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La voce della pietra
La scrittura in prosa di un
poeta – o di chi tanto a lungo ha frequentato la poesia da riuscire a coglierne
la particolare, sottile vibrazione – ha sicuramente un fascino misterioso, un
sottofondo armonico del tutto peculiare. Soprattutto ha la capacità di dare un
peso alla parola, di scavare nell'animo del lettore e nell'oggetto del racconto
con questo strumento, dotato di un corpo grafico e sonoro e di un'anima che
spazia in un'area modulata fra idee e possibili significati.
La prosa narrativa di
La voce
della pietra di Silvio Raffo racconta la storia di due
destini, Jacob e Verena, che si intrecciano nel nome della parola e del
silenzio. Si può affermare ciò con l'accortezza di non cadere in un equivoco: la
parola di cui si parla non è soltanto voce così come il silenzio non è vuoto. E
i due mondi, quello di Verena e di Jacob, in realtà molto simili e comunque
contigui, vanno a intrecciarsi, oserei dire a contrapporsi, in un confronto
serrato, una sorta di conflitto psicologico, fino a trovare il loro contatto nel
libro e attraverso il libro, arrivando nell'epilogo a fondersi drammaticamente.
Silvio Raffo, che prima di tutto
è un affermato poeta e un appassionato di poesia, costruisce la trama del suo
libro alternando in capitoli molto brevi e fulminanti il racconto di Verena,
piano e con una struttura più razionale, alle pagine del diario di Jacob che, a
seguito della morte della madre in tragiche circostanze, si è isolato in un
silenzio ostinato e volontario.
La partita, al di là della
trama, si apre sin da subito attorno al muro del silenzio, baluardo che si nutre
continuamente di se stesso e che resta una forma di difesa contro lo smarrimento
nel labirinto complesso del dolore e della realtà. Ma il silenzio di Jacob, il
diciassettenne che ci appare come imprigionato nell'antica dimora della campagna
toscana degli anni Cinquanta, chiamata La Rocciosa, sembra echeggiare di
continuo nella pietra e nelle mura che lo circondano, di cui pare avere la
consistenza. Da lì, fino ad allora assoluto dominatore del tempo e degli eventi,
con lo sguardo lunare attorniato da statue che dialogano con il suo mondo, Jacob
accoglie l'arrivo di Verena (apparentemente guidato da una forza ineludibile)
con un senso di iniziale insofferenza che si trasforma gradatamente in
contrapposizione ostica, riconoscendo nell'istitutrice un pericolo mortale, come
emerge dal suo fitto dialogo con l'entità che sembra abitare la pietra.
Verena, dal canto suo, presenta
aspetti e caratteristiche molto simili a Jacob: a lui legato da quel silenzio
che la società avverte come patologico, si sente chiamata dal destino a
scardinarlo – lei, infermiera sensitiva e sensibile, orfana, isolata e sola tanto
quanto lo è il ragazzo – con le armi delle conoscenze acquisite dai suoi studi e
dall'esperienza diretta.
La voce della pietra, al di là
del discorso profondo sul valore del silenzio e della parola, pone l'accento su
altri temi importanti, universali: il tempo sospeso della coscienza scandisce,
infatti, le vicende dei due personaggi principali attraverso un percorso in cui
domina incontrastato il senso dell'immortalità dell'amore materno e
dell'indissolubilità del legame madre-figlio che diviene poi riflessione sul
rapporto fra vivi e morti.
La tensione, come anticipato,
corre tutta attraverso questi poli, sprofondata com'è in un'atmosfera onirica, a
tinte gotiche, avvolta da un alone misterioso – possiamo a ragione dirlo magico
e dannato – che trasferisce al lettore l'incantesimo di cui è permeato sino al
sorprendente ma ineluttabile epilogo.
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Recensione |
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