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La scrittura di
Renzo Cremona, che
nelle opere
recenti si era svincolata dalla dicotomia poesia-prosa per approdare ad una prosodia
narrativa di particolare efficacia, torna in questo piccolo libro
(che è edizione bilingue, con originale
in italiano e traduzioni in greco di Keti Maraka) alla misura del verso e
della lirica
breve o anche brevissima. Si
tratta, di primo acchito, di poesie ispirate ad un rapporto d'amore, in
genere di delicata semplicità, una ricerca di purezza che sembra per un
momento voler accantonare molta della complessità insita nelle precedenti
opere dell'autore veneziano: "i tuoi occhi | sono circondati dal mare.
| è
da ieri notte |
che continuo a
navigare", "hai gli occhi grigi e verdi. | come la vita | a finestre chiuse.
| come
la vita | a finestre aperte".
Ma il dato realistico ha anche risvolti
allegorici, sin dal primo lacerto: "hai aperto il libro e mi hai mostrato
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la mappa della mia città | che volevi conoscere. | te ne ho descritto le
strade, |
te ne ho raccontato l'inizio e la fine. | a metà | mi ero già perso",
secondo uno smarrirsi che è amoroso ma anche intellettivo, "diventai sordo
|| e negli orecchi || di colpo i boschi | smisero di mormorare ||
il vento | di
stormire".
Perdere i sensi come perdere il senso, dunque, per trovarne uno nuovo, dettato dall'emozione del
sentimento che nasce. Un'emozione che è cammino e attraversamento ("l'altro
lato del tavolo | lo raggiungo in piena notte", un'idea che molto
piacerebbe al
Magrelli dei
primi anni Ottanta...), strascico sui fondali ("ci sono nella notte reti profonde"),
innalzamento ("mi alzai sulle punte | per poterti baciare meglio.
| e da lì, dall'alto, | vidi d'un tratto il mondo intero"), ebbrezza (si veda
la poesia XVIII, vero gioiello dell'intera
raccolta). Gli amanti divengono "un'isola perfetta", la pioggia più volte evocata e presente diviene una
metafora dello stesso rapporto con le sue diverse attitudini (a dirotto
"intransitiva", obliqua "subordinata e congiuntiva")
o addirittura una sorta di clessidra per misurare "i minuti ad ascoltarla", quando "nessuna
distanza | sembrò più separarli". L'annullamento nell'altro
è compiuto: "mi indicò il cielo. || e vidi alzarsi il braccio | col dito puntato,
|| solo che della luna |
non mi importava più niente | ora che avevo la sua mano || di fronte ai miei
occhi", ma
è un annullarsi che è anche condivisione in quanto "se proprio buio dev'essere
|| che sia
quello in cui | le nostre mani si toccano | fino all'alba. ||
quello delle
parole | senza fine". La silloge si chiude così: l'eternità possibile,
il futuro esplorabile sono affidati alla
parola, unico
vero bene (e potere) di un poeta anche quando è parola applicata alla vita. | |
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Recensione |
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