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Robustissimo narratore (e pensatore, aggiungiamo noi), come ben sanno i nostri lettori, Francesco Alberto Giunta conferma con questo corposo volume anche una vena poetica autentica, assolutamente non succedanea della scrittura in prosa, autonoma e solida in se stessa. Certo, l’una espressione non ignora l’altra e si ravvisa perciò in entrambe la stessa tensione latamente (e laicamente) spirituale, l’uguale desiderio di parlare dell’animo umano e delle sue emozioni senza perciò sminuire la capacità di ragionamento e pensiero: giustamente Franco Lanza, nella prefazione, sottolinea tanto la presenza di un “lessico familiare” quanto di una “disciplina del disegno, la costruzione armoniosa che fa tutt’uno con l’ordine della moralità”.

E ci piace sia questa la lettura privilegiata, poiché è il modo migliore per introdurre quel concetto di “sacralità” di cui ancora Lanza parla e che permea il ritratto di un ambiente intimo, correlato spesso con presenza identificate (i genitori, le donne) che assumono il valore assoluto di certezze in un mondo altrimenti confuso, con ben sa un Giunta che – per esperienze lavorative e per indole – si autodefinisce “vagabondo” sin dal sottotitolo del libro. Il tutto attraverso un linguaggio semplice e piano, lontano da ardimenti metaforici, quasi diari stico nel senso nobile del termine ma, proprio per questo, aderente alla vita in grado massimo. Intensità pacata e modulata concretezza sono due i poli tra i quali si articola il discorso poetico dell’autore, mai sazio di vitalità individuale (“È proprio così la mia storia: / desiderio di giostre e di clowns / che intrecciano al sole / fantasiose danze di vita /”) e, nel contempo, desideroso di partecipare al destino umano: “Oggi ho cambiato idea: / voglio cambiare il mondo / abbandonare i sogni puri / per farmi umanità”:

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