistica era tutta la loro posticcia infarinatura, e perciò non aduggiati da eccessivo sapere,e per cui i falli da punire erano solo quelli della squadra con la casacchina avversa. In tale alta forma politica e di pensiero eccelleva il popolo della pedata libera, una sorta di gloria nazionale: infatti avrebbero assistito alle istituzioni rese case di appuntamento per mercenarie e bave di decrepiti gerontocrati, ai cadaveri per le strade, ai luoghi abitati ridotti in macerie, compiaciuti del fatto che il padrone delle loro magnificamente spente meningi e i suoi bravi proseguissero a renderli splendidamente idioti e immiseriti della materia di cui sono fatti gli uomini che seguano virtù e conoscenza, razza malefica, e chiamavano tutto ciò amore, che infatti sprizzava loro fuori da ogni poro, tanto da non poter vedere, causa gli occhi fuoriusciti dalle orbite per il trabordante trasporto, quanti timidamente dicessero che così era troppo.

In questo paese nacque un uomo e nella logica dello schieramento di tipo calcistico che tutto conformava, essendo conservatore, sarebbe dovuto appartenere al popolo della pedata libera, ma purtroppo fu magistrato e di quelli, per dirla intera, che pretendono di applicare le leggi verso tutti, perché così è scritto in qualsiasi sistema di diritto. Avete capito il tipo, uno antropologicamente diverso.

Naturalmente i giudici potevano sempre pentirsi del loro sovversivismo e farsi corrompere per il mantenimento dell’antistato autoritario, un inedito parto della razza padrona e accattona dalla faccia mutante: dall’amicismo, se mi passate il neologismo, gesuitico “a fra’, che te serve”, alla cosiddetta rivoluzione liberale, vale a dire il luogo ove ogni licenza era ammessa agli avventurieri. In entrambe le fattispecie, comunque, era qualificante il patto con il crimine organizzato, tanto che in nessun paese definito civile erano stati tanti, migliaia di migliaia, i morti ammazzati per stragi ed esecuzioni sommarie.

Ma Alessandro Salemi, così nominiamo quell’uomo, era perfino contrario al fatto che le fanciulle minorenni si prostituissero agli ottantenni miliardari e andava nelle scuole e, moralista senza pudore, diceva ai giovani di realizzarsi con lo studio e il lavoro ben fatto e non per mezzo delle prestazioni notturne, del delitto e del servilismo, era uno di quelli che facevano uscire fuori dai gangheri il devoto e lo schizzato che mettevano in sintassi la propaganda dell’idiozia conveniente e nazionalpopolare.

Insomma, c’era poco da fare, era antropologicamente diverso. Alessandro Salemi portava baffetti sottili da medio borghese moderato, da professore di provincia estimatore delle buone letture e del ragionare colto, delle lunghe chiacchierate sulla piazza fino al calar del sole, fino alle tepide notti mediterranee, ed amava il mare, lontano dalle spiagge affollate e sulle barche da pesca, che, con il sapore di sale ed eternità tuttavia corsa dalla vita e dalla storia degli uomini e dei popoli, rendeva tanto attraente la sua terra. Ma scelse di essere magistrato per il superiore amore della giustizia. Un uomo, come vedete, da tenere in sospetto: in una sua breve descrizione siamo stati costretti ad utilizzare tre parole, professore, cultura, magistrato, per nulla rassicuranti.

Sentite cosa disse di lui la moglie: “il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo hanno ispirato…non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile, di ostacolarlo… non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice, ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia”. Adatta moglie di quell’uomo: amore della verità, concetto terribile, e al contrario dispregio dell’egoismo e della vita facile. Questa gente la morte se la cerca, come autorevolmente ha affermato uno dei migliori soggetti di questo bel paese.

E tale fu la sua natura prava che per combattere gli eroi mafiosi accettò, insieme al suo amico magistrato, Roberto Greco,, così diamo un nome anche a lui, di farsi chiudere, per motivi di sicurezza, date le ovvie rimostranze e minacce dei galantuomini disturbati nel tranquillo esercizio delle proprie professioni, nella caserma dei carabinieri, in un’isola lontana sul mare, a preparare processi contro coloro che sostenevano l’economia locale e nazionale e conseguentemente s’accordavano per far saltare il controllo costituzionale, altro infame espediente eversivo, dei giudici comunisti.

Prima fu ucciso l’amico Roberto Greco. Dovettero divellere con il tritolo un pezzo d’autostrada. Si aprì una voragine che parve Satanasso intenzionato a riemergere dagli infimi gironi dell’inferno, dalle viscere infuocate della terra, dalle fonde scaturigini dell’afflizione eterna per debellare per sempre la resistenza della vita.

Incorruttibile anche alla paura commemorò così l’amico. “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione…per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui amare la sua città e la sua gente ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene…sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera…dimostrando a noi stessi e al mondo che lui è vivo”.

Dopo, si mise di traverso all’accordo tra stato e criminalità organizzata, anche se l’antistato già marciava a prendere palesemente le redini dello stato, usando carrettate di miliardi riciclati e disinvoltamente prodotti e con gli strumenti delle istituzioni si sarebbero evitati i fallimenti di avventurieri, e si sarebbe spianata la via, grazie pure all’inganno perpetrato ai danni dei citrulli tifosi, a corruzioni che come enormi lenzuoli di sporca nebbia avrebbero affogato ogni respiro diverso.

Non poteva essere lasciato vivere ed agire uno così, per i superiori interessi di tutte le onorate società ed aziende.

Fu disintegrato con la scorta e un intero quartiere. Le pietre si dissotterrarono dal loro luogo abituale, i pali della luce caddero nella polvere che ogni cosa cosparse, i mattoni della piazza si frantumarono in minime scaglie che salirono ai balconi che intanto si incrinarono verso terra come ossa di scheletri rotti e il pavimento d’essi franò su dove prima si trovava il selciato, il sangue di Alessandro e degli uomini della scorta si vuotò e venne sulla terra violentata, pareva non poter più rimanere impassibile a scorrere lungo il suo tragitto naturale e volesse constatare a che punto fosse giunta la notte tetra e sordida, l’offesa alla creazione della vita.

Così, per la promozione del paese, e infatti nel mondo era divenuta invenzione teatrale tra le più richieste, i palazzi governativi si aprirono ai ministri dipendenti, maestri di sci dei figli, avvocati difensori per le decine e decine di imputazioni, igieniste dentali, massaggiatrici del membro, e ai parlamentari in vendita, che furono truffatori d’alta professionalità garantendo i festini da casa dei traffici mercenari e finanza creativa, accreditando le prostitute minorenni come parenti di capi di stato esteri, e favorirono i reati depenalizzandoli o rendendo burla i processi penali che, per l’appunto, appena iniziati subito venivano prescritti prima che si potesse arrivare a un giudizio, con i delinquenti liberi di godere dei loro ottimi crimini e continuare a commetterli, mentre alle vittime e agli innocenti ingiustamente accusati si negava giustizia; nei palazzi del potere ebbero libero accesso e numeri riservati le ladre senza permesso di soggiorno, le professioniste del mestiere più antico e schedate, gli agenti del lenocinio, gli spacciatori di droga, gli stallieri dell’organizzazione che trattavano affari di un’originalità mai conosciuta prima: ad esempio mandavano un cavallo e mezzo in albergo e perciò venivano giudicati eroi, per il loro mestiere e per non aver fatto il nome dei compari.

Mai il paese aveva conosciuto una stagione più luminosa di cultura ed etica; ma si sa, quella degli eversori è razza dannata e, non si seppe come, ma, quasi che dal sangue degli uccisi si generasse la mala pianta, sorsero dai tetti, dalle piazze, che tutte gli egregi esecutori non erano riusciti a far saltare in aria, studenti che avevano studiato, professori, perciò giustamente definiti comunisti, che pretendevano per la cultura i riguardi che spettano, ben più opportunamente, alle avventure finanziarie ed economiche, giudici che, udite udite, reclamavano le regole della convivenza statuale che concepiscono l’applicazione egualitaria, e, so che proverete nausea, giornalisti che volevano informare e cittadini delle istituzioni e no che si richiamavano alla Costituzione.

Insomma, fu sabotato, all’unico e ai suoi bravi, il godimento della loro superiorità, ogni boccone dell’abbuffata da dolce divenne amaro, i dildi, che le infanti, a tutto disposte per la eccelsa carriera politica o artistica, una a caso, usavano per le parti intime, non diedero più agli eletti padroni il piacere pieno che sarebbe stato consono. Una palese infamia fu perpetrata: a quei galantuomini, la cui età si aggirava sugli ottanta, furono disonestamente impedite le morigerate e parche distrazioni della veneranda stagione, nonché di poter concludere l’alto compito di una selezione finalmente e inoppugnabilmente meritocratica e democratica della classe dirigente dell’avvenire.

Vi invito, dunque, a comprendere, miei lettori, come dovessero sentirsi delusi e costernati quegli encomiabili per l’irriconoscenza e la nefandezza umana. Si davano per il vero bene e vi erano esseri, certo antropologicamente difformi, che lo rifiutavano. Anime perverse che non adoravano il dio denaro, ma perdevano il tempo a leggere per nutrire, invece che la pancia e l’uccello, lo spirito, che non educavano le fanciulle a darla alle più consistenti offerte, ma tanto stolti da rispettare le donne, che non inseguivano la pelle perennemente fresca ma la dignità e il buon gusto, che non erano conquistati dalle quantità di moda, ma coltivavano l’intelletto, per i quali la religione non era una croce appesa al muro e un anello pastorale da baciare con viscide labbra, ma cultura che informa la vita, per i quali la libertà non era una moto enduro, ma l’indipendenza della ragione: non immagini ma uomini.

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